Velleius Paterculus

Della vita di Velleio Patercolo ci rimangono solo le scarne notizie che incidentalmente ci fornisce lui stesso. Nasce da una famiglia campana di elevata condizione e di tradizioni militari: ricorda la carriera militare del nonno paterno, del padre, del fratello, e ci dà informazioni sulla sua: dice di aver militato in oriente con Caio Cesare, il figlio adottivo di Augusto; di essere stato poi con Tiberio come comandante della cavalleria in Germania e in Pannonia; fu poi legato ancora di Tiberio nel 6 d.C., quando preferì questa carica a quella di questore cui era stato designato per l’anno successivo. Partecipò al trionfo di Tiberio del 13 d.C. L’ultima notizia che dà di sè (e ci è arrivata) risale al 14 d.C., anno nel quale Tiberio, divenuto imperatore, lo designò, dice, alla carica di pretore, assieme al fratello, per l’anno seguente.

Non sappiamo quando Patercolo morì, tuttavia deve essere vissuto almeno fino al 30 d.C., anno nel quale fu console quel Marco Vinicio cui sono dedicate le Historiae, l’opera storica che è l’unica sua di cui abbiamo notizia. Per la verità, Patercolo accenna più volte di avere avuto l’idea di scrivere una storia ampia e meditata del periodo dalla guerra civile fra Cesare e Pompeo fino ai suoi tempi, ma il proposito deve essere rimasto nelle intenzioni.

Delle Historiae rimangono larghi estratti, ma con molte lacune: tra l’altro è perduto l’inizio, compresa la eventuale dedica a Marco Vinicio, cui l’autore si rivolge però diverse volte in seconda persona nel corso della narrazione. L’opera abbraccia un arco di tempo vastissimo: l’inizio, perduto nel mito, doveva essere la guerra di Troia, la fine, immediata e concreta, era il consolato di Vinicio (30 d.C.). Dei due libri dell’opera, il primo si fermava alla distruzione di Cartagine e di Corinto (146 a.C.), la definitiva affermazione del dominio romano nel Mediterraneo che diveniva Mare nostrum. Dopo la lacuna iniziale, la porzione che possediamo inizia con la fondazione di Metaponto nel VII secolo a.C.

Le Historiae abbracciano un arco di tempo vastissimo: l’inizio lontano e leggendario non interessa direttamente la materia trattata, secondo uno schema convenzionale dell’annalistica, del resto la narrazione scorre frettolosa per arrivare rapidamente all’epoca recente. Di converso, man mano che ci si avvicina all’età contemporanea la narrazione si fa via via più particolareggiata, sicchè ne esce un racconto assai disomogeneo e ineguale. Spesso Patercolo accenna alla festinatio, nel corso dell’opera, alla fretta con cui ha steso il racconto, alla rapidità della narrazione. Il fatto che la composizione sia stata di proposito veloce, probabilmente strettamente legata all’evento del consolato di Vinicio e perciò contenuta nel solo anno 30, non impedisce che il materiale utilizzato e le fonti consultate siano stati accuratamente scelti e preparati: Patercolo nomina esplicitamente solo Catone e gli Annales di Ortensio, nelle parti rimaste, tuttavia deve aver conosciuto tutte le principali fonti latine, Livio, naturalmente, Sallustio, Cornelio Nepote, e greche.

Quando poi il racconto giunge all’età di Tiberio, agli ultimissimi anni di quell’immenso periodo, l’interesse storico diventa il pretesto di una sorta di panegirico dell’imperatore, e anche lo stile si adegua, divenendo enfatico, quasi che tutta la parte precedente ne fosse solo il proemio. Comprensibile è la stima che Patercolo aveva in Tiberio, il generale valoroso e capace sotto il quale aveva servito in importanti incarichi per tanti anni in tante vittoriose campagne. Comprensibile è anche la riconoscenza che doveva avere per il principe dal quale aveva avuto onori e benefici. Infine, va notato che gli anni più oscuri del principato di Tiberio, quelli aspramente censurati da Tacito, furono gli ultimi, quelli che all’epoca delle Historiae dovevano ancora arrivare; e che, al di là del racconto di Tacito, la figura di Tiberio è altrimenti poco conosciuta. Tuttavia, l’adulazione del principe senza l’approfondimento del periodo ci rivela il limite dello storico. Patercolo non rifiuta tentativi di interpretazione dei fatti, ma si risolvono immancabilmente nell’applicazione di schemi moraleggianti troppo semplicistici e in definitiva superficiali.

Velleio Patercolo è fondamentalmente un fautore della legalità, come accade a molti militari, i quali desiderano una disciplina civile affine a quella militare. Perciò, egli è un ammiratore entusista dell’ordine imperiale, vede nel principato la garanzia dell’ordine nell’impero e in Tiberio, il legittimo successore di Augusto, il rispetto di quest’ordine, dopo le drammatiche guerre civili del secolo precedente. Allo stesso modo, però, trattando delle guerre civili, aveva parteggiato per Silla contro Mario e per Pompeo contro Cesare, considerandoli egualmente espressione della legalità ai loro tempi. La mancanza di preconcetti e ideologie nel giudicare i fatti, elemento così positivo in uno storico, si risolve quindi in uno schema ingenuamente moralistico. Le cause vere e profonde degli avvenimenti, alla incerta luce del suo semplicismo, gli sfuggono. Tutto dipende dalla personalità dei protagonisti, che egli indaga con curiosità, e le Historiae diventano una sorta di galleria di personaggi, dei loro pregi e difetti.

Dal punto di vista artistico, la prosa enfatica dell’ultima parte, al di là dell’adulazione, è sovente efficace. Patercolo, inoltre, introduce di tanto in tanto nella narrazione la descrizione della civiltà del periodo e giudizi storico-letterari, novità di grande interesse in un’opera storica. Tuttavia, non ebbe grande fortuna nè nell’antichità nè nei secoli seguenti.