Phaedrus

Di Fedro, il maggiore favolista latino, abbiamo poche, incerte notizie. Le sua Fabulae, di cui ci sono stati tramandati cinque libri che certamente non esauriscono la sua produzione, sono anche l’unica fonte o quasi di notizie sul suo conto. Nei prologhi che precedono ciascuno dei cinque libri e negli epiloghi che chiudono il secondo, terzo e quarto libro Fedro dà qualche notizia di sé, ma purtroppo sono per noi spesso oscure. Dovette nascere in Tracia, o forse in Macedonia, attorno al 15 a.C. Era di condizione servile, ma dovette ricevere una buona educazione letteraria se è vero che in gioventù studiò Ennio (nell’epilogo del terzo libro riporta infatti una famosa massima di Ennio che afferma infatti di aver letto quando era puer). Questa stessa informazione fa pensare che venne a Roma giovinetto, ma ne ignoriamo il motivo.

In una favola del terzo libro si incontra un divo Augusto mentre nel secondo libro dà a Tiberio l’appellativo di Caesar. Se ne può dedurre che Fedro fosse già attivo durante il principato di Ottaviano, forse addirittura che la prima parte della raccolta sia stata pubblicata sotto di lui. Peraltro, la deferenza verso Augusto può anche essere legata al fatto che da lui fu affrancato – è infatti citato come Augusti liberti nei manoscritti – ottenendone il praenomen Gaio e il nomen Giulio. E d’altra parte, Fedro non doveva avere motivi di riconoscenza per Tiberio, dal cui potentissimo ministro Seiano subì il torto ricordato nel prologo del terzo libro ma non meglio precisato. In ogni caso, secondo l’opinione più accreditata il primo libro fu pubblicato dopo la morte di Augusto, il secondo durante il ritiro di Tiberio a Capri, gli ultimi tre sotto Caligola e Claudio.

Dal fatto che si dice vecchio si immagina che sia vissuto a lungo. La sua morte si può ragionevolmente collocare attorno alla metà del I secolo d.C.

I cinque libri di Fabulae che sono giunti a noi contengono 95 favole, tutte in versi senari giambici, così ripartite: 31 nel primo libro, 9 nel secondo (di cui l’ultima è un commento dell’autore, una sorta di epilogo), 19 nel terzo, 26 nel quarto (l’ultima è un commento dell’autore, questa volta premesso all’epilogo), 10 nel quinto. Il fatto che il secondo e il quinto libro siano decisamente più brevi degli altri, unito al fatto che nei prologhi Fedro accenna a elementi che non si ritrovano nelle favole che leggiamo oggi, fa ritenere che una parte della sua produzione non ci sia arrivata. Forse questo è in parte conseguenza di un’operazione di censura, che nel corso dei secoli avrebbe cancellato una vena licenziosa originariamente più accentuata, di cui peraltro rimane scarsa traccia in ciò che è rimasto. Se è vero che Fedro non intendeva scrivere per i fanciulli, è anche vero che la sua opera ha sempre avuto fortuna tra gli adulti per essere proposta ai giovani con un intento pedagogico e didattico cui mal si adatta l’impenitenza.

Peraltro, altre 32 favole che sono state trovate in diversi manoscritti e riunite dall’umanista Niccolò Perotti nel ‘400 sono unanimemente attribuite a Fedro e sono comunemente aggiunte ai cinque libri certi sotto il nome di Appendix Perottina. Inoltre, ci rimangono numerose altre favole in prosa riconducibili ad un originale fedriano corrotto e trasposto in prosa nel corso dei secoli, a testimonianza della continuità di lettura e di apprezzamento che Fedro ebbe nel Medio Evo.

Il punto di riferimento di Fedro nel corso di tutta la sua produzione è naturalmente il greco Esopo. Anzi, è stato detto che Fedro sarebbe non più che un traduttore dagli originali esopiani. Deve però essere osservato che nel progresso della elaborazione del materiale e della pubblicazione dei libri si osserva una crescente autonomia di Fedro rispetto all’originale. Se nel prologo del primo libro egli dice di sé: Aesopus auctor quam materiam repperit, hanc ego polivi versibus senariis, e nel prologo del secondo libro aggiunge: Exemplis continetur Aesopi genus, professandosi semplice traduttore e traspositore in versi della prosa greca, già nell’epilogo del secondo libro afferma:

Aesopi ingenio statuam posuere Attici, / servumque collocarunt aeterna in basi, / patere honoris scirent ut cuncti viam / nec generi tribui sed virtuti gloriam. / Quoniam occuparat alter ut primus foret, / ne solus esset, studui, quod superfuit. / Nec haec invidia, verum est aemulatio. / Quodsi labori faverit Latium meo, / plures habebit quos opponat Graeciae.

Nel prologo del terzo libro accenna ai Phaedri libellos, ma la sua mente è tutta occupata dalle disgrazie che certi racconti dei primi due libri gli dovevano aver procurato da parte di personaggi influenti che si erano riconosciuti in quei racconti. Non sappiamo nulla di queste liti e di quale sia stata la loro conclusione, ma nel quarto libro Fedro, mostrandosi libero ormai da ogni preoccupazione, rivendica la propria originalità, la propria autonomia inventiva, il proprio spazio asserendo:

[fabulas] quas Aesopias, non Aesopi, nomino, / quia paucas ille ostendit, ego plures sero, / usus vetusto genere sed rebus novis

finché nel prologo del quinto libro liquida Esopo asserendo di avergli già tributato tutti gli onori dovuti, se non di più, e rivendica la sua originalità e con essa il suo posto nell’Olimpo:

Aesopi nomen sicubi interposuero, / cui reddidi iam pridem quicquid debui, / auctoritatis esse scito gratia; / ut quidam artifices nostro faciunt saeculo, / qui pretium operibus maius inveniunt novis / si marmori adscripserunt Praxitelen suo, / detrito Myn argento, tabulae Zeuxidem. / Adeo fucatae plus vetustati favet / invidia mordax quam bonis praesentibus. / Sed iam ad fabellam talis exempli feror.

Caratteristiche delle favole di Fedro sono la brevitas e la varietas, che nelle sue parole sono un vero programma di scrittura e i migliori pregi dei suoi libri. Come già aveva fatto Esopo, egli fa parlare e pensare e attribuisce vizi e virtù umane agli animali. Quando fa parlare personaggi umani, non si ferma nemmeno di fronte al princeps, come quando mette Tiberio al centro di una favola. Del resto, anche il celare riferimenti a persone dietro l’uso di animali non rendeva meno personali i risentimenti, come forse ebbe a spiegargli Seiano, se è vero che si sentì colpito da qualche allusione in una favola. Il duplice scopo di questa finzione, far sorridere ed ammonire con un insegnamento edificante, è espresso nel prologo del primo libro:

Duplex libelli dos est: quod risum movet, / et quod prudenti vitam consilio monet. / Calumniari si quis autem voluerit, / quod arbores loquantur, non tantum ferae, / fictis iocari nos meminerit fabulis.

Il senario è il verso della letteratura latina arcaica, sentito come sacrale e solenne. La scelta del senario da parte di Fedro non è certo casuale: egli intende affermare sin da questa scelta che il genere della favola non merita la scarsa considerazione, la sufficienza con cui è guardato. In effetti, la favola, che in greco aveva avuto, dopo Esopo, schiavo frigio vissuto nel V secolo a.C., numerosi cultori in età ellenistica, non aveva precedenti in lingua latina. Fino ad allora il genere favolistico vero e proprio era stato snobbato forse perché sentito poco romano. Per meglio dire, la favola era identificata non come genere a sé stante, ma come parte di un genere già esistente nella letteratura latina e di antica tradizione: la satira. Della satira la favola appare una sorta di contaminatio, cioè una aggiunta al tema principale della satira di un elemento estraneo che qui è quello favolistico.

A parte il racconto di Tito Livio del celebre apologo delle membra e dello stomaco raccontato da Menenio Agrippa alla plebe radunata sull’Aventino, apologhi erano stati usati, sempre come digressione, dai maggiori del genere satirico: Ennio, Lucilio, Orazio, Giovenale. E, a parte Orazio, che si compiace in diversi luoghi di utilizzare favole – riprende tra l’altro il celebre apologo del topo di città e del topo di campagna in Satirae II, VI, la satira esplicitamente dedicata ad uno dei suoi cavalli di battaglia, l’elogio della vita di campagna – e pur tenendo conto del fatto che della produzione satirica arcaica abbiamo poco, si tratta sempre di citazioni singole; in Persio addirittura non ce ne è traccia.

Fedro intende far uscire dall’emarginazione la fabula, intesa qui come apologo morale, e farla assurgere a genere letterario fornito di ogni dignità. La scelta della poesia, mentre Esopo aveva scritto in prosa, e del metro, il senario, da un lato si ricollega alla tradizione latina, appunto alla poesia arcaica e alla satira – in definitiva a quell’Ennio citato da Fedro che era sentito come il vero padre della letteratura latina e che della satira letteraria sembra fosse l’inventore e certamente il primo autorevole interprete – dall’altro si vuole staccare dalle semplici novelle in prosa che pure diedero luogo a notevoli capolavori della letteratura latina, ad esempio con Petronio.

Il suo intento preciso nasce dall’ambizione che lo divora di passare alla storia della letteratura. E di passarci come autore latino: egli dichiara la propria nascita non lontano dalla Grecia, in Grecia colloca la propria origine letteraria, ma rivendica la propria formazione letteraria e spirituale romana. Peraltro, non ha particolare simpatia per i Greci e nell’epilogo del secondo libro afferma: quodsi labori faverit Latium meo, plures habebit quos opponat Graeciae. Egli probabilmente sa che la sua poesia non è paragonabile a quella dei grandi; modestamente, però, e furbescamente, sceglie un genere nuovo, nel quale non si confronta con nessuno perché lo inizia. Se è vero che spesso è stato sottovalutato anche come poeta, è altrettanto vero che il suo merito principale sta appunto nel fatto di essere un innovatore; ed è un merito che, come lui sperava, non può essergli contestato.

Fedro desiderava ardentemente passare alla storia e c’è riuscito: le sua Fabulae, pur di non eccelso valore, sono oggi ripubblicate, lette e proposte ai ragazzi che devono imparare il latino. Ma la sorte ha voluto che fosse pressoché ignorato dai suoi contemporanei: a parte Quintiliano, che peraltro già allora consigliava di utilizzarne il latino semplice come strumento didattico adatto ai ragazzi, e Marziale, che con il verso [Canius Rufus] an aemulatur improbi iocos Phaedri vuole forse alleggerire un giudizio non proprio positivo sull’autore con una facezia che ricorda l’uso eccessivo del vocabolo improbus in Fedro, non è più citato o ricordato fino ad Aviano, autore di un libro di favole nel IV secolo d.C., unico e lontano epigono di Fedro nel genere favolistico in lingua latina. In compenso, la fortuna di Fedro (e dello stesso Aviano) nel Medio Evo e fino ai nostri giorni è stata grande.