Gli eventi della vita di Ottaviano Augusto, fondatore dell’Impero Romano, pater patriae, uno degli uomini le cui azioni hanno più influito sulla storia dell’umanità intera, sono curiosamente scanditi dai nomi che via via assunse nell’arco della sua esistenza. Nato a Roma il 23 settembre del 63 a.C. col nome di Gaio Ottavio Cepia Turino, figlio di Gaio Ottavio, un homo novus di famiglia equestre, e di Azia, nipote di Giulio Cesare (era la figlia della sorella Giulia), alla morte del prozio – avvenuta, come è noto, il 15 marzo 44 a.C. – scoprì di essere stato da lui adottato in segreto qualche mese prima di essere assassinato ed assunse quindi il nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano (ove il gentilizio di nascita diveniva, secondo l’uso, cognomen), significando con ciò non solo la sua adesione alla famiglia del padre adottivo ma soprattutto – e lo si vide in breve tempo – la sua volontà di raccoglierne il testimone politico e di diventarne il continuatore; era allora un ragazzo di diciotto anni.
Dopo il trattato di Brindisi – che sanciva l’accordo con cui nel 40 a.C. i triumviri Marco Antonio, Marco Emilio Lepido e lo stesso Ottaviano si spartivano le province dell’impero quali rispettive zone d’influenza – si fece chiamare Imperatore Cesare Ottaviano, atto con cui sottolineava il proprio potere civile e militare, di cui il termine imperator era l’espressione e il nome Cesare era l’incarnazione, sia pure su una parte dei domini romani. Se già Giulio Cesare aveva usato il titolo imperator non semplicemente come espressione del comando militare ma, in senso più esteso, per rappresentare il potere assoluto militare e civile, era la prima volta che questo termine diveniva parte del nome e con ciò personificazione di tale potere. Allo stesso modo, era anche la prima volta che il cognomen di Giulio Cesare venive usato come gentilizio, con ciò preparandosi a divenire il gentilizio degli imperatori e rapidamente un vero e proprio titolo onorifico.
Infine, quando il 16 gennaio 27 a.C. il senato reagì alle proteste di Ottaviano, di volersi ritirare a vita privata, supplicandolo per il bene dello stato di rimanere al proprio posto e decretandogli, su mozione di Munazio Planco, il titolo di Augustus (greco Sebastòs) quale riconoscimento della sacralità della sua persona e dell’autorità del suo potere, egli divenne Imperatore Cesare Augusto. L’assunzione di questo nome a un tempo inaugurava un nuovo titolo onorifico, quello di Augustus, che diverrà più splendido ancora del titolo di Caesar, e sanciva (secondo l’opinione più comune e fondata) l’inizio del principato quale forma di governo del mondo romano; una forma di governo che, con varie modifiche e adattamenti e la progressiva trasformazione in dominatus, durò cinque secoli in occidente e quindici secoli in oriente. Nel seguito, ci riferiremo a lui in generale come Ottaviano Augusto o, meglio, secondo l’uso, con il nome che compete al momento del contesto del quale si parla.
La giovinezza e l’approdo alla vita politica
Annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi.
(Res gestae I)
Suetonio riporta (De vita Caesarum – Divus Augustus 1-8) che la famiglia degli Ottavi era molto antica e assai distinta tra quelle del suo territorio di origine, quello di Velitrae (oggi Velletri); ammessa in senato al tempo di Tarquinio Prisco e annoverata tra i patrizi da Servio Tullio, sarebbe nel tempo decaduta fino a ritornare nell’ordine plebeo. L’ampiezza del patrimonio permise agli Ottavi di appartenere comunque all’ordine equestre fino a quando Gaio Ottavio padre fu da Giulio Cesare restaurato nel rango di patrizio e creato senatore. Egli, infatti, per primo nella sua famiglia da lungo tempo aveva cercato fortuna al di fuori della cerchia delle magistrature municipali, arrivando alla pretura e al governo della provincia di Macedonia, incarichi che disbrigò mettendo in mostra notevoli qualità di giustizia e risolutezza. Pur se è incontestabile che la storia la fanno i vincitori, in base a queste notizie sembrano però doversi rigettare senz’altro come insinuazioni offensive, dettate forse da scarsa signorilità, le affermazioni di Marco Antonio nelle sue lettere a Ottaviano, pure riportate da Suetonio, secondo le quali il bisnonno sarebbe stato un liberto fabbricante di cordami originario di Thurium e il nonno un usuraio, così come la tradizione, cui accenna ancora lo storico, che faceva di Gaio Ottavio padre un cambiavalute.
Comunemente si accetta la notizia che Ottavio nacque a Roma sul colle Palatino, nel luogo ove, informa Suetonio, gli fu dedicata una cappella subito dopo la sua morte. Cassio Dione (Romaiké historìa, nel seguito Historia Romana XLV, 1) lo dice originario di Velitrae, nel paese dei Volsci; anche Suetonio ricorda che in una villa della famiglia degli Ottavi nelle vicinanze di Velitrae era conservato il luogo ove l’infante fu accudito nelle prime settimane di vita e che nel circondario si riteneva che là fosse anche nato. Questa ipotesi ci appare logica quanto quella che sia nato a Roma, ove i suoi genitori risiedevano, e sia stato poi portato in campagna per la tranquillità sua e della madre. Il cognomen Caepias è tramandato da Cassio Dione; Suetonio riporta invece che il piccolo Gaio Ottavio fu presto soprannominato Thurinus (e che questo soprannome era usato spregiativamente pure da Marco Antonio nelle sue lettere, peraltro accettato come vero da Ottaviano nelle risposte), forse perché la sua famiglia conservava un ricordo di una eventuale origine dalla città di Thurium, oppure perché, poco dopo la nascita del figlio, il padre era stato incaricato dal senato, prima di assumere il governo della Macedonia, di disperdere le bande di briganti, relitti degli eserciti di Spartaco e di Catilina, che avevano preso possesso proprio del territorio di Thurium.
Ma un’altra possibilità per lo storico moderno è evidentemente che sia nato a Thurium stesso; implicitamente questo farebbe pensare a una discendenza turina molto più ravvicinata di quella suetoniana, e in definitiva darebbe ragione a Marco Antonio. Del resto il nome Thurinus non sembra potersi porre in dubbio: doveva essere ben noto ai contemporanei di Ottaviano Augusto, poiché Suetonio aggiunge che egli stesso, fin da quando era un ragazzo, era in possesso di una statuetta di bronzo di Augusto con quel nome in lettere di ferro; e che egli donò la stautetta all’imperatore Adriano, che la onorava tra gli altri numi tutelari. Ma tutta questa ipotesi non si conformerebbe alla reputazione della famiglia Ottavia e di Gaio Ottavio padre in particolare (attestata oltre che dagli storici anche da Cicerone in una lettera ad Quintum fratrem).
Gaio Ottavio padre mancò improvvisamente quando il piccolo Gaio Ottavio aveva appena quattro anni (cioè nel 59 a.C.); a 12 anni (nel 51 a.C.), Ottavio perse poi la nonna Giulia, di cui pronunciò l’orazione funebre, facendo, così giovane, la sua prima apparizione pubblica. In seguito, in un momento non meglio noto, Ottavio dovette suscitare su di sé l’attenzione del prozio Giulio Cesare, il quale, a partire dall’età in cui Ottavio assunse la toga virile (48 a.C.), si fece carico pubblicamente della sua formazione. Già nel 48 a.C., a soli quindici anni, lo fece entrare nel collegio dei pontefici; negli anni seguenti, non è noto esattamente quando, lo fece entrare nell’ordine patrizio. Nel settembre del 46 a.C. – Ottaviano aveva appena compiuto diciassette anni – Cesare lo fece partecipare al proprio trionfo per celebrare la vittoria di Tapso, in Africa, contro i pompeiani, sebbene Ottavio non avesse preso parte alla campagna (era quello il quarto e ultimo trionfo della serie celebrata quell’anno tra agosto e settembre: nella sua acclamata velocitas nelle azioni militari Cesare aveva accumulato un po’ di arretrato in fatto di trionfi). Cesare partì poi per la campagna spagnola contro i figli di Pompeo senza Ottavio, probabilmente in preda a una fastidiosa malattia, ma quest’ultimo lo raggiunse non appena ristabilito, nonostante il pericolo di ricaduta, con un viaggio avventuroso (durante il quale fece naufragio e fu costretto ad attraversare con pochi compagni i territori occupati dai nemici) che gli procurò l’ammirazione dello zio. Dopo il trionfo di Munda (nel marzo del 45 a.C.) sui pompeiani, Cesare si preoccupò di procurare ad Ottavio una accurata educazione, spedendolo ad Apollonia in Epiro (con l’intesa, probabilmente, di richiamarlo al momento di partecipare alla campagna contro i Daci e i Parti che sembra progettasse per l’anno seguente): Ottavio fu allievo, fra gli altri, del filosofo stoico Areio Didimo e dei retori Marco Epidio e Apollodoro di Pergamo. Nel frattempo, a settembre di quello stesso anno, Cesare lo adottò e lo nominò suo erede principale nel testamento, senza peraltro farne parola né con lui né con alcun altro. Sembra infine (Cassio Dione, Historia Romana XLIII, 51) che, quando al principio del 44 a.C. Cesare volle nominare tutti assieme i magistrati dei due anni seguenti, a Ottavio avesse riservato la carica di magister equitum per il 42 o già nel 43 a.C.
Così, il 15 marzo del 44 a.C., quando il dittatore a vita Gaio Giulio Cesare, appena giunto nella Curia Pompeia per presiedere una seduta del senato, venne ucciso ai piedi della statua del suo grande avversario Pompeo dalle pugnalate della congiura guidata da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, Ottavio era immerso nei suoi studi ad Apollonia. Qui fu raggiunto ben presto dalla notizia della morte dello zio e forse della disposizione testamentaria che lo adottava e lo faceva suo erede. La determinazione, la prudenza e l’audacia di Ottavio, che saranno le qualità più appariscenti del preminente ruolo politico che si procurerà d’ora in poi, si manifestano fin da questo momento. Diverse possibilità gli si presentano innanzi: gli amici e alcuni alti ufficiali gli consigliano di prendere il comando delle truppe di stanza nelle vicinanze (lì concentrate forse per la campagna partica) fedeli a Cesare, ma anche, così facendo, di rinunciare all’eredità e precipitare immediatamente la repubblica in un nuovo conflitto intestino dall’esito incerto; la sua famiglia vorrebbe che mantenesse un basso profilo nella contesa e venisse a Roma da privato cittadino, in modo da non correre rischi particolari, e senza prender possesso della sua eredità, che l’ansia della madre Azia e la meditata opinione del patrigno Marcio Filippo ritengono foriera di guai e pericoli; egli infine opta per la prudenza fino all’arrivo in Italia, a Brindisi, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, con lo scopo di assumere migliori informazioni – tra le quali la conferma o forse la notizia dell’adozione – per poi passare all’audacia e, dandosi il nome di Cesare prima ancora che le formalità dell’adozione fossero espletate, conquistare alla sua causa un esercito che lo sostenesse. A partire dalla metà di aprile di quel 44 a.C. cominciò a risalire, lentamente ma senza soste, l’Italia verso Roma raccogliendo ovunque simpatizzanti: al solo nome di Cesare numerosi veterani delle campagne galliche e delle guerre civili, che erano stati collocati a riposo con distribuzioni di terre nelle colonie italiche, unirono entusiasticamente il loro destino a quello del suo figlio adottivo. È da credere che la maggior parte, dopo avergli garantito la propria lealtà e il proprio aiuto, rimasero per il momento nelle proprie case; ma di certo quando il nuovo Cesare giunse a Roma, il suo seguito era enormemente cresciuto ed era quello di un maggiorente della repubblica.
A Roma la situazione dopo l’uccisione di Cesare era tuttora molto incerta. I cesaricidi, ardenti di libertà, erano certamente convinti che il popolo fosse tutto con loro, e che anche gli indecisi sarebbero stati decisi dal fatto compiuto. Così non accadde: la prima reazione popolare fu lo sconcerto, non la gratitudine né il furore repubblicano. Il popolo amava Cesare, nonostante questi avesse preso a comportarsi da re – delle prerogative regali avendo rifiutato solo la corona – e, privato dell’oggetto del desiderio e a un tempo dell’avversione, divenne instabile. Il senato si dimostrò altrettanto ondeggiante, tanto che nella seduta del successivo 17 marzo non se la sentì di agire contro i cosiddetti liberatori, decretando anzi un’amnistia per il tirannicidio, ma neppure di dichiarare morto un tiranno, se ratificò indiscriminatamente tutti gli atti di Cesare e gli decretò i funerali di stato. Le successive mosse dei liberatori non furono conseguenti a questo stato di cose, tanto che appare evidente che nulla di più dell’assassinio fosse stato previsto.
Pare che i congiurati, dopo un periodo di inerzia, avrebbero agito sotto l’impulso della fretta, per impedire a Cesare di diventare re per suggestione popolare – un responso della Sibilla aveva predetto che i Parti sarebbero stati sconfitti solo da un re – o, forse più realisticamente, per impedirgli di partire per la campagna partica e di tornare con una nuova vittoria che avrebbe reso inevitabile l’instaurazione di quel governo assoluto di cui in pochi mesi Cesare aveva posto le basi. Comunque, la loro azione non appare ispirata a una visione politica della realtà: speravano evidentemente che bastasse uccidere il dittatore per ripristinare lo stato precedente all’avvento di Cesare; credevano che tanti anni di contrasti, poi di guerriglia intestina nella stessa città di Roma, poi di vera e propria guerra civile per tutto il Mediterraneo, potessero essere annullati dal semplice richiamo della libertà; non seppero prevedere l’incertezza del popolo né, dopo il tirannicidio, seppero coglierla e prenderne la guida, nonostante l’appoggio del senato; in definitiva non avevano un vero piano per la restaurazione della repubblica, che non poteva invece avvenire senz’altro aiuto che l’uccisione di Cesare. Alla testa del popolo romano si misero invece gli altri, quelli che erano stati all’ombra di Cesare, con in testa il braccio destro del defunto dittatore, Marco Antonio, e il suo luogotenente, Emilio Lepido. La pronta esposizione delle spoglie di Cesare, il suo funerale con l’elogio funebre di Antonio improvvisato nel Foro e la pubblicazione del suo testamento, che prevedeva tra l’altro il dono dei suoi splendidi orti sulle rive del Tevere alla città e un legato di 300 sesterzi ad ogni cittadino romano, fecero il resto. Bruto e Cassio e gli altri dovettero alla fine abbandonare Roma e fuggire in Grecia con i loro sostenitori. Lì, in una delle province dell’impero, moriranno sul campo, eroicamente ma senza aver mai giocato un ruolo neppur marginale nella partita della libertà che essi amavano e men che meno nella genesi della nuova forma di stato che essi rifiutavano.
La conseguenza dell’impreparazione dei congiurati fu che il senato sembrò assumere di nuovo la sua autorità, grazie anche al fatto che tutti i protagonisti della scena politica sembrarono in un primo tempo riferirsi ai padri coscritti nel comune tentativo di rassicurare i cittadini: i congiurati, compiuto il tirannicidio, protestarono sin dal primo momento dal Campidoglio, dove si erano rifugiati, che nessuno aveva alcunché da temere e che gli atti di Cesare non sarebbero stati cambiati; in seguito, ricevuta l’immunità per i loro atti, si comportarono in stretto ossequio alla legittimità costituzionale, assumendo le cariche e disbrigando gli uffici ai quali erano stati chiamati – e alcuni lo erano stati dalle decisioni di Cesare, confermate dal senato – e riprendendo la vita abituale, come se nulla fosse accaduto; i cesariani, dal canto loro, mantennero il potere che avevano, ben rappresentato anche in senato, e i loro tentativi di raccogliere il testimone di Cesare furono inzialmente nell’ambito della legalità; il senato stesso, guidato in questa fase cruciale niente meno che da Cicerone, improntò la propria azione a una accorta politica di mediazione per rafforzarsi – la politica che storicamente sapeva meglio eseguire – e calmare le acque, ad esempio accettando la proposta di ratifica degli atti e delle nomine di Cesare; infine Ottavio rinunciò, da principio, a ogni pretesa men che repubblicana e legittima, sia nei riguardi dell’eredità cesariana e fisica e spirituale, sia riguardo la possibilità di vendicarsi degli assassini del padre adottivo.
Non sorprende che in questa situazione il giovane Ottavio, che d’ora in poi sarà Cesare Ottaviano, non godesse di grande credito. D’altronde, se in un scenario politico stabile Ottaviano sarebbe stato un giovane nuovo attore con qualche buona carta in mano, tra le quali il proprio talento e la raccomandazione del tiranno, per aspirare a una ottima carriera, in una situazione esplosiva, come quella dell’ennesima guerra civile seguita al tentativo di instaurare la monarchia e al tirannicidio, egli era un nuovo attore sostanzialmente sconosciuto le cui caratteristiche più appariscenti erano la giovinezza e l’inesperienza, che era stato buttato sulla scena dalla imprevista predilezione del prozio. E da tutti i primi attori fu sentito e giudicato, almeno all’inizio, non un alleato da cercare, né un nemico da cui guardarsi, e forse nemmeno un semplice interlocutore. Marco Antonio, in particolare, il quale si era subito impadronito del patrimonio di Cesare e si atteggiava a suo erede senza alcuna altra legittimità del fatto che, in conto della giovane età di Ottavio, era stato posto dal testamento di Cesare – assieme ad altri, alcuni anche nella lista dei congiurati – quale tutore dell’erede ed erede in suo luogo se il patrimonio non fosse potuto passare per qualche ragione a Ottavio, ostentò disprezzo per Ottaviano ignorandone l’arrivo a Roma, rifiutandogli a lungo un incontro, ingiuriandolo con la consueta grossolanità in ogni occasione; anche se, quando fu proposta la lex curiata per sancire ufficialmente l’adozione di Ottaviano e il suo ingresso nella gens Iulia, pubblicamente Antonio apparve appoggiare la legge, in realtà si sforzò di ritardarne l’approvazione in ogni modo, per mantenere Ottaviano in posizione di debolezza. Ma anche Cicerone, che pure andò a incontrare Ottaviano in Campania nei giorni di aprile durante la sua festosa marcia su Roma, non dovette riportarne grande impressione, se nelle sue lettere – che rimangono una testimonianza insostituibile per ricostruire gli avvenimenti di quei due anni convulsi tra il 44 e il 43 – lo giudicò politicamente poco significativo (ad Atticum XIV, 16, 1); e anche in seguito pensò di poterlo manipolare per gli scopi del senato, nonostante le ripetute prove di senno e di audacia offerte da Ottaviano. Peraltro il celebre oratore, all’instaurazione del triumvirato, pagò di persona, con la vita, la sua probità e insieme la sua miopia di vero ottimate.
Il triumvirato da Modena a Filippi
Eo nomine senatus decretis honorificis in ordinem suum me adlegit C. Pansa et A. Hirtio consulibus consularem locum sententiae dicendae tribuens et imperium mihi dedit. Res publica ne quid detrimenti caperet, me pro praetore simul cum consulibus providere iussit. Populus autem eodem anno me consulem, cum consul uterque in bello cecidisset, et triumvirum rei publicae constituendae creavit.
Qui parentem meum trucidaverunt, eos in exilium expuli iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea bellum inferentis rei publicae vici bis acie.
(Res gestae I-II)
Le prime mosse avevano garantito ad Ottaviano che egli godeva di una vasto e diffuso consenso poplare, a seguito del quale poteva contare su una sorta di milizia privata fedele, esperta e pronta a tutto. Il suo acume strategico gli permise di sfruttare questo appoggio in modo da conquistare prima della fine del 43 a.C. una posizione di preminenza rispetto a tutti gli altri antagonisti. L’occasione gliela diede proprio Antonio, che volle impelagarsi in una guerra civile nella quale egli era il nemico pubblico per quella che sembra essere una pura questione di prestigio. Ecco brevemente cosa successe (riportato da Cassio Dione, op. cit., e da Appiano, Bellum civile III e IV). Il governo della Gallia Cisalpina in quel 44 a.C. era stato assegnato da Giulio Cesare a Decimo Giunio Bruto, che poi fu uno degli assassini del dittatore; l’incarico gli era stato poi confermato dal senato come tutti gli altri. Antonio aveva invece avuto in sorte la Macedonia, ma brigò per scambiarla con la Gallia Cisalpina, più vicina e più ricca, pur mantenendo il comando delle cinque legioni assegnategli per l’altra provincia. Quando volle prendere il governo della Gallia prima della scadenza del mandato di Decimo Bruto, questi rifiutò e si barricò a Modena, dove Antonio lo assediò. Il senato era favorevole a Bruto, che era un liberatore, e anche perché l’orientamento di Cicerone, che prevalse, era contrario ad Antonio. L’opinione di Cicerone fu di avvalersi del diciannovenne che si faceva chiamare Cesare, il quale, con mossa audace, aveva chiamato a raccolta il suo esercito privato di veterani – che fu chiamato per questo il corpo degli evocati – e nel contempo aveva provocato la defezione di due delle cinque legioni di Antonio facendo, attraverso agenti inviati a Brindisi dove le legioni provenienti dalla Macedonia attendevano di porsi al comando di Antonio, promesse di larghe ricompense. Cicerone (con le Philippicae, quattordici orazioni pronunciate in senato a partire dal settembre del 44 a.C.) convinse il senato che Antonio era la minaccia più grande e che gli atti illegali del giovane Cesare dovevano essere perdonati: propose e fece approvare l’incarico di pretore a Ottaviano, legittimando il potere militare sul suo esercito, mentre Antonio era proclamato nemico pubblico. Ottaviano partì per liberare Modena dall’assedio e con essa Decimo Bruto, con il quale trovò un accordo benché fosse uno degli assassini del padre adottivo, grazie anche al fatto che la sua moderazione nel chiedere giustizia per l’omicidio di Cesare faceva sentire Bruto al sicuro.
Antonio fu sconfitto in due scontri nell’aprile del 43 a.C. e fu costretto a fuggire oltre le Alpi, dove godeva di amicizie dai tempi non lontani della conquista cesariana. La saggia politica del senato fu a questo punto quella di eliminare Ottaviano dalla competizione: fu ringraziato per i suoi servigi e gli fu concessa una ovazione, ma il comando supremo della guerra contro Antonio fu affidato a Decimo Bruto. Mentre Antonio stava per tornare con grandi forze reclutate in Gallia Transalpina, Ottaviano non fece una piega e prese tempo con una richiesta di trionfo e la candidatura al consolato (con Cicerone come collega) in sostituzione dei consoli, Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa, entrambi uccisi in combattimento a Modena. Ma il senato rimane freddo nei suoi confronti. A questo punto, Ottaviano agisce d’improvviso e con la consueta determinazione: con le sue otto legioni marcia su Roma e la prende senza colpo ferire, si impadronisce del tesoro pubblico, che distribuisce ai suoi soldati, organizza i comizi elettorali e si fa eleggere console. Con questa legittimazione del potere civile e militare – se di legittimazione si può parlare (si pensi ai commenti su questi fatti riportati da Tacito in Annales I, 10) – conclude la lungamente ritardata vicenda della propria adozione, facendola finalmente ratificare, revoca l’amnistia ai liberatori e li porta in giudizio in contumacia, facendoli condannare. Riesce finalmente a pagare anche il legato di Cesare ai cittadini romani, che stabilisce in 120 sesterzi (ma l’eredità di Cesare è sfumata e Ottaviano li paga di tasca sua, cedendo anche beni di famiglia per farlo).
Questi atti non rimangono evidentemente senza conseguenze, poiché Ottaviano ha tagliato i ponti con il senato, mentre Antonio può entrare in Italia da un momento all’altro con ingenti forze militari e Bruto e Cassio, che ora sanno di essere sul punto di divenire nemici pubblici, stanno prendendo il controllo delle province orientali e si stanno preparando alla battaglia senza più molti scrupoli costituzionali. E ancora una volta il diciannovenne Cesare è all’altezza della situazione. Nonostante il garbuglio politico-militare e la posta in gioco, il suo ragionamento è ancora di una limpidezza cristallina: decide che il primo pericolo da affrontare sono gli ex liberatori, quindi deve raggiungere un accordo con Antonio. Nasce il (secondo) triumvirato. Come Licinio Crasso aveva fatto da mediatore tra Cesare e Pompeo in occasione del primo triumvirato, ora la presenza di Lepido, che era stato magister equitum di Cesare dittatore nel 44 a.C., consente il riavvicinamento e la conciliazione tra Antonio e Ottaviano e la creazione del secondo triumvirato. L’incontro definitivo avviene su un’isola al centro del fiume Reno, nei pressi di Bologna, nell’autunno del 43 a.C. Ma se il primo triumvirato era stato un accordo privato di reciproco aiuto e di non interferenza, e non poteva essere di più nella libera repubblica, il secondo triumvirato nella repubblica sfibrata dalle lotte intestine è un accordo pubblico di spartizione dello stato: esso stabilisce la creazione di una magistratura, un incarico pubblico appunto, di tre triumviri rei publicae constituendae in carica cinque anni (il primo mandato terminava il 31 dicembre del 38 a.C.); e i triumviri, che sono naturalmente gli stessi Marco Antonio, Ottaviano e Lepido, per prima cosa decidono di dividersi le province occidentali (quelle orientali sono per il momento fuori controllo) e gli eserciti, secondo un evidente criterio di importanza relativa. Che i triumviri non sono eguali, al contrario delle tradizionali magistrature multiple romane, lo attestano le differenti sfere di influenza: la Gallia Narbonense e le Spagne, regioni ormai tranquille, vanno a Lepido con tre legioni, le Gallie Cisalpina e Transalpina ad Antonio con venti legioni, e infine l’Africa, la Sardegna e la Sicilia (dove però si attestò subito Sesto Pompeo) con altre venti legioni a Ottaviano; l’Italia non venne divisa e rimase, per ora, sotto l’amministrazione del senato.
Se meno di quindici anni prima Cicerone non poteva neppur credere alle voci di un accordo tra Pompeo e Cesare, ora non ebbe bisogno di voci per credere all’accordo tra Ottaviano e Antonio, poichè esso fu ratificato pro salute rei publicae dal senato il 27 novembre del 43 a.C. con la lex Titia proposta dai tribuni della plebe. Per l’Arpinate l’effetto del nuovo triumvirato fu incommensurabilmente drammatico poichè, oltre al crollo delle residue speranze di restituire alla repubblica i suoi fasti e al senato il suo ruolo, questo evento gli costò la vita: tra gli accordi del Reno c’era l’eliminazione degli avversari politici, e Cicerone era divenuto con le Philippicae un nemico personale di Antonio. I sicari dei triumviri – poichè furono tutti egualmente responsabili di questo nuovo eccidio, dopo le proscrizioni sillane e le guerre civili – raggiunsero tra le prime diciassette vittime l’anziano oratore nei pressi della sua villa di Formia e lo uccisero nella lettiga con cui cercava scampo; la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Philippicae, furono esposte sui rostri del foro a Roma. Era l’ultimo ardente credente nella libertà romana, e non è incredibile l’aneddotto conservato da Plutarco (Cicero XLIX, 5), secondo il quale un Augusto ormai nonno avrebbe preso dalle mani di uno dei suoi nipoti, che cercava di nasconderlo alla sua vista, il libro di Cicerone che stava leggendo e nel ridarglielo avrebbe qualificato l’Arpinate un uomo dotto e un vero patriota. Ma l’eliminazione degli avversari ritenuti pericolosi o punibili non si fermò qui: come in occasione della proscrizione sillana, una lista di nomi fu affissa pubblicamente, poi un’altra. Appiano stabilì (op. cit. IV, 5) che complessivamente fossero stati eliminati circa trecento senatori e duemila cavalieri; se le cifre non sono verificabili, i numerosissimi episodi relativi ai proscritti riportati dagli autori testimoniano della profonda impressione suscitata da questo nuovo periodo di terrore. Altri esponenti di spicco del senato e della vita pubblica riuscirono a fuggire e andarono a ingrossare le file di Sesto Pomepo in Sicilia e soprattutto di Bruto e Cassio in oriente.
E forse proprio la lotta ai cesaricidi è all’origine del triumvirato. La parte orientale dei domini di Roma era ormai sotto il controllo di Bruto e Cassio e lo scontro era vieppiù inevitabile per chiunque volesse raccogliere il potere assoluto: e i due candidati Antonio o Ottaviano pensarono certamente che fosse meglio risolvere la questione con le forse unite e intatte, rimandando le questioni personali a un momento successivo (e magari sperando che l’altro contendente non tornasse vivo dalle operazioni militari). Perciò avviarono immediatamente i preparativi per la campagna, che iniziò regolarmente con l’avvio dell’estate del seguente anno 42. Dopo una serie di scaramucce per i Balcani, in ottobre i due eserciti si scontrarono in due susseguenti battaglie nella piana di Filippi, in Macedonia. I cesariani vi riportarono una vittoria definitiva: Bruto e Cassio si suicidarono e i superstiti del loro esercito si dispersero (in parte andarono in Sicilia ad ingrossare le fila di Sesto Pompeo). L’effetto immediato della vittoria di Filippi fu la redistribuzione delle province: Lepido ebbe nuovamente la provincia meno importante, l’Africa, che aveva l’effetto di confinarlo anche geograficamente fuori dai giochi; Ottaviano, mantenendo Sicilia e Sardegna, nonostante non avesse brillato personalmente ottenne la Spagna e l’Italia, cui venne aggregata la Gallia Cisalpina, che cessò pertanto di essere una provincia e ottenne i privilegi del resto dell’Italia (assetto che si è poi perpetuato fino ai giorni nostri); Antonio ebbe ancora una volta la parte migliore, cioè tutto l’oriente, mantenendo la Gallia Transalpina con in aggiunta la Gallia Narbonense. Anche gli incarichi furono assegnati alla luce della nuova situazione: mentre Ottaviano doveva vedersela con Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo che occupava ancora la Sicilia, e provvedere a risolvere la questione dell’assegnazione delle terre ai veterani, Antonio si assunse il compito di organizzare l’offensiva contro i Parti, già progettata da Cesare, che doveva riscattare la sconfitta di Crasso a Carre. Dunque, Ottaviano lasciava ad Antonio le prospettive di gloria e ricchezza, ma anche i rischi di una guerra difficile, e affrontando il figlio di Pompeo, avversario di Cesare, si assumeva un compito non oneroso, che però gli permetteva di riaffermare implicitamente il suo legame di filiazione con Cesare e di rimanere a Roma; d’altra parte Antonio sperava certamente che Sesto si dimostrasse ancora una volta un avversario accorto e determinato e che il compito di Ottaviano si rivelasse poi non così semplice.
Lotte intestine in occidente
Guarda caso, però, il primo avversario con cui Ottaviano si confrontò e che batté non fu Sesto Pompeo, bensì Lucio Antonio, fratello del triumviro. Accadde che la distribuzione delle terre per il collocamento a riposo dei veterani – di somma importanza, perché da essa dipendeva la lealtà dei futuri eserciti – si dimostrò spinosa e nocque profondamente a Ottaviano: ai soldati di Filippi erano state promesse, secondo Appiano, diciotto città italiane famose per la loro ricchezza; la promessa in sé era odiosa, ma con ogni probabilità risultò che non fossero neppure sufficienti e che dovessero esserne aggiunte altre nei territori circonvicini in un primo tempo escluse; e soprattutto, sembra che gli espropri non potettero essere adeguatamente compensati; le operazioni si prolungarono oltre misura e durarono forse per tutto l’anno 41 e tutto questo scatenò un feroce malcontento popolare appuntato sul triumviro. Lucio Antonio, che era console in quell’anno, volle cavalcare l’impopolarità di Ottaviano: fomentò quindi un’intensa attività di agenti provocatori, da un lato spargendo voci odiose, quale quella che i veterani di Antonio erano stati trattati peggio di quelli di Ottaviano, e dall’altro appoggiando gli espropriati. Si sa che una voce, vera o falsa che sia, può distruggere la reputazione di un uomo, e comunque Ottaviano non poteva permettersi di perdere la lealtà dei Romani né tanto meno dei soldati. Alla fine del 41 a.C. la guerra era inevitabile e, al principio del 40, Lucio Antonio e la moglie del fratello Marco, Fulvia, furono stretti d’assedio a Perugia. Si arresero dopo alcuni mesi e furono risparmiati, mentre Perugia fu consegnata al saccheggio dei soldati e i notabili della città furono condannati a morte.
La rappresaglia di Marco Antonio giunse in primavera. Quando potè allontanarsi dalle operazioni in oriente e giungere in Italia, assediò la prima città italiana che gli si presentò innanzi. Brindisi resistette fino all’arrivo di Ottaviano, e l’ennesima guerra civile sembrava ormai inevitabile. Invece, con un ulteriore colpo d’ala – e la mediazione di Asinio Pollione, comune amico che aveva già avuto una parte importante nella nascita del triumvirato, e di Mecenate -, Antonio e Ottaviano si accordarono ancora una volta: il patto di Brindisi, come fu chiamato, sancì per la prima volta il ridimensionamento di Antonio, che perdeva la Gallia, rispetto ad Ottaviano, che diveniva padrone di tutte le province occidentali; il triumvirato, comunque, ne usciva esteriormente rafforzato per il tramite delle nozze tra Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano (Fulvia era morta in Grecia, inaspettatamente, poco dopo la liberazione di Perugia). La questione della Gallia aveva in realtà un’origine più profonda: già da qualche tempo Ottaviano stava tentando di portare dalla sua parte la Gallia, i cui governatori erano legati ad Antonio dagli antichi vincoli di fedeltà e cameratismo dei tempi della conquista da parte di Cesare; e dopo il bellum Perusinum, riconoscendo il momento a lui favorevole – anche perché Caleno, fedelissimo di Antonio, era morto – Ottaviano si era impegnato in prima persona andando in Gallia e raccogliendo il consenso dei soldati senza difficoltà. Il vero motivo di frizione tra i triumviri era dunque questo, mentre la sobillazione di Lucio si rivelò in definitiva un disturbo per Marco, concorrendo a fargli perdere l’ultimo possedimento occidentale e con esso la supremazia. La perdita si dimostrò a poco a poco irreparabile, non tanto sotto il profilo del prestigio, quanto perché Ottaviano seppe sfruttare il vantaggio acquisito con la consueta lucidità potenziando quella propaganda che Antonio, non avendo più sostenitori in occidente, non poteva più contrastare (il metodo dell’autocelebrazione accompagnerà Ottaviano fino alla morte e oltre, tanto che non è improprio oggi domandarsi, di tanto in tanto, se una qualche valutazione storica sul suo operato non ne sia indirettamente influenzata). L’importanza del patto di Brindisi, agli occhi nostri, è di essere uno spartiacque: da quel momento, l’astro di Ottaviano sorse inarrestabile, mentre quello di Antonio si offuscò progressivamente.
Tuttavia, la questione di Sesto Pompeo, alla cui soluzione si rivolse ora Ottaviano, sembrò fargli segnare momentaneamente il passo, assecondando le speranze di Antonio. Sesto – il quale, sopravvissuto alla battaglia di Munda, era divenuto prima un pirata per poi cautamente valutare alla fonda di Marsiglia la possibilità di un insperato rientro nella società civile romana dopo l’assassionio di Cesare – era stato nominato prefetto della flotta in Italia nel momento di massimo potere del senato, durante la guerra di Modena, per poi cadere nuovamente in disgrazia sei mesi dopo, con l’instaurazione del triumvirato. Si era quindi impadronito della Sicilia, ove lo raggiunsero proscritti, reduci di Filippi, schiavi e briganti o resi tali dagli espropri in favore dei veterani, e da dove compiva azioni di saccheggio in Italia e di pirateria sui mari. Il primo ad avvicinarsi a lui era stato Antonio, con il quale Sesto strinse un patto di amicizia al quale tenne fede anche di fronte alle proposte di riavvicinamento di Ottaviano. Quando però fu tagliato fuori dal patto di Brindisi, dal quale non ebbe nessun riconoscimento, utilizzò la più temibile arma di guerriglia di cui disponeva organizzando il blocco dei rifornimenti di grano a Roma, che proprio dalla Sicilia venivano in massima parte. La questione esigeva una azione immediata da parte sia di Ottaviano che di Antonio, evidentemente non compatibile con la soluzione militare (che si sarebbe probabilmente protratta troppo a lungo, data la potenza dell’esercito e soprattutto della flotta di Sesto che rendevano la Sicilia una fortezza): infatti, i triumviri optarono per un accordo, che fu raggiunto nelle acque antistanti il Capo Miseno (oppure, seguendo Appiano op. cit. V, 67-74, Pozzuoli) nell’estate del 39 a.C. L’accordo assegnava in modo ufficiale a Sesto il controllo di Corsica, Sardegna e Sicilia, con la promessa di cedergli anche il Peloponneso (altrimenti ci avrebbe rimesso solo Ottaviano) e al momento giusto anche un consolato. Si trattava di concessioni indubbiamente generose, che però non vanno interpretate come la nascita di un quarto triumviro, come qualcuno ha tentato di fare, ma piuttosto come il realistico riconoscimento della forza di Sesto in un momento in cui il comune desiderio era di rimandare lo scontro a tempi migliori.
In ogni caso, il Peloponnesso venne subito dimenticato sia da Antonio, la cui campagna partica pativa insuccessi, impantanata com’era in Cleopatra, che da Ottaviano, tutto preso dall’edificazione della propria rete di potere e di influenza basata sulle clientele e sulla propaganda. Ma non fu dimenticato da Sesto, il quale l’anno seguente, il 38, ripetè il blocco alimentare della capitale. La risposta di Ottaviano, uno scontro in battaglia navale al largo di Cuma, segnò ancora una vittoria di Sesto, confermando la non brillante tradizione di Ottaviano negli scontri militari; la maggior parte della flotta del triumviro andava poi a picco in una tempesta. Un incontro a Taranto nell’estate del 37 a.C. fruttò a Ottaviano 120 navi da Antonio (in cambio della promessa di 20.000 soldati per la guerra partica). Ma l’occasione è ricordata soprattutto perché vi si decise il rinnovo del triumvirato, il quale, nel disinteresse, sembra, generale, era in effetti scaduto il 31 dicembre dell’anno precedente; di certo i triumviri avevano continuato a esercitare le proprie prerogative anche nel 37. Sesto continuava a imperversare terra marique ed era venuto il momento di sbarazzarsene. Ottaviano cedette saggiamente l’incarico al fedele Marco Vipsanio Agrippa, sotto la cui direzione fu approntata per il 36 una nuova potente flotta e fu coordinata una complessa operazione, che prevedeva l’appoggio di Lepido per attaccare la Sicilia da sud mentre simultaneamente le forze di Ottaviano, divise in due, avrebbero attaccato provenendo insieme da est (Calabria) e da nord (Campania). Un’altra tempesta e un’altra sconfitta sul mare avrebbero potuto condannare anche questo tentativo all’insuccesso, se Agrippa non fosse riuscito comunque a prendere diversi porti siciliani, per poi ottenere una decisiva vittoria navale sulla flotta di Sesto a Nauloco il 3 settembre del 36 a.C. Sesto riuscì a fuggire verso oriente, ma fu presto assassinato. A Roma Ottaviano tornò da trionfatore, perché, oltre a celebrare il trionfo propriamente detto, la macchina della sua propaganda, ormai rodata, aveva premuto sull’acceleratore dipingendo Sesto come nemico pubblico in quanto affamatore del popolo e Ottaviano, naturalmente, come difensore dell’interesse generale. La popolarità dell’erede di Cesare raggiunse vette ancora mai toccate.
E prima della fine dell’anno la sorte arrise a Ottaviano una volta di più, concedendogli di eliminare, in breve tempo e senza ulteriori spargimenti di sangue, anche l’ultimo grande suo contendente in occidente. Infatti, subito dopo aver regolato Sesto come si è detto, uno sfortunato – anche perché poco meditato – tentativo di Lepido gli offrì il modo di eliminarlo dal gioco politico. Lepido, che, in seguito all’aiuto prestato al giovane Cesare, all’indomani della battaglia di Nauloco si era trovato in Sicilia con ventidue legioni al suo comando, sentì di aver giocato un ruolo secondario troppo a lungo e, facendo la voce grossa, intimò a Ottaviano di lasciargli l’isola. L’entità della richiesta, in verità, non era eccessiva – benché i fatti recenti si fossero incaricati di evidenziare l’importanza della Sicilia, granaio d’Italia – e dimostrava una volta di più la scarsità di immaginazione di Lepido, da sempre nell’ombra pur essendo partito con carte buone quasi quanto quelle di Antonio; quindi Ottaviano decise di marciare contro il collega soprattutto per evidenti ragioni di prestigio, sperando nel contempo di eliminare l’ultimo dei rivali secondari. E la speranza non andò delusa: non appena l’esercito di Ottaviano comparve davanti a quello di Lepido, i soldati di quest’ultimo disertarono. A Ottaviano non rimase che decidere della sorte dell’ex-collega, che confinò in un esilio dorato al Circeo, dove Lepido concluse serenamente i suoi giorni morendo di morte naturale nel 12 a.C. Il senato, come aveva fatto meno di dieci anni prima con Giulio Cesare, prese a tributare a Ottaviano, unico padrone dell’occidente, ogni tipo di onore, tra i quali secondo Appiano (op. cit. V, 132) quella tribunicia potestas (o forse, seguendo Cassio Dione op. cit. XLIX, 15.5-6 la sola sacrosanctitas, cioè il privilegio proprio dei tribuni di essere protetto dalle ingiurie fisiche e morali) che sarà una delle chiavi dell’assetto istituzionale del principato.
Da Nauloco ad Azio: lo scontro con Antonio
Lepido non fu sostituito nell’incarico e i triumviri rimasero due – un altro segno di quanto fosse sottile anche dal punto di vista formale, oltreché sostanziale, il velo di legittimità repubblicana dell’assetto istituzionale dell’epoca del triumvirato. Ma è proprio a questo punto, quando rimane unico padrone dell’occidente, che Ottaviano sfodera un’altra mossa decisiva: è il momento di ricreare la propria immagine, di passare dal ruolo sanguinario e tetro del vendicatore di Cesare e del rivoluzionario a quello solare e rassicurante del guardiano dello stato ligio alla tradizione. Questa è l’immagine che Ottaviano accrediterà di sé fino alla morte, e che è giunta fino a noi. La nuova azione politica prende le mosse già dall’ultimo episodio di guerra intestina: al senato che, alla ricerca di onori da conferire, vuole nominarlo pontifex maximus Ottaviano fa notare che proprio Lepido, appena sconfitto ed esautorato, ricopre già quella carica e che è illecito togliere l’ufficio al pontefice ancora in vita (alla morte di Lepido la carica sarà poi comunque conferita ad Augusto). Impressione ancora maggiore deve aver suscitato la decisione da parte di Ottaviano di decretare la cancellazione dagli atti pubblici di tutto ciò che egli aveva compiuto dal suo ingresso nella vita politica a quel momento, a simboleggiare che con la definitiva sconfitta dei nemici dello stato tutto doveva ripartire da zero e che la stagione dell’illegalità era terminata. Ma con l’accreditarsi quale difensore della tradizione romana e garante della legittimità costituzionale, Ottaviano inziava pure implicitamente le ostilità contro Antonio, facendo sfoggio, come era nel suo stile, di intelligenza piuttosto che di forza erculea. Non a caso, la lotta conclusiva occuperà più di un quinquennio e sarà la meno sanguinosa dell’intero periodo delle guerre civili. Si può anzi affermare che fu Antonio stesso a fornire le armi a Ottaviano, e che questi si limitò ad usarle per far affondare Antonio sempre di più.
Il primo motivo di malcontento di senato e popolo romano nei confronti di Antonio era la stessa condotta di quest’ultimo in oriente. La campagna partica aveva incontrato ogni sorta di difficoltà organizzative – tra le quali il reperimento del denaro occorrente, per la qual cosa si ricorse infine a pesanti esazioni fiscali – che avevano finito per essere imputate a carenze del comando. E la propaganda di Ottaviano aveva compito assai facile nello screditare Antonio perché quest’ultimo si era facilmente adattato agli usi orientali, che apparivano inaccettabili ai Romani e massimamente disdicevoli se praticati da un campione dei Romani, e manteneva una pubblica relazione con la regina dell’Egitto, la celebre Cleopatra, dalla quale aveva avuto due figli, essendo ancora sposato con Ottavia – che per di più era sorella di Ottaviano. Infine, dopo l’incontro di Taranto, mentre Ottaviano era impegnato con Sesto Pompeo e poi Lepido, nel 36 a.C. la guerra in Partia, così lungamente preparata e più volte rimandata, era finalmente inziata. Ma la prima avanzata di Antonio era stata caratterizzata da una condotta lenta e incerta, con pochi scontri, nessuno dei quali decisivo, e si era conclusa con una poco gloriosa benché non troppo disordinata ritirata nelle posizioni di partenza in Siria. Tutto questo mentre Ottaviano otteneva, tra il 35 e il 33, buoni successi nella pacificazione dell’Illiria – prima di una serie di campagne militari con le quali il futuro Augusto giungerà nell’arco della sua vita a consolidare i domini romani fissando i confini che saranno, in sostanza, successivamente difesi fino alla caduta dell’impero. Punto sul vivo, Antonio ritentava e nel 34 d.C. riusciva infine a conquistare l’Armenia, che non era la Partia, ma era una regione strategica per gli interessi romani nell’area medio-orientale, come i secoli successivi si incaricheranno di illustrare ampiamente.
Invece di tentare di frenare la discesa dei suoi consensi a Roma col tramutare questo mezzo insuccesso in un mezzo successo, Antonio si lancia in una drammatica serie di errori dalle immense ricadute politiche: torna ad Alessandria d’Egitto e celebra lì il trionfo, invece che a Roma, per una guerra certamente ingloriosa, cui il senato di Roma ben difficilmente avrebbe concesso il minimo onore pubblico; nell’ebbrezza delle celebrazioni, nel ginnasio di Alessandria, chiama Cleopatra ‘regina dei re’ e Cesarione – figlio di Cesare e Cleopatra – ‘re dei re’; e soprattutto dispone la suddivisione delle province orientali dell’impero romano, quelle soggette al suo dominio di triumviro, tra Cleopatra, Cesarione e i due figli suoi e della regina d’Egitto. Nulla poteva suonare a maggior conferma, alle orecchie di un romano, della mollezza e della perfidia orientali di cui, sotto forma di una decaduta regina d’oriente, era caduto prigioniero Antonio: la ‘donazione di Alessandria’, come fu chiamata fin dall’antichità, era sotto ogni profilo insultante per qualsiasi cittadino romano, patrizio o plebeo. La risposta di Ottaviano – cui, oltre al resto, il riconoscimento di Cesarione come figlio naturale di Cesare non doveva aver fatto piacere – fu affidata alla propaganda, che non ebbe certamente bisogno di essere alimentata in questa occasione, e soprattutto a un grandioso programma di opere pubbliche che egli varò nella capitale non appena fu lasciato libero dalle campagne illiriche. Molte iniziative erano state avviate già da Giulio Cesare, con lo stesso intento propagandistico e sfarzoso, ma le realizzazioni erano state frenate o interrotte dalle nuove guerre civili. Ottaviano vuole riprenderle anche nello spirito, ancora una volta nel segno della filiazione da Cesare, e se del padre adottivo abbandona alcune idee, dà però impulso al completamento di quelle avviate – ad esempio il Forum Iulium e la Curia Iulia – e ne aggiunge di nuove. Per questo nel 33 a.C. egli fa nominare edile il fido Agrippa, al quale affida la realizzazione del programma, che include tra l’altro due nuovi acquedotti accanto ai quattro già esistenti, che vengono ristrutturati; un nuovo o rinnovato sistema di fognature; il primo anfiteatro in pietra di Roma.
Ma, a parte il tavolo della propaganda – che dovette peraltro essere reciproca, con il discredito di Ottaviano in oriente, sebbene non sia rimasta nelle fonti gran traccia dell’operato dello sconfitto Antonio – la lotta a coltello tra i due padroni del mondo romano ebbe anche uno scacchiere istituzionale. Antonio, dal canto suo, tentò il ridimensionamento dell’avversario e il rovesciamento degli orientamenti a Roma nel 34, quando scrisse al senato proponendo la fine dell’esperimento del triumvirato e la restaurazione del potere repubblicano. Il primo gennaio del 33 a.C. Ottaviano gioca al rialzo e annuncia ufficialmente che l’accordo con Antonio, un anno prima della scadenza, è decaduto; col rinunciare immediatamente al titolo di triumviro, inoltre, ostenta una volta di più rispetto per la tradizione repubblicana. Per il 32 a.C. sono eletti consoli due antoniani, Gaio Sosio e Gneo Domizio Enobarbo, e il primo gennaio del 32, appena entrato in carica, Sosio chiese la parola in senato e lanciando un’accusa contro Ottaviano, momentaneamente fuori Roma, propose una legge che lo colpiva. Il contenuto del discorso non è sopravvissuto fino a noi, ma sappiamo che intervennero i tribuni, che avevano il diritto di veto, per bloccare la proposta. Ma ormai le cose non potevano che precipitare. In febbraio Ottaviano rientrò a Roma scortato da soldati armati e denunciò a sua volta Antonio in senato. I due consoli e i senatori oppositori fuggirono in Egitto presso Antonio, il quale, sembra, costituì con essi un altro senato ad Alessandria; come ultimo atto di sfida, ripudiò poi la moglie Ottavia. Ottaviano reagì prelevando il testamento di Antonio dal tempio di Vesta e leggendolo in senato. Il contenuto – Antonio dichiarava di voler essere sepolto in Alessandria vicino a Cleopatra – fu l’estremo oltraggio al sentimento romano, al punto da far dimenticare che Ottaviano si era comportato in modo illegale ed empio: fu irrefutabilmente chiaro a tutti che Antonio era un rinnegato e che voleva fondare un proprio regno con i domini romani e renderne Cleopatra regina. Non fu difficile a Ottaviano ottenere dal senato, nel luglio di quel 32 a.C., un senatus consultum ultimum che deliberava la guerra contro Cleopatra, mentre Antonio era dichiarato decaduto dai suoi poteri.
La dichiarazione di guerra a Cleopatra, una pericolosa regina corrotta dai vizi d’oriente, e non ad Antonio, che era un nemico pubblico, ma pur sempre un Romano, non può che essere stata, ai nostri occhi, ispirata da Ottaviano stesso. Tuttavia, questi si trovava ad essere pur sempre il personaggio più influente di Roma ma senza alcuna legittimazione né incarico ufficiale. Fu a questo punto che accadde – sembra spontaneamente, ma comunque al momento giusto – un fatto fondamentale che diverrà un altro pilastro del futuro principato: il ‘consenso universale’ (Res gestae 34) del mondo romano nei confronti di Ottaviano si materializzò in un voto di fedeltà, prima dell’Italia – la cosiddetta coniuratio Italiae -, poi di tutte le province occidentali. La fedeltà era offerta personalmente al figlio di Cesare e, benché tutt’altro che rituale nell’ordinamento e nella prassi romani, gli offriva l’argomento che gli mancava per guidare la guerra contro Cleopatra: ancorché non designato legalmente dal popolo, egli era comunque divenuto la scelta del popolo. La legittimazione Ottaviano la cercò ancora una volta all’interno delle istituzioni, facendosi eleggere console per il 31 a.C. assieme a Marco Valerio Messala Corvino.
Date le forze in campo, le operazioni militari avrebbero potuto avere conseguenze disastrose per Roma: si scontravano le due parti del mondo romano – una delle due godeva in aggiunta delle risorse di un paese grande e ricco come l’Egitto – e ognuna delle due aveva al suo servizio eserciti immensi, dell’ordine di 100.000 uomini ciascuno, prodotto delle guerre civili e del clima di lotta perenne ormai da un ventennio. Invece, la guerra ebbe un andamento lento: i preparativi presero tutta l’estate del 32 e la campagna fu iniziata, secondo l’uso, solo dopo l’inverno, nella successiva primavera del 31. Antonio aveva riunito la sua flotta nel golfo di Ambracia (oggi Arta) sulla costa dell’Epiro, per tenerla al sicuro dalle insidie del mare e del nemico in attesa, forse, di farne l’arma decisiva: la sua flotta, infatti, era più forte di quella di Ottaviano, non solo in termini numerici, ma anche in termini di stazza. L’unico accesso per mare al golfo è per una stretta imboccatura, il canale di Prevesa, creata da due penisole che si protendono nel mare aperto; sulla penisola nord, che termina con il promontorio di Azio, Antonio aveva accampato l’esercito. Il golfo era dunque un’ottima base di operazioni, ma la lucidità di Antonio e di Cleopatra – la quale ‘voleva comandare anche lei’, contro la recisa opposizione dei generali di Antonio, tra i quali i due consoli dell’anno precedente Sosio ed Enobarbo – doveva essere offuscata poiché lasciarono a Ottaviano una mossa disarmante che si rivelò decisiva. Ottaviano, infatti, bloccò l’accesso al golfo di Ambracia con una parte della sua flotta: se egli non poteva entrare, Antonio non poteva uscire e la sua grande e pesante flotta era annullata. Intanto Agrippa, al comando una flottiglia, incrociava al largo del Peloponneso e si incaricava di impedire i rifornimenti di Antonio: mentre il fatto di avere imbarcazioni piccole e agili sarebbe stato per lo più uno svantaggio nel caso di battaglia navale, contro le pesanti navi onerarie diventava un vantaggio.
La situazione di stallo soddisfaceva Ottaviano, che combatteva di fatto in suolo nemico, mentre contribuiva a sfaldare il morale dei soldati di Antonio e a minare la fiducia nei comandanti al pari della difficoltà dei rifornimenti e della – vera o solo vociferata – soggezione di Antonio a Cleopatra, che era sempre più, sembra, una presenza ingombrante. Non a caso, le defezioni nell’esercito di Antonio in favore di Ottaviano erano sempre più frequenti, e a volte coinvolgevano intere unità con gli ufficiali. Non sorprende, perciò, che l’esercito di Ottaviano, accampatosi ben visibile sul promontorio opposto a quello dov’era l’esercito di Antonio, sfuggisse ripetutamente ai tentativi degli avversari di attaccare battaglia. D’altra parte Antonio e il suo stato maggiore erano sempre più consapevoli che solo uno scontro avrebbe potuto volgere la situazione a loro favore: e, data la difficoltà e l’esito incerto di una battaglia terrestre – per la quale pure si schierarono i generali più influenti, tra i quali Gaio Sosio e Publio Canidio – che avrebbe comunque lasciato immutata la situazione di assedio sul mare, Antonio optò per la battaglia navale, nella quale avrebbe potuto far valere – soprattutto in spazi stretti, nei quali conta il numero e non l’agilità – la superiorità della sua flotta. Lo scontro – forse rimandato di alcuni giorni a causa di un tremendo fortunale che funestò il golfo di Ambracia – ebbe luogo verso la fine dell’estate, il 2 settembre del 31, e vide alla fine della giornata la vittoria di Ottaviano, cui si arresero trecento navi avversarie. Il reale svolgimento della battaglia pone grosse sfide agli storici, tanto che c’è chi ritiene persino che battaglia non ci fu mai. Comunque, in base alle fonti antiche sembra che, dopo essersi combattuto con esito incerto per un po’, le navi al comando di Sosio, forse per una errata interpretazione dei segnali, forse per una cosciente diserzione, si ritirarono, lasciando scoperto un fianco dello schieramento egiziano, agli ordini di Cleopatra, che finì pure col fuggire verso l’Egitto, seguito infine da Antonio con una quarantina di navi. Il resto dello schieramento cercò scampo nel golfo, ma, quando a sera le prime navi di Antonio cominciarono a bruciare, la flotta si arrese.
La battaglia di Azio, come fu chiamata, è, qualunque cosa sia realmente successa, un evento che ha cambiato la storia del mondo. Se anche non si combattè così strenuamente, a ritirarsi fu Antonio e l’effetto fu il medesimo di una sconfitta sul campo, o almeno in tal modo seppe sfruttarlo Ottaviano. L’esercito di Antonio, rimasto sul promontorio senza ordini – sembra che Antonio inviò l’ordine di tornare in Egitto per via di terra dirigendosi in Macedonia e poi in Asia minore, ma forse troppo tardi -, salvò l’onore attendendo una settimana il ritorno del suo generale, prima di passare dalla parte di Ottaviano il 9 settembre; le regioni della Grecia e dell’Asia minore, indifese, passarono parimenti senza colpo ferire a Ottaviano, così come la Cirenaica e, per la sottomissione del re Erode, la Palestina. Al di là delle perplessità degli storici, non è una fortuna molto comune che una grande vittoria terra marique, come fu celebrata dai poeti di regime – peraltro tra i maggiori di ogni tempo -, sia ottenuta in modo così incruento. Sul promontorio di Azio era un tempio di Apollo, al quale fu attribuita la vittoria. E per meglio chiarirne l’importanza, Ottaviano fece erigere un trofeo davanti al tempio di Apollo, dedicato al dio, e un altro nel luogo dove egli aveva posto il suo accampamento, dedicato a Marte, Nettuno e Apollo (la vittoria gli aveva arriso per terra e per mare, dopotutto). In onore di Apollo istituì poi i giochi attici, da svolgersi con cadenza quinquennale nel giorno della battaglia.
In ogni caso, se pure fu una piena vittoria, non fu però una vittoria decisiva, poiché Antonio era vivo e disponeva delle ricchezze dell’Egitto: un altro scontro era necessario. Mantenendo la consueta prudenza, essendo ormai incipiente l’autunno, Ottaviano si portò a Samo per passare il periodo invernale, che intendeva sfruttare per il riordino delle province orientali oltre che per la preparazione della campagna decisiva. L’unico intoppo fu che dovette recarsi con urgenza a Brindisi: aveva prontamente congedato i veterani di Antonio mandandoli in Italia per la usuale distribuzione di terre, ma i ritardi nell’assegnazione avevano suscitato una rivolta. La rivolta fu sedata distribuendo le terre con piena soddisfazione dei veterani, ma il viaggio fu l’occasione per ricevere il primo omaggio del senato, che aveva mandato appositamente i propri delegati a Brindisi, e l’assegnazione di un altro consolato. Con la primavera del 30 iniziò l’assalto finale. Ottaviano realizzò una manovra a tenaglia sull’Egitto, affidando a Gaio Cornelio Gallo (che diverrà poi il primo prefetto della provincia d’Egitto) l’invasione da occidente e riservando a se stesso il comando delle operazioni a oriente. Con pochi e brevi scontri l’esercito consolare giunse sotto le mura di Alessandria. Antonio tentò la soluzione militare con le poche truppe residue, e ottenne anche una vittoria in una sortita, ma non si fece illusioni e affidò i suoi migliori tentativi al potere di corruzione del denaro. Quando vide che i soldati di Ottaviano rimanevano fedeli – e sempre dolce è la fedeltà al sicuro vincitore – si narra che sfidasse Ottaviano a duello. Al rifiuto di questi, Antonio si preparò a difendere almeno l’onore impegnando tutte le poche forze residue in una battaglia decisiva. Ma il giorno della battaglia la marina e la cavalleria si arresero senza combattere sotto gli occhi del Romano e la fanteria fu respinta dentro le mura di Alessandria che furono subito assalite con entusiasmo dall’esercito di Ottaviano. Tutto era finito e Antonio, che sembra fu anche falsamente informato del suicidio di Cleopatra, si diede la morte trafiggendosi con la spada: era il 1 agosto del 30 a.C. e Ottaviano conquistava Alessandria e con essa l’Egitto.
Cleopatra era invece ancora in vita e, secondo le fonti antiche, sembra che tentò con Ottaviano quel che gli era riuscito con Cesare e con Antonio, nel tentativo di salvare l’indipendenza dell’Egitto con la proposta di far salire Cesarione sul trono. Ma le sue arti di ammaliatrice non ancora sfiorita (aveva appena quarant’anni) questa volta non ebbero, secondo le cronache, alcun successo; ella si sarebbe allora uccisa, secondo alcuni con uno spillo avvelenato, secondo altri con un aspide. Non bisogna aggiungere che, a parte gli evidenti abbellimenti di carattere sentimentale, l’esistenza di versioni diverse inficia la credibilità dell’intera storia. Quel che è certo è che l’Egitto, assieme al favoloso tesoro dei Tolomei, passò in potere di Ottaviano. In seguito, con la nascita del principato, le province dell’imepro saranno organizzate in senatoriali e imperiali, e l’Egitto passerà agli imperatori suoi successori come provincia imperiale. Il figlio di Cleopatra e Cesare, Cesarione, e il primo figlio di lei e Antonio, Antillo, furono uccisi. Così, con una nuova conquista, terminava il lungo periodo delle guerre civili a Roma e il Mediterraneo diveniva mare nostrum. E la questione dello statuto dell’Egitto annunciava la nuova battaglia per un equilibrio politico dello stato romano finalmente stabile e duraturo.
La questione istituzionale e il nuovo ordine dello stato
In consulatu sexto et septimo, postquam bella civilia exstinxeram per consensum universorum potitus rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli. Quo pro merito meo senatus consulto Augustus appellatus sum et laureis postes aedium mearum vestiti publice coronaque civica super ianuam meam fixa est et clupeus aureus in curia Iulia positus, quem mihi senatum populumque Romanum dare virtutis clementiaeque iustitiae et pietatis causa testatum est per eius clupei inscriptionem. Post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt.
(Res gestae XXXIV)
Per il ritorno a Roma Ottaviano scelse la via di terra: Siria, Asia Minore, Grecia; di certo era ben più lenta di quella per mare, ma in questo modo potè provvedere alla revisione dell’organizzazione delle province, in regioni fino a poco tempo prima governate da Antonio, e al consolidamento della lealtà dei governatori e delle truppe a Roma e a se stesso. Nelle decisioni applicò la lezione della celebre clementia di Cesare: se governatori e comandanti, cittadini influenti e semplici soldati di truppa, sovrani e città alleate che si erano schierati con lui ricevono privilegi, chi era dalla parte di Antonio sperimenta una nuova politica di comprensione e viene perdonato, se il dovere di lealtà è prontamente rediretto dallo sconfitto al vincitore; e non di rado le nomine di Antonio possono così essere addirittura riconfermate. Ottaviano raggiunge anche un accordo con i Parti sulla questione armena (problema già allora secolare, che peraltro impegnerà l’Impero Romano d’oriente anche dopo che quello d’occidente non esisterà più). A Roma Ottaviano giunge, nel tripudio generale, solo nell’ del 29 a.C. L’hanno preceduto una serie di onori e concessioni d’eccezione: la fondazione nei pressi di Azio della città di Nikòpolis o della vittoria; la coniazione di monete col motivo della vittoria; il completamento del tempio di Apollo sul Palatino vicino alla casa dello stesso Ottaviano, progetto già avviato fin dal 36 a.C. e ora portato a termine poichè Apollo era stato il dio protettore di Ottaviano nella vittoria di Azio; il conferimento della potestà tribunizia a vita e, al contrario dei tribuni della plebe, estesa a tutto il territorio dell’impero (concessa nel 30 a.C.); la ratifica incondizionata dei suoi atti – e non occorre ricordare che il senato aveva in passato fatto sospirare questa disposizione anche ad illustri comandanti e perfino ai propri campioni – votata il primo gennaio del 29 a.C., prima del suo ritorno; la chiusura, l’11 gennaio di quell’anno, del tempio di Giano, fatto che, per l’essere avvenuto in precedenza solo altre due volte nella storia di Roma, aveva un fortissimo valore simbolico, soprattutto dopo un così lungo periodo di ripetute guerre civili (non a caso lo stesso Augusto, nelle sue Res gestae, vorrà essere ricordato soprattutto come colui che riportò la pace sul mondo); l’onore del tutto peculiare di inserire il nome di Ottaviano nel carmen Saliare, l’antichissimo canto dei Salii – il collegio sacerdotale di Marte fondato, secondo Livio, addirittura dal re Numa Pompilio – onore che aveva indubitabilmente un valore sacrale altrettanto simoblico.
Il 13, 14 e 15 agosto del 29 a.C. Ottaviano celebra il suo triplice trionfo, sull’Illiria, ad Azio e sull’Egitto, e l’arco di trionfo porta la dicitura Res publica conservata; al trionfo fa partecipare anche il nipote Marcello, come segno del suo favore, indirizzando così il problema della propria successione (lo stesso aveva fatto Giulio Cesare con lui nel 46 a.C.) mentre è sul punto di compiere 34 anni. Si dedica poi ai problemi di Roma. Il più urgente è di nuovo – ma è naturale in un’epoca in cui gli uomini alle armi sono centinaia di migliaia – quello dei veterani: provvede quindi a un nuovo collocamento a riposo di decine di migliaia di soldati, e questa volta, grazie anche alle ricchezze d’Egitto, il denaro per le compensazioni non manca; comincia così un lungo percorso di riduzione delle forze militari che, dalle sessanta e più legioni in armi al momento della conclusione della guerra civile, porterà l’impero a controllare il proprio territorio e i confini con solo 28 legioni. Una preoccupazione di più lungo respiro è ancora quella del programma edilizio, iniziato qualche tempo prima, che può ora riprendere per rendere finalmente Roma una capitale degna dell’estensione e della ricchezza dei suoi domini (e Suetonio ricorderà che Augusto poteva vantarsi di aver trovato una città di mattoni e di averne lasciata una di marmo); anche per questo fa iniziare a Marcello il cursus honorum con la carica di edile nel 24 a.C. Ma la rinascita dell’Urbe, città caotica dallo sviluppo tumultuoso, è affidata non soltanto agli splendidi edifici pubblici, ma anche a misure quali la suddivisione amministrativa in quattordici regiones, parola che è all’origine degli attuali rioni, e l’istituzione del corpo dei vigiles (una coorte per regione urbana), i vigili del fuoco così essenziali in una città a continuo rischio di incendi, con compiti anche di polizia urbana. Non trascura poi i bisogni della plebe, che è ancora un sostegno così importante nella politica a Roma, e oltre alla realizzazione di splendidi giochi fa distribuire 400 sesterzi a 250.000 beneficiari nel 29 a.C. e grano l’anno dopo.
Ma il problema più pressante è la questione istituzionale: settant’anni di guerre civili – dagli scontri tra Mario e Silla alla congiura di Catilina alla guerra tra Cesare e Pompeo per finire con la lotta tra Antonio e Ottaviano – hanno mostrato chiaramente che il tradizionale ordine repubblicano è inadeguato ai tempi, perché il vecchio ordinamento dello stato ha fallito ripetutamente nei fatti e perché è molto probabile che il vecchio ordine, se ristabilito integralmente, fallisca di nuovo con gli stessi effetti di devastazione. D’altronde, la res publica, che si basa sui principi del bilanciamento di poteri tra senato e popolo e di magistrature collegiali e temporanee, non si può cancellare ex abrupto, sostituendola con un altro ordinamento istituzionale del tutto differente, e comunque il farlo si rivelerebbe con ogni probabilità controproducente, per l’affezione dei senatori come del popolo romano alla forma repubblicana e per la difficoltà di imporre una forma espressamente monarchica. Ottaviano stesso nell’innovare – e quanto profondamente! – fu ligio alla tradizione anche e forse più per convinzione, oltre che, come comunemente si afferma, per desiderio di non turbare l’ordine costituito e per esigenza di naturale prudenza. D’altra parte, Ottaviano è certamente tra coloro che sono ben consci della necessità di cambiare verso un sistema più stabile; ed è convinto che è lui, rimasto solo ed egemone della politica di Roma, a doverlo fare; oltre al resto, la riforma dello stato gli è necessaria per tentare di conservare il potere senza troppe scosse. Ottaviano gode di grande prestigio e soprattutto di quel primato morale, da lui espresso nelle Res gestae come il ‘consenso universale’, che si era già manifestato con il giuramento personale di fedeltà delle province nel 32 a.C. e che fa sì che egli possa reggere lo stato sulla base della sola legittimazione del consolato, conferitogli ogni anno, senza avere più poteri del console suo collega (se si trascura la questione della potestà tribunizia). Ma nulla vieta che qualche altro candidato, su basi solide o presunte, si faccia avanti e si ricominci la guerra civile. Il potere di Ottaviano non è legittimato in alcun modo, proprio perché il suo primato è solo morale: e come oggi è omaggiato perchè ha vinto i suoi avversari, domani il sorgere di un nuovo rivale – in grado magari di procurarsi la predilezione del popolo o l’appoggio del senato – provocherebbe inevitabilmente una nuova spaccatura sociale e politica; e come oggi il senato e il popolo gli conferiscono onori senza precedenti e cariche pubbliche, in riconoscimento della sua primazia, domani glieli possono togliere, sempre rimanendo strettamente al’interno dell’ordinamento repubblicano.
Probabilmente meditando questi aspetti, Ottaviano, ancora console con Agrippa, lasciò passare il 28 a.C. come anno di transizione, impegnandolo nelle attività di riorganizzazione dello stato e di purificazione dalle guerre civili: promosse un censimento dei cittadini romani – l’ultimo risaliva al 70 a.C. – che censì 4.063.000 cittadini; e rinnovò i membri del senato. Entrambe queste iniziative avevano anche una valenza morale: il mondo riprende il suo normale andamento, la res publica è uscita dall’incubo per entrare in una duratura era di pace e prosperità. Nella stessa ottica fa approvare leggi che privilegiano i boni viri. E se il nuovo collegio senatorio lo acclama princeps senatus, titolo che gli consente di parlare per primo nelle sedute e quindi di orientare le deliberazioni, sulle monete Ottaviano è il libertatis rei publicae vindex.
Poi, con un colpo di scena, il 13 gennaio del 27 a.C. Ottaviano entra nella Curia e rimette tutti i suoi poteri al senato e al popolo romano per ritirarsi a vita privata. Molto si è discusso sulla sincerità di questa scelta e mai si saprà quali fossero le reali intenzioni e il calcolo di Ottaviano, quanto la scena fosse stata preparata ad arte, quanto il senato fosse a parte della decisione o della pantomima. Certo è che il senato, che della sorpresa fosse stato avvertito in anticipo, almeno in alcuni suoi membri, oppure no, nei racconti antichi appare impreparato, costernato, confuso e reagisce prima pregandolo e poi insistendo perché ci ripensi e rimanga al timone dello stato. E certo è che Ottaviano, che avesse o meno preordinato con il consueto acume la sua mossa e scelto con senso psicologico il momento, dopo aver mostrato una certa riluttanza finisce con l’accettare una forma di compromesso istituzionale raggiunto, forse, nel breve volgere di quella stessa giornata. Di nuovo, non si saprà mai quali siano state le argomentazioni da una parte e dall’altra e da quale parte sia venuta la proposta di compromesso: se egli, di fronte alle richieste dei senatori, abbia fatto presente la necessità di una forma di governo diversa dal passato basata magari sul rector ciceroniano; probabilmente la fiducia che il suo equilibrio e le sue virtù si erano conquistate furono determinanti e l’accordo nacque quasi da sè e senza che i più si accorgessero della sua portata. Bastarono tre decreti del senato, ratificati il successivo 16 gennaio, e il gioco fu fatto. Il primo decreto assegnò ad Ottaviano il titolo di Augustus, che secondo Suetonio avrebbe la stessa radice di auctoritas, e che richiama inoltre la sacralità degli àuguri, mentre non ha alcuna connotazione di regime o dominato. Da questo momento Ottaviano diviene Augusto: il suo nome è Imperator Caesar Augustus; Imperatore, cioè Comandante, è il suo prenome, Cesare diviene un nome gentilizio e identifica la gens dei Cesari, Augusto, il cognome, è la sua caratterizzazione più propria in auctoritas e insieme in sacrosanctitas. Con il secondo decreto gli sono conferiti la corona d’alloro, simbolo di trionfo, e la corona civica, come salvatore della patria. Con il terzo decreto viene deciso di appendere nella Curia uno scudo d’oro su cui è inciso il motto dei Cesari: virtus, clementia, iustitia, pietas. Oltre all’investitura del senato, l’unica carica che Augusto ricopre è il consolato: da allora e fino al 23 a.C. uno dei due consoli di Roma è lui. Questo gli permette di esercitare una forma di primato su tutti i magistrati dello stato avvalendosi di uno strumento puramente repubblicano già radicato nell’uso e nella prassi. L’imperator fin dal termine che lo designa è un comandante militare, ma il console possiede anche giurisdizione civile.
Come si vede, si tratta essenzialmente di provvedimenti che conferiscono titoli onorifici. Quale sia il contenuto dell’accordo che venne raggiunto quel 13 gennaio e che da allora va sotto il nome di principato, non è oggi completamente chiaro. Sembra che a Ottaviano venne riconosciuto per dieci anni una forma di imperium, cioè di comando civile e militare, sulle province di Spagna (eccetto la Hispania Baetica), Gallia, Siria, Cipro ed Egitto, in definitiva su tutte o quasi le province in cui erano presenti legioni in armi; mentre le residue province rimanevano sotto il comando degli usuali magistrati nominati dal senato e dal popolo. Per amministrare un territorio così vasto, Ottaviano ebbe il potere di nominare legati imperiali, che agivano in suo nome; non è invece chiara la natura dell’imperium che gli fu conferito, pur se appare molto probabile si trattasse di un imperium proconsulare, che era la forma di poteri straordinari già assegnata in passato ad esempio a Pompeo e a Cesare; e non è chiaro soprattutto quale fosse la vera relazione tra il princeps e il senato, soprattutto in presenza di testimonianze epigrafiche (sia pure molto più tarde, essendo datate attorno al 5 a.C., quando ulteriori modifiche erano già state apportate all’assetto costituzionale) che attestano l’ingerenza di Augusto negli affari interni della Cirenaica, che era provincia senatoria. Si trattò in ogni caso di un compromesso che alterava la forma di governo in modo molto profondo, di fatto portandola fuori dalla sfera genuinamente repubblicana, mantenendo però l’apparenza della legittimità costituzionale della tradizione repubblicana. Ma era un compromesso che rappresentava in forma legale lo statu quo: l’investitura ufficialmente veniva dal senato – e Ottaviano aveva sempre espressamente cercato il riparo della tradizione -, ma chi la riceveva non era soggetto al senato se non formalmente – perché l’auctoritas di Ottaviano era già così forte da sfuggire al controllo del senato -; l’investitura garantiva il comando degli eserciti all’imperator – e i soldati erano legati personalmente a Ottaviano, che ne aveva sempre cercato la fedeltà e sempre lo farà, più che allo stato -, ma manteneva al senato le province nelle quali non stazionavano truppe – perché l’aderenza all’ordine repubblicano necessitava di un bilanciamento delle prerogative tra senato e princeps -. Non a caso, come tutte le formalità, anche questa non ebbe eccezioni e il comando sarà regolarmente prorogato a Ottaviano fino alla morte e alla sua morte passerà, per decisione del senato, sulle spalle di colui che egli indicò come più adatto al compito. D’altra parte, se le guerre civili nel passato erano nate dalla ripartizione dei comandi militari, dal fatto cioè che un comandante poteva usare la fedeltà delle truppe a lui assegnate contro gli altri comandanti e contro la repubblica, l’unificazione del comando per investitura del senato spezzava le ragioni di questa logica. Inoltre la formula appariva sufficientemente elastica da subire variazioni in caso di necessità, e si adatterà in effetti nel corso dei secoli alle situazioni di potere imperiale forte e debole, di potere senatorio debole e forte. Il problema ora si trasferiva ai momenti di transizione da un imperatore al suo successore, come puntualmente si verificò senza che il senato potesse esercitare il potere di scelta o più semplicemente intervenire nella scelta se non marginalmente e in pochissimi casi; gli imperatori si fecero e disfecero quasi sempre fuori dalla curia, fino al momento in cui il senato fu estromesso anche formalmente dalla questione. Se la forma è dunque repubblicana ed apparentemente è stata introdotta solo una nuova forma di comando militare, comunque per investitura del senato, in realtà è stata aperta la strada ad una forma di diarchia non solo militare estremamente sbilanciata verso il princeps che diarchia non sarà mai e che porterà nei secoli ad una monarchia vera e propria. Augusto stesso, come altri prima di lui, aveva scrupoli costituzionali che gli imponevano una riforma che non sfuggisse dall’alveo repubblicano. Ma egli stesso beneficia di un potere discrezionale fuori da ogni norma repubblicana che viene rafforzato ufficialmente nel 23 a.C. In definitiva, più che di una diarchia, almeno nei primi secoli si tratta di un doppio grado di governo: tutto funziona come prima, le stesse magistrature, le stesse procedure; ma l’imperatore ha il potere di intervenire in questo andamento normale e di modificarlo a sua discrezione e senza possibilità di appello.
Probabilmente convinto di aver sistemato ogni cosa, nell’estate di quel 27 a.C. Augusto abbandona Roma per la Gallia e la Spagna. Rimane lontano tre anni, durante i quali Agrippa si occupa dell’amministrazione dello stato al suo posto e il nuovo assetto politico e istituzionale prende piede e si assesta. Torna a Roma nel 24 per rimanere seriamente ammalato poco dopo, al principio del 23 d.C., tanto da giungere a consegnare, su quello che pensa essere il suo ultimo letto, il sigillo imperiale ad Agrippa, il fedele amico che egli ha ormai elevato fin quasi al suo livello, e il rendiconto dello stato al console Gneo Calpurnio Pisone. Nonostante la virulenza del male, però, si riprende per assistere in pochi mesi, nel medesimo 23 a.C., a due eventi della massima importanza politica: la scoperta di una cospirazione ai suoi danni, nella quale era implicato il console suo collega quell’anno, e la revisione del sistema del principato. Non è dato sapere oggi quale relazione intercorra tra i due episodi: al solito ci si divide tra le opinioni, in sé egualmente legittime, che la congiura abbia consigliato il cambiamento istituzionale, o che il cambiamento abbia causato un rigurgito libertario e la congiura, o infine che le due cose non siano correlate. Fatto sta che da un lato il console Varrone Murena e Fannio Cepione, a capo della cospirazione, furono giustiziati e dall’altro, con decereto del senato del primo giorno di luglio, Augusto cedeva il consolato – egli occupava uno dei due posti ininterrottamente dal 31 a.C. – e riceveva in cambio l’imperium proconsulare e soprattutto la tribunicia potestas, entrambe per cinque anni, rinnovabili e puntualmente rinnovate fino alla morte (il potere proconsolare gli fu riconosciuto a vita nel 19), ed entrambe estese all’intero territorio dell’impero, Roma inclusa (infatti, gli altri magistrati dovevano rimettere l’imperium al senato quando venivano a Roma, all’interno del pomerium, e al contrario la giurisdizione dei tribuni della plebe era confinato alla sola città di Roma). Questi due poteri rimarranno almeno formalmente i pilastri portanti della struttura istituzionale del principato fino a quando saranno resi inessenziali dalla sua trasformazione in dominato. Dal punto di vista pratico, la nuova formula, benché nella solita forma repubblicana nascondesse un ulteriore allontanamento dalla tradizione, sembra essere più organica: se nel primo assetto il potere imperiale appariva come una sorta di estensione del potere consolare, ora l’imperatore è una nuova figura istituzionale a tutti gli effetti, sia pure fondata sul cumulo di poteri preesistenti e tradizionalmente divisi tra diverse magistrature; d’altronde, la perdita dei poteri di ‘console privilegiato’ era limitata dal mantenimento dell’imperium, il comando proconsolare che probabilmente Augusto già deteneva – si discute se si trattasse o meno del cosiddetto imperium maius, cioè esteso alla possibilità di nominare altri magistrati -, e compensata dall’acquisto dei numerosi diritti contenuti nella potestà tribunizia, la sacrosanctitas, o intoccabilità della persona, il diritto di proporre leggi, il diritto di veto sulle proposte degli altri magistrati, il diritto di convocare il popolo, lo ius auxilii, e questa rimodulazione consegnava in realtà ad Augusto strumenti di governo più potenti e al tempo stesso più equilibrati, in definitiva più efficaci. Non a caso, l’assetto del principato subirà d’ora in poi modifiche limitate e talvolta più onorifiche che sostanziali: il diritto di convocare il senato in ogni momento, o ius primae relationis, nel medesimo anno 23, la potestà censoria nel 19 (prima annuale, poi nel 18 quinquennale, rinnovata nel 12), il pontificato alla morte di Lepido, nel 12, e il titolo di cui Augusto fu probabilmente più orgoglioso, pater patriae, nel 2 a.C. Quasi a sottolineare la differenza tra il suo ruolo e quello delle magistrature tradizionali – e forse per restituir loro credibilità e linfa vitale – Augusto fu console ancora due volte, nel 5 e nel 2 a.C.
Nel valutare un percorso così lungo e complesso, non è inutile domandarsi quale data si possa assumere come inizio del principato. In linea di massima Augusto fu per tutta la vita, a partire dall’ingresso, quando era giovanissimo, nell’agone politico, ai vertici dello stato, poiché non si può trascurare che il triumvirato conteneva in nuce almeno la sostanza autocratica del principato; ma di certo il triumvirato non è il principato. Il 31 a.C., anno della vittoria si Azio, pur rappresentando di fatto il momento dell’assunzione del potere da parte di Ottaviano, non sembra possedere i requisiti di ufficialità necessari, poiché portò ad Ottaviano solo onori, ma nessuna vera investitura istituzionale e tanto meno alcuna novità nell’assetto dello stato. Più interessante il 29 a.C., anno del suo ritorno a Roma, dei suoi trionfi e dei primi grandissimi onori, spesso più tipici di un dominus che di un princeps; ma anche questa data manca dell’elemento di novità istituzionale presente invece nelle deliberazioni ratificate dal senato il 16 gennaio del 27 a.C., quando Ottaviano, dimessosi da tutte le cariche, divenne Augustus ed imperator e venne inaugurato il nuovo ordine. Non dimenticando, comunque, che il vero compromesso istituzionale che governerà il mondo ancora per cinque secoli sarà stabilmente codificato con l’adattamento del primo luglio del 23 a.C. e soprattutto che, con tutta evidenza, l’Impero e la mentalità imperiale, soprattutto nei sudditi, Augusto la costruì nell’arco di tutta la sua vita: ne sono testimonianza i già elencati piccoli adattamenti che cadenzano l’attività istituzionale di Augusto dal 23 a.C. fino alla morte e soprattutto l’intensa impronta riformatrice della sua azione di governo in ogni campo della res publica Romana.
La pax Augusta
Nel 23 a.C., alla nascita del principato, Augusto ha quarant’anni ed è nel mezzo del cammin di vita sua. Durante i successivi trentasei anni di governo dal 23 a.C. alla morte, avvenuta nel 14 d.C., Augusto lasciò la sua impronta su ogni aspetto della vita pubblica e privata dei Romani; di norma la sua attività legislativa mostra uno spirito innovatore e riformista di amplissimo respiro, una audacia e assieme una prudenza, nel merito delle decisioni assunte, che sono l’evidente riflesso in tempo di pace delle qualità mostrate nei ventuno anni spesi per arrivare alla stabilità del potere. In contrapposizione alle lunghe stagioni delle guerre civili e dell’instabilità politica, il governo di Augusto è caratterizzato dalla volontà di pace; non a caso la sua politica, che egli volle immortalare plasticamente nel monumento dell’Ara pacis, dedicato nel gennaio del 9 a.C., sarà chiamata la pax Augusta. E se l’età augustea era stata salutata, subito dopo la vittoria ad Azio, dalla chiusura del tempio di Giano, l’era del nuovo assetto istituzionale trova la sua consacrazione popolare con i ludi saeculares, antichissimi giochi che si celebravano ogni secolo – o quasi, poiché, soprattutto nei tempi più remoti, con ‘secolo’ si intendeva un’era, solo generalmente coincidente con il periodo di cento anni – per festeggiare l’età dell’Urbe. Le edizioni più recenti si erano svolte nel 348 a.C., nel 249 a.C., e poi nel 146 a.C., mentre le lotte tra Cesare e Pompeo e gli avvenimenti seguiti all’uccisione di Cesare ne avevano impedito lo svolgimento l’ultima volta. Augusto colse l’occasione, anche simbolica, di riprendere quella radicata tradizione, che, benché non molti potessero apprezzarla nella loro vita, era trasmessa tra le generazioni e non era stata dimenticata nemmeno tra la confusione e il ritardo, e ne ordinò la celebrazione nel 17 a.C. per simboleggiare il passaggio alla nuova era. In questa occasione, tra l’altro, egli commissionò a Orazio, il poeta amico di Mecenate e suo, il Carmen Saeculare, carme che è sopravvissuto ai secoli e che esprime la consapevolezza del respiro della nuova celebrazione (ad esempio nei celebri vv. 9-12: alme Sol, curru nitido diem qui / promis et celas aliusque et idem / nasceris, possis nihil urbe Roma / visere maius).
Augusto fu infatti fautore di tutte le arti, delle quali, oltre ad apprezzare il lato intellettuale e dilettevole, non disdegnava la potenza propagandistica – della cui importanza politica era, lo sappiamo, ben conscio – e le promosse in ogni modo. Nel campo della letteratura volle nella propria cerchia i maggiori – si può affermare che non uno tra i letterati di quell’epoca di straordinaria fioritura, una delle più qualitative di tutti i tempi, non aveva rapporti di amicizia o almeno di familiarità con lui – e senza alcuna distinzione di fede politica: è necessario ricordare, quali manifestazioni di una liberalità che ha pochi altri esempi nella storia, che l’appena citato Orazio aveva combattuto tra le file dei repubblicani a Filippi (sebbene, come egli stesso ricorda in Carmina II, 7, avesse abbandonato il campo di battaglia in fuga precipitosa, nella quale perse anche lo scudo), ma che questo non aveva impedito ad Augusto di accordargli la sua amicizia (e poiché il senso dell’onore faceva forse preferire a Orazio di non dare pubblicità alla cosa, Suetonio racconta che Augusto, il quale si era vista rifiutata una proposta di fargli da segretario privato, si lamentò col poeta del fatto che non fosse mai citato nei suoi sermones quasi temesse non fosse dignitoso passare per amico di Augusto); e che Tito Livio, di dichiarata fede repubblicana – tanto che, come attesta Tacito in Annales IV, 34, era da Augusto scherzosamente chiamato ‘Pompeiano’ – ebbe tanta autorità presso la casa imperiale che, ricorda Suetonio, il futuro imperatore Claudio cominciò a scrivere storie per sola sua esortazione. E a questi si unirono Virgilio, il cantore della pace agreste e l’autore del poema epico di Roma, gli elegiaci Properzio e Cornelio Gallo, e poi Plozio Tucca, Vario Rufo, Domizio Marso e altri, chiunque amasse il bello e potesse dare lustro e bellezza alla sua età, l’età augustea. Se Augusto fu il fautore di quell’eccezionale periodo della letteratura latina, il vero autore ne fu Gaio Cilnio Mecenate, il suo braccio sinistro – se Agrippa era di Augusto il braccio destro – amico, confidente e influente consigliere. Mecenate, oltre a proteggere e a favorire con la propria ricca liberalità gli autori del suo tempo, che gli furono tutti amici, promosse la costituzione a Roma di due importanti biblioteche, una nel tempio di Apollo Palatino (il tempio che era stato eretto a ricordo della vittoria di Azio), l’altra nel Portico di Ottavia; il suo nome è ancora oggi il nome dei ricchi patroni delle arti e dei protettori degli artisti.
Ma principale teatro delle più grandi riforme di Augusto furono i gangli stessi dello stato: l’esercito e l’amministrazione pubblica. Dopo il ruolo centrale avuto dall’esercito durante le guerre civili, la smobilitazione, resa necessaria dall’enormità degli effettivi e dalla lunga permanenza sotto le armi di interi reparti, poneva sfide assai serie: essa doveva condurre a un esercito di continuata efficienza, di costo sostenibile – quanti guai verranno alla società romana quando, nel tentativo di bloccare migrazioni di interi popoli, le necessità militari supereranno le disponiblità economiche! – e di provate fedeltà e lealtà. Augusto riuscì a conseguire tutti gli obiettivi e a fare dell’esercito il vero puntello del potere imperiale. La sua trovata in questo campo, l’esercito professionale permanente, ha trovato fortuna presso tutti gli stati organizzati e percorso tutti i secoli fino al nostro. Egli costituì il nerbo dell’esercito in 28 legioni formate da volontari reclutati tra i cittadini romani; alle legioni, la cui organizzazione era stata corrotta e piegata alle esigenze del prolungato utilizzo agli ordini dei medesimi comandanti, restituì gli effettivi e la struttura ordinaria. Il numero di legioni fu giudicato sufficiente per mantenere il controllo del territorio dell’impero e le azioni di contrasto verso i confinanti, ma fu ridotto a 25 nel 9 d.C., quando le tre legioni al comando Quintilio Varo, distrutte dai Germani nella selva di Teutoburgo, non furono rimpiazzate. Le legioni di romani erano comunque affiancate da reparti di fanteria e di cavalleria formati da uomini liberi non cittadini romani. Questi reparti ausiliari, spesso, ma non sempre, al comando di un ufficiale romano, erano di norma costituiti e poi disciolti in base alle necessità del momento, benché nei secoli successivi tendessero a divenire stabili. Le legioni ebbero dallo stato un trattamento, la condicio militiae, definito in anticipo: il periodo di servizio, stabilito in 16 e poi in 20 anni, il salario regolare, la liquidazione al termine del servizio e, dopo il 14 a.C., la sostituzione delle assegnazioni di terre (che erano spesso impopolari per chi doveva cedere il terreno e raramente di completa soddisfazione per chi lo riceveva) con il pagamento di una pensione (garantito, a partire dal 6 d.C., da un apposito fondo pubblico, lo aerarium militare), fecero diventare la carriera militare una carriera stabile e appetbile. Anche i reparti ausiliari ebbero un buon trattamento e i migliori potevano essere trattenuti e anche incorporati nelle legioni. Criteri analoghi furono utilizzati nella regolarizzazione del servizio della marina, fluviale e marittima. Altra creazione fortunata di Augusto fu poi il corpo dei pretoriani, corpo di legionari scelti a diretto servizio del principe e dislocati opportunamente nelle città vicine a Roma.
Lo strumento militare fu efficacemente utilizzato da Augusto dapprima per assicurare all’impero sicurezza e pace, poi nel tentativo, fallito, di espandere l’impero nelle cruciali regioni del centro Europa; e sempre per garantire stabilità al suo potere. Alla nascita del principato l’impero romano soffriva dei mali conseguenti a una crescita troppo veloce: molte regioni di recente annessione necessitavano di controllo militare locale per prevenire turbolenze in attesa della romanizzazione; tra le province si incuneavano staterelli indipendenti, benché di norma legati da rapporti di buon vicinato e alleanza. La gestione di questi problemi era stata poi rallentata o impedita dalle guerre civili. Avendo fagocitato tutti quelli che gli si trovavavno volta a volta ai confini, l’impero aveva ormai un solo potente confinante, il regno dei Parti. Le approssimative conoscenze di topografia e geografia dell’epoca non impedirono ad Augusto di realizzare una operazione di ricucitura e di controllata espansione che trasformò un insieme frammentato di regioni assoggettate in uno stato stabile con confini definiti, dove possibile e quasi ovunque, da limiti naturali. Le legioni furono costantemente impegnate in quest’opera prudente di consolidamento del dominio di Roma: guerre furono combattute per il completo possesso della penisola iberica (prima e sconda guerra cantabrica, tra il 29 e il 19 a.C.), per la saldatura di Gallia e Italia (contro i popoli alpini del re Cozio, che si arresero dopo molti anni di lotta nel 13 a.C., comunque a condizioni non disonorevoli e mantenendo ancora per qualche tempo una certa indipendenza), per portare il confine al Danubio nella regione balcanica (con la conquista della Rezia, del Norico e della Pannonia, compiuta tra il 16 e il 10 a.C., e la successiva repressione della ribellione scoppiata in Pannonia nel 9 a.C.); ma innumerevoli furono le piccole campagne per risolvere situazioni locali. Nell’ambito della secolare lotta con i Parti, la potenza militare romana – assieme all’abilità diplomatica di Tiberio, futuro successore sul trono imperiale, che era figlio di primo letto di Livia, la terza e ultima moglie di Augusto – fu impiegata per raggiungere nel 20 a.C. l’accordo con il quale le aquile legionarie perdute da Crasso a Carrhae (oggi Harran in Turchia) nel 53 a.C. furono rimpatriate e per garantire la stabilità della tregua e il protettorato romano sull’Armenia (stabilito nel 19 a.C.). Il prestigio delle aquile romane bastò anche a garantire un non traumatico passagio della Galazia allo stato romano alla morte del re vassallo Aminta nel 25 a.C.: l’erede al trono Pilamene si contentò di dedicare ad Ancyra (oggi Ankara, capitale della Turchia) un tempio ad Augusto e Roma, quello dove furono poi iscritte le Res gestae.
L’ultimo obiettivo di Augusto fu il più ambizioso: la conquista della Germania, cioè di tutta l’Europa centrale dal Reno all’Elba. Il compito era grandioso, probabilmente più della conquista della Gallia operata da Cesare, non solo per la vastità di un territorio allo stato selvaggio, del tutto privo di città e di opere umane preesistenti, ma anche per la bellicosità delle popolazioni locali, e fu perciò perseguito con particolare cura e pazienza, come la naturale prudenza di Augusto suggeriva. Era forse il momento più adatto per cercare quel’impresa, quando la potenza militare romana era al culmine e la differenze tecnologica e sociale con i barbari germani era massima, e il vantaggio della conquista appariva notevole, sia dal punto di vista strategico, perché i nuovi confini promettevano di essere più facilmente difendibili e perché si tentava l’assimilazione di popoli confinanti ostili, sia dal punto di vista sociale ed economico, perché si volevano sottomettere forze giovani e vitali (la Gallia divenne per ragioni analoghe una regione tra le più ricche dell’impero, finendo, ironia della sorte per attirare proprio le brame dei Germani). Ma in questo caso la sorte non fu benigna con colui che vinse tutte le altre sfide: quando le operazioni cominciate anni prima sembravano volgere felicemente al termine, e per di più senza eccessivi traumi dopo che Druso e Tiberio erano arrivati all’Elba, nel 9 d.C. tre legioni (XVII, XVII e XIX) al comando di Publio Quintilio Varo furono sorprese in luogo sfavorevole nella selva di Teutoburgo e, prese in trappola, furono annientate. Autore dell’estremo tentativo di resistenza germanica fu un capo dei Cherusci, Arminio, che, essendo stato ausiliario romano e avendo ottenuto la cittadinanza romana, era a torto giudicato alleato nell’opera di annessione. Arminio è oggi considerato eroe germanico e protofondatore della nazione germanica, mentre il nome di Varo rievoca ancor oggi atroci sconfitte. Suetonio racconta che Augusto fu profondamente colpito dall’evento, tanto da bloccare le operazioni in Germania senza ulteriori tentativi – le tre legioni perdute non furono rimpiazzate – e da lasciare quale monito ai suoi successori la raccomandazione di difendere il confine renano senza più tentare di penetrare in Germania.
Non è chiaro fino a che punto Augusto debba essere ritenuto l’iniziatore della politica romana di confine, cioè dello spostamento del baricentro delle azioni militari ai confini con fine prettamente difensivo: se egli è certamente il creatore di armate permanenti, quindi da impiegarsi non solo in caso di guerra dichiarata ma come forza di intervento sempre disponbile, non sembra che ne ordinò la disposizione in prossimità dei confini; né d’altronde la limitata e occasionale pressione dei barbari ai suoi tempi ne avrebbe giustificato l’utilizzo, che sarebbe stato troppo statico. Invece egli si attenne sempre al giusto principio di tenere l’esercito in esercizio, se non altro perché un esercito in armi dismpegnato, oltre a perdere rapidamente di efficienza, è un grave fattore di instabilità politica. Tenere i soldati impegnati e possibilmente vincenti era il modo migliore per confermarne la lealtà alla res publica e al suo princeps; e quest’ultimo obiettivo era particolarmente importante per Augusto, che vide sempre nei soldati lo strumento della sua affermazione e della tenuta del suo potere. Non a caso, egli pose sempre la massima attenzione a mantenere stretto il legame tra sé e le legioni: attraverso il voto di fedeltà alla sua persona, l’introduzione del concetto che, anche in sua assenza dal campo di battaglia, la gloria militare era sempre tutta e sola dell’imperatore, la scelta di comandanti nella famiglia imperiale o nella sua cerchia. E quando un comandante si segnalava per si suoi successi, rischiando di attirare su di sé il favore delle truppe, veniva prontamente eclissato – è il caso di Marco Licinio Crasso, nipote del triumviro con Cesare e Pompeo, il quale, avendo combattuto con successo lungo il Danubio in qualità di governatore della Macedonia e avendo ucciso il comandante nemico in battaglia, reclamò le spolia opima, onore concesso solo tre volte in precedenza, ma non le ottenne per intervento di Augusto e, celebrato il proprio trionfo, sparì dalla scena pubblica – o, se non bastava, cadeva in disgrazia – ed è il caso di Gaio Cornelio Gallo, il già citato primo prefetto dell’Egitto, il quale, dopo aver vinto ribellioni interne e nemici confinanti, osò celebrare non solo le proprie imprese ma se stesso con statue e iscrizioni: ad Augusto bastò far sapere che Gallo non poteva più essere considerato suo amico perché questi fosse in breve accusato e condannato all’esilio e alla confisca dei beni, mettendo poi fine alla sua vita con le sue mani -.
Nell’ambito amministrativo, la novità più significativa fu l’introduzione del consilium principis, una sorta di gabinetto di governo formato dai consoli in carica e da rappresentanze delle altre magistrature e del senato (che vi era rappresentato da quindici membri scelti a sorte), il cui compito era quello di assistere l’imperatore nelle sue decisioni, in modo da garantire agilità rispetto al pletorico sistema puramente assembleare basato sul senato e allo stesso tempo assicurare che tutte le amministrazioni pubbliche ne fossero coinvolte e consapevoli. La competenza del consilium si estendeva perciò ad ogni ramo dell’amministrazione dello stato. Era, questo, anche un altro modo per rafforzare l’autorità del princeps e delimitare quella del senato, dal momento che il nodo dell’equilibrio costituzionale dello stato, in virtù dell’introduzione del principato, era affrontare la transizione dal sistema in cui il senato governava da solo al sistema nel quale il senato delegava una parte sostanziale dei propri poteri al proprio rappresentante più autorevole, l’imperatore, con il quale condivideva il governo dello stato. A questo principio diarchico Augusto fu sempre fedele di stretta osservanza, almeno in apparenza (di certo con l’intento di assicurare che la transizione al nuovo equilibrio fosse pacifica), come si incaricano di dimostrare: nell’ambito del riordino di poteri e competenze, il fatto che riservò al rango senatorio alcune delle nuove magistrature da lui create (quale il praefectus Urbis e il curator aquarum) accanto a quelle di nomina imperiale, normalmente concesse ai cavalieri; nell’amministrazione delle province, la divisione di queste in senatorie o pubbliche, soggette all’amministrazione dei tradizionali magistrati, proconsoli e propretori, e imperiali, amministrate dai legati dell’imperatore; e l’affiancamento ai preesistenti istituti pubblici di equipollenti istituti imperiali, nell’ambito della riorganizzazione delle finanze con l’istituzione di un fisco imperiale, il fiscus, accanto all’aerarium publicum, e relativa suddivisione e rimodulazione delle imposte, e nella riorganizzazione della giustizia con l’introduzione di una giurisdizione imperiale con diritto di appello all’imperatore per tutti indistintamente e in tutte le cause civili e penali. Ma nella pratica Augusto fu anche l’iniziatore di quel processo che col tempo sbilancerà la diarchia sempre più in favore dell’imperatore: alla sua morte le province imperiali si estendavano per una superficie forse doppia di quella delle province pubbliche (sulle quali l’imperatore mantenne inoltre una certa giurisdizione, in virtù dell’imperium proconsulare, benché i confini non ne siano completamente noti) e includevano il comando di ventiquattro legioni su venticinque in armi; e, se ostentò sempre il massimo rispetto per il senato e non trascurò mai di ascoltarne il parere, nulla si faceva che non piacesse ad Augusto, come annota Cassio Dione. Del resto la stessa riforma degli ordini senatorio ed equestre fu accettata senza contrasti dal senato, la cui riduzione a 600 membri fu l’occasione di una drastica epurazione di indegni e avversari; il censo necessario per appartenervi fu aumentato e stabilito nella cifra di un milione di sesterzi.
Principali beneficiari del nuovo equilibrio di poteri furono proprio l’ordine equestre nonché le province. Il cavalierato, cui in seguito alla riforma augustea si poté accedere con una fortuna personale non inferiore a 400.000 sesterzi, ebbe da Augusto una posizione di molto accresciuta nello stato: da ceto sostanzialmente amorfo e privo di rilievo nell’ordinamento statale, perché espressione della ricca borghesia affrancata dalla condizione plebea per censo ma fuori dal patriziato, acquistò importanza propria e divenne il nerbo dell’amministrazione civile e militare accanto all’ordine senatorio. Agli equites furono riservati i rouli di governatore delle province imperiali, di prefetto del pretorio – cioè della guardia imperiale -, di prefetto dei vigili – il corpo dei della polizia urbana e dei vigili del fuoco istituito a Roma -, di prefetto dell’annona, incaricato dell’approvvigionamento di beni alimentari a Roma, incarichi nella macchina statale e ufficialati nell’esercito. Della pax Augusta beneficiarono in modo del tutto particolare le province, che non furono più oggetto delle estorsioni dei governatori, almeno con quella frequenza e quella rapacità che avevano caratterizzato il periodo repubblicano. Il motivo appare inequivocabile: il sistema elettorale adottato dalla repubblica era sostanzialmente clientelare, infatti per essere eletti alle singole cariche e svolgere la carriera pubblica occorreva acquistarsi il favore degli elettori con larghezza di promesse e donativi, di conseguenza occorrevano grandi quantità di denaro; al contrario, con l’avvento del principato, per avere accesso e per rimanere nella carriera pubblica divenne necessario il favore del principe, che presso i buoni imperatori si acquistava con le buone referenze, mentre lo sfruttamento di una provincia, oltre al discredito, avrebbe anche attirato lo sguardo del principe sul possibile fine ultimo di quella condotta. Il diritto di appello diretto all’imperatore accresceva anche in quest’ambito il timore dei disonesti. Non a caso, gli scandali e i processi per cattiva amministrazione che avevano caratterizzato soprattutto la tarda repubblica tendono a scomparire sotto Augusto, limitati ai pur sempre presenti casi di naturale avidità. Il benessere delle province fu poi favorito con lo stimolo alla edificazione di opere pubbliche, strade e ponti, acquedotti, fori, cloache, templi, e con l’impulso all’agricoltura. La raggiungibilità degli amministratori locali e degli eserciti e il contatto con il centro del potere, Roma o dove fosse l’imperatore, fu assicurata dalla nascita del cursus publicus, cioè della posta ad uso dello stato: con stazioni distribuite su tutta la rete stradale romana, nelle quali erano disponibili cavalli sempre freschi, missive, ordini e relazioni viaggiavano senza sosta in pochi giorni da un angolo all’altro dell’impero.
Una grande arena dell’attività riformatrice augustea furono infine i costumi. Non è facile per noi valutare con esattezza lo stato della società in Roma e nell’impero a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., ma Augusto percepì che, fosse l’estremo retaggio delle guerre civili o la corruzione provocata nella tarda repubblica dalla sfrenata ricchezza messa a disposizione dagli immensi domini di Roma, i patri costumi erano in declino, declino che minacciava di condurre la civiltà romana alla sua fine. Per tutta la durata del suo governo, dunque, Augusto si adoperò instancabilmente per combattere l’immoralità e la irreligiosità e rafforzare la dignità facendo approvare leggi in difesa della famiglia, che punivano i celibi e gli adulteri, limitavano il divorzio, incoraggiavano a mettere al mondo figli; in rafforzamento dell’ordine e della struttura della società, aumentando il minimo censo necessario per appartenere agli ordini superiori, vietando le nozze con persone di ceto inferiore, limitando il numero degli affrancamenti di schiavi a un massimo legato al numero degli schiavi posseduti e condizionando la concessione della cittadinanza agli schiavi così affrancati a fattori quali l’aver figli; in difesa dei culti tradizionali, restaurando ed edificando templi e riesumando culti e tradizioni in disuso o che rischiavano di essere dimenticati. Tutte queste disposizioni poco toccavano il cittadino di basso ceto, mentre si applicavano essenzialmente agli appartenenti agli ordini superiori: lo scopo era dunque quello di ristabilire la dignitas della classe dirigente romana, limitandone le dimostrazioni stravaganti o eccessive di ricchezza e immoralità, soprattutto in pubblico, e rafforzare l’ordine sociale, col far sì che ognuno sapesse qual era il suo posto nella società.
Il problema della successione
Se fece della restaurazione dei costumi e della moralità un cardine della sua azione sulla vita pubblica romana, non altrettanto poté Augusto nell’ambito privato: numerosi furono gli scandali della famiglia imperiale che, se non ebbero effetti negativi sulla auctoritas augustana, condizionarono però il problema della successione. Questo problema angustiò Augusto fino alla fine dei suoi giorni, non solo dal punto di vista delle esigenze dello stato, ma anche dal lato umano, perché egli, che desiderava un erede del suo sangue, vide morire uno dopo l’altro tutti i candidati della sua famiglia cui egli manifestava il suo favore – tanto da far apparire in ultimo la scelta di Tiberio quasi un ripiego -. L’esigenza dello stato era ben chiara ad Augusto, poiché egli non ignorava che il sistema da lui inventato per garantire stabilità alla repubblica rimanendo al tempo stesso nel solco della tradizione, il principato, non necessariamente gli sarebbe sopravvissuto: alla sua morte, il senato avrebbe potuto provvedere alla nomina di un successore quale princeps rei publicae; ma in verità, nulla avrebbe potuto eventualmente impedire al senato e al popolo di Roma, fonte costituzionale dei poteri del princeps, di deliberare il ritorno al sistema della libera repubblica. Ritorno che sarebbe stato di certo foriero di nuove guerre civili e avrebbe forse portato al disastro dello stato: chi infatti avrebbe potuto impedire ai comandanti militari – così vicini alla genuina sorgente del potere, come Augusto ben sapeva -, a maggiorenti dello stato o a semplici avventurieri di aspirare con ogni mezzo al potere assoluto o semplicemente al posto di preminenza che già uno aveva occupato? Per prevenire ciò, egli ricorse all’auctoritas, raccomandando secondo Suetonio che il nuovo ordine istituzionale continuasse dopo la sua morte e indicando il possibile candidato alla successione. L’indicazione del successore aveva anche il pregio di favorire una transizione senza scosse del potere imperiale, oltre che di mantenere finché possibile la porpora dentro i confini della famiglia. Ma c’era una difficoltà: Augusto non aveva il potere legale di indicare e men che meno di nominare il suo successore, non detenendo poteri maggiori di coloro che gli furono colleghi nelle diverse magistrature (Res gestae 34): tecnicamente, questo potere, riflesso del potere imperiale dello stesso Augusto, spettava solo al senato e al popolo romano, secondo una forma che, come sappiamo, Augusto aveva voluto instaurare con ogni accuratezza e preservare con ogni sforzo. Per conseguire la salvezza dello stato e perseguire i propri obiettivi dinastici Augusto si valse di due mezzi fondamentali: il conferimento di privilegi costituzionali per indicare i candidati alla successione, e l’suo dell’adozione legale nel caso la parentela del candidato con la famiglia imperiale fosse lontana o inesistente. Si voleva quindi, nel consueto rispetto della forma repubblicana, instaurare un sistema dinastico, ma aperto: si riconosceva il legittimo desiderio degli imperatori di assicurare la successione ai propri congiunti, apprezzando inoltre il ruolo della famiglia imperiale quale scuola dei candidati al trono, ma si dava sempre la possibilità di scartare familiari inetti e ricorrere al serbatoio dei collaboratori e delle personalità di spicco al servizio dello stato. Questi metodi avranno ampia fortuna presso i suoi successori, garantendo sicurezza allo stato nei delicati passaggi della porpora imperiale, ma non impediranno il sorgere di pretendenti e usurpatori, soprattutto nei momenti di minore solidità della compagine statale.
Il problema della successione era giudicato così importante che fu affrontato da Augusto sin dai giorni che seguirono Azio. Nel 40 a.C. Augusto aveva avuto una figlia, Giulia, da Scribonia, sua seconda moglie (la prima era stata Claudia, la terza fu Livia Drusilla, che egli sposò nel 38), ma non aveva figli maschi. La sua prima scelta alla successione fu quindi un nipote, Marcello, figlio della sorella Ottavia, che egli fece partecipare al triplice trionfo dell’agosto del 29 a.C., come Cesare aveva fatto con lui una quindicina di anni prima. Quindi nel 25 a.C. a Marcello fu data in isposa Giulia, la quale faceva così la sua prima apparizione quale strumento della politica dinastica di Augusto; apparizione infelice, perché ella non poté più liberarsi dall’intreccio politico ordito dal padre finendo per esserne schiacciata dopo essere stata sposa dei tre principali candidati che si susseguirono nel favore di Augusto. Marcello, dopo essere stato fatto edile nel 24 e aver ottenuto per desiderio di Augusto di sedere in senato quale ex pretore e di concorrere per il consolato dieci anni prima dell’età minima, si ammalò e morì a 19 anni nel 23. Peraltro, quando poco prima quello stesso anno pure Augusto si era seriamente ammalato, aveva deciso di consegnare lo stato nelle mani del console Gneo Calpurnio Pisone e del fedele Marco Vipsanio Agrippa, giudicando evidentemente troppo giovane Marcello per questo compito all’età nella quale egli aveva sfidato il senato e Marco Antonio. Dopo la morte di Marcello, per molti anni Agrippa rimase il principale candidato: fu elevato quasi allo stesso livello di Augusto con la concessione dell’imperium proconsulare nel centrale anno 23 a.C., potestà rinnovata nel 18, quando gli fu concesso anche l’altro pilastro del potere imperiale, la tribunicia potestas; nel 21 sposava Giulia, dalla quale aveva tre figli, Gaio Cesare nel 20, Lucio Cesare nel 17 e Agrippa Postumo; nel 17 Augusto adottava con unico atto il piccolo Gaio e il neonato Lucio, indicando chiaramente che non solo vedeva in Agrippa il successore ma anche nella di lui discendenza la terza generazione di principi. Ma, dopo che nel 13 aveva visto rinnovati i poteri che di fatto lo associavano al trono imperiale, nel 12 a.C. Agrippa moriva: Augusto perdeva così un amico, il capace braccio destro e il secondo candidato. Nel frattempo Tiberio Claudio Nerone (nato il 16 novembre del 42 a.C.) e Druso Claudio Nerone, figliastri di Augusto perché figli di primo letto di Livia (era stata sposata a Tiberio Claudio Nerone, dal quale aveva divorziato nel 39), si facevano strada a suon di imprese militari sull’Eufrate, sul Reno e sul Danubio e acquisivano una certa considerazione, se non altro in attesa che Gaio e Lucio Cesare crescessero; nonostante il sostegno della madre Livia, rimanevano comunque in seconda posizione, soprattutto perché appartenevano alla gens Claudia e Augusto, che della famiglia aveva il concetto romano, preferiva uno della gens Iulia, ancorché adottato. Dei due, Augusto non amava Tiberio, ma fu Druso a morire nel 9 a.C. in Germania. Ben sappiamo quanto Augusto fosse prudente e realista e non sorprende che, in attesa di scegliere tra i figli di Agrippa, Tiberio, unico ‘papabile’ per età (se è passabile l’anacronismo), ricevesse progressivamente Giulia in moglie e le usuali potestà proconsolare e tribunizia, con le quali iniziava il graduale percorso di associazione al trono. Poi, la vera sorpresa: nel 6 a.C., al culmine dell’ascesa, Tiberio abbandona tutto e si ritira a Rodi. Non è dato sapere la reale ragione della drastica scelta: esplosero forse i contrasti con Augusto, che certamente non la prese bene; comunque egli decise di attendere i figli di Agrippa, e così passarono una decina d’anni. Ma la sorte si accanì ancora una volta contro il sempre più anziano imperatore e i suoi delfini: Lucio Cesare morì nel 2 d.C. e Gaio Cesare nel 4 d.C. Era troppo: Augusto richiamò Tiberio dal suo esilio volontario nel giugno del 4 d.C. e lo adottò, costringendolo inoltre ad adottare il ventenne nipote Germanico; il nuovo gruppo di candidati era completato da Agrippa Postumo, che fu pure adottato da Augusto.
Come è ben noto, la ricerca di Augusto era destinata a fermarsi a Tiberio, il quale, associato al trono nel 13 d.C., fu proclamato princeps dal senato alla morte di Augusto l’anno successivo e divenne quindi il secondo imperatore dei Romani in un passaggio di mano senza torbidi, come Augusto aveva sperato. Ma nemmeno il secondo tentativo di avvicinamento al trono da parte di Tiberio e gli ultimi anni della vita di Augusto furono esenti da scandali e amarezze. Il matrimonio con Giulia non aveva avuto successo, e Giulia, al terzo matrimonio, finì col cercare il conforto di braccia di norma nobili e ricche, talvolta avventuriere; in verità, qualunque amante di Giulia poteva nascondere ambizioni al trono, dato che ella stessa era strumento di selezione e di indicazione dei candidati. Così fu forse proprio la ragion di stato, alla quale era stata sacrificata fin da giovane, a infliggere il colpo di grazia a Giulia con il bando nel 2 a.C. all’isola di Pandateria. L’ordine fu dato da Augusto in persona per l’accusa di immoralità e la figlia non fece più ritorno a Roma; del resto, nell’8 d.C. egli comminò la stessa pena alla di lei figlia, pure chiamata Giulia, sempre accusata di comportamento licenzioso. Ma non è privo di significato il fatto che i vari amanti scoperti fossero di norma condannati all’esilio, quando non alla pena capitale. Triste fu anche il destino di Agrippa Postumo, ricordato nelle fonti come inetto e sanguinario, il quale pure fu esiliato, forse nel 7 d.C., nell’isola di Planasia; il fatto che fosse anche stato diseredato non lo salvò dal pugnale del sicario che lì lo uccise poco dopo la morte di Augusto per prevenire le sue eventuali rivendicazioni sul trono.
L’attività letteraria
Oltre a farsi promotore delle arti, Augusto stesso si cimentò nella letteratura. In gioventù, come molti altri uomini di ingegno e di raffinata e completa educazione, coltivò la poesia, ma non doveva essere convinto delle sue possibilità in questo campo che forse avrebbe abbandonato anche se la vita non l’avesse chiamato altrove: abbiamo notizia di una raccolta di epigrammi e del carme Sicilia, in esametri; scrisse anche una tragedia, l’Aiax, che però non fu mai rappresentata per suo volere; anzi una tradizione significativa vuole che egli l’abbia distrutta di sua mano. Più numerose e convinte le opere in prosa: una autobiografia De vita sua che egli interruppe al XIII libro trattando della guerra cantabrica; una Vita Drusi, il fratello del futuro imperatore Tiberio e con quest’ultimo nel novero dei candidati alla successione, morto nel 9 a.C. durante una campagna in Germania; le Hortationes ad philosophiam, forse ispirate all’Hortensius di Cicerone; come Cesare aveva contestato nell’Anticato l’elogio di Cicerone a Catone Uticense, così egli contestò gli elogi rivolti da Bruto a Catone nei Rescripta Bruto de Catone. Fu brillante oratore, non un improvvisatore, chè anzi rifiniva con cura i suoi discorsi: la sua prosa fu molto lodata, da Suetonio per la misura e la limpidezza, da Tacito per la scorrevolezza, da Frontone e Gellio per l’eleganza. Infine si ha notizia di un epistolario, in latino e in greco.
Se della produzione poetica non resta nulla, di quella in prosa restano solo esigui frammenti, troppo pochi per esprimere un pur cauto giudizio sulle qualità di Augusto. Una fortunata eccezione è l’autobiografico Index rerum a se gestarum o Res gestae divi Augusti, pervenutoci in buona parte. Lo conosciamo, lacunoso, attraverso una iscrizione trovata nel 1555 ad Ancyra (oggi Ankara in Turchia) sulle pareti del pronao del tempio di Augusto e Roma. L’epigrafe, il cosiddetto monumentum Ancyranum, è in doppia lingua, cioè in latino con accanto la traduzione in greco; questo fatto è particolarmente fortunato, poiché in questo modo si è conservata una maggior porzione del testo, che è pure integrato attraverso altri frammenti provenienti da iscrizioni realizzate per monumenti analoghi in Antiochia di Pisidia e, in greco, ad Apollonia. Nell’opera, in 35 brevi capitoli scritti con volontaria lapidarietà – appunto per essere iscritta sulla pietra – egli ricorda tutto ciò che lo riguarda, i fatti storici, le imprese militari, le opere pubbliche, le cariche ricevute; soprattutto egli vuole essere ricordato come colui che ha riportato la pace nel mondo per terra e per mare. Le Res gestae sono in effetti un vero e proprio testamento spirituale, il cui valore suggestivo e fattivo è ampliato dal fatto che furono concluse da Augusto solo nel 14 d.C., poco prima della sua morte. Data l’affinità tra i due grandi personaggi, il paragone con i diari di Cesare, dal punto di vista letterario, pur nella totale diversità di genere e di fine, sorge spontaneo: rispetto ai Commentarii cesariani, lo stile è più asciutto e schematico – né poteva essere altrimenti nel paragone tra un’opera destinata alla pubblicazione nei libri e una destinata alla pubblica esposizione – ma si riscontra una comune nitidezza di rappresentazione dei fatti, evidente riflesso della capacità di interpretare i fatti stessi alla loro vera luce che era altrettanto comune a due degli uomini che hanno fatto più di altri il destino dell’Europa e del mondo.
Il ‘secolo di Augusto’ nel giudizio della storia
Augusto morì a Nola in Campania, mentre era in viaggio, il 19 agosto del 14 d.C., all’età di settantasette anni, avendo governato il mondo per oltre 40 anni come imperatore, e per più di mezzo secolo se si considera il periodo del triumvirato. Il cordoglio per la morte del pater patriae fu enorme: in senato si discusse su quali onori riservare al defunto e secondo Suetonio fu avanzata la proposta di denominare il periodo dalla nascita alla morte il ‘secolo di Augusto’. Augusto, come già Cesare prima di lui, fu immediatamente divinizzato e il Divi filius divenne il Divus Augustus. Fu allestito uno splendido funerale, con una immensa partecipazione, che lo condusse all’ultima dimora, nel mausoleo di famiglia che egli si era fatto costruire a Roma (ancor oggi se ne ammirano i resti nella piazza a lui dedicata, su un lato della quale furono collocati pure gli ampi frammenti dell’Ara pacis ritrovati durante scavi in zona). Nelle sue ultime volontà lasciò 1000 sesterzi agli appartenenti al corpo dei pretoriani, da lui istituito, 500 ai militi delle coorti urbane, pure da lui create, e 300 a ogni legionario: un riconoscimento e insieme un implicito suggerimento ai suoi successori (ma anche a pretendenti e usurpatori) su quale fosse e dove andasse ricercato l’autentico fondamento del potere imperiale.
Ma il vero lascito di Augusto fu certamente la pace e la prosperità dell’impero, non solo in rapporto all’orrido periodo delle guerre civili – che dopo un regno così lungo erano ormai nella memoria solo dei più anziani – ma soprattutto alle abitudini delle popolazioni italiche e barbare soggette ora al dominio di Roma. Il governo delle province dovette essere in generale tanto buono da favorire la rapida integrazione dei popoli, una pace duratura – si registrano solo modeste ribellioni in tutto il territorio romano, se si considera che la pacificazione in molte regioni era recentissima – e, quel che più conta, stabili condizioni per la generazione di prosperità e ricchezza. Il modello di governo inaugurato da Augusto regnerà almeno due secoli incontrastato, fino a quando le prime migrazioni di popoli barbari porteranno un brusco risveglio e la necessità di ampie misure di contrasto; quelle misure che in definitiva porteranno al collasso amministrativo prima che sociale e militare le regioni dell’impero più soggette alle migrazioni, quelle occidentali. In tutta la durata dell’impero romano, pochi ascesi alla porpora reggono il confronto con Augusto, ma probabilmente nessuno fu come lui un innovatore nel governo dello stato: con la sua azione politica e militare egli fu il vero creatore di un impero da un insieme di regioni, talvolta non confinanti, e popoli, spesso storicamente in conflitto; ai successori lasciò il compito di conservarlo. A buon diritto le Res gestae reclamano questi successi riassunti nella parola pace e a poco serve discettare, ad esempio, della vera valenza del sistema del principato: se è incontestabile che il principato soffrirà per tutta la sua durata, ad ogni cambio di imperatore e anche nei casi in apparenza più semplici, della mancanza di un valido metodo per la scelta del successore, lo è altrettanto che nessun metodo può assicurare la selezione dell’optimus princeps, ammesso che ve ne sia anche solo uno tra i candidati disponibili. La storia stessa, unico giudice definitivo, mostra che il principato garantì, assieme a innumerevoli episodi di lotte intestine, sangue e instabilità politica, la continuità dello stato romano per diversi secoli.
La visuale storica che possiamo abbracciare dalla nostra posizione, privilegiata almeno per l’essere distante più di venti secoli, evidenzia un solo importante fallimento nella vita pubblica di Augusto: la mancata conquista della Germania. L’aneddoto di Suetonio riguardante il monito a non cercare più l’annessione dei territori oltre il Reno sembra, nel racconto degli storici antichi, l’unica occasione in cui egli, ormai vecchio e sempre più stanco, sentì la sua naturale energia e prudenza offuscate e cedette all’amarezza. Appartiene alla sfera delle discussioni vacue, benché suggestive (domandandosi ad esempio se esisterebbe oggi la lingua inglese), il dibattito su quale sarebbe stato il futuro dell’impero romano e ancor più dell’Europa qualora il tentativo di annessione della Mitteleuropa avesse avuto successo, sebbene si possa osservare almeno che il confine all’Elba avrebbe eliminato le difficoltà strategiche con cui i Romani si confrontarono fino alla caduta dell’impero d’occidente (proponendogliene altre) e che l’eventuale romanizzazione delle popolazioni barbare che condussero l’impero d’occidente allo stremo (e che provenivano o avevano le loro basi tutte nella regione tra Reno ed Elba) avrebbe contribuito alla prosperità e alla forza militare dell’impero. Gli studi militari possono comunque contribuire ad avvalorare a posteriori la reazione di Augusto coll’evidenziare appieno l’impatto negativo, sia pratico che psicologico, che ebbe la necessità di mantenere il doppio confine fluviale del Reno e del Danubio e la spina rappresentata nella strategia difensiva dalla regione nella quale i due fiumi, vicinissimi nel formare quasi un angolo retto, non arrivano a toccarsi e anzi formano una sacca rientrante nel territorio romano; e la difficile situazione in termini di strategia militare del punto di congiunzione tra occidente e oriente, centrato attorno alla fiorente città di Aquileia, che veniva a trovarsi quasi sul confine, tanto che le invasioni lì dirette non potevano essere fermate se non quando erano molto o troppo vicine a Roma.
Pur nel generale apprezzamento per l’opera del divus Augustus, fondatore dell’impero, fautore della pace e promotore della prosperità, più meditato appare il giudizio degli antichi, almeno in relazione a determinati avvenimenti, per noi, a distanza di molti secoli, di minore rilevanza, e in particolare degli storici più vicini temporalmente all’età augustea. Questo il giudizio di Tacito (Annales I, 9-10):
[9] Multus hinc ipso de Augusto sermo, plerisque vana mirantibus, quod idem dies accepti quondam imperii princeps et vitae supremus, quod Nolae in domo et cubiculo in quo pater eius Octavius vitam finivisset. Numerus etiam consulatuum celebrabatur, quo Valerium Corvum et C. Marium simul aequaverat, continuata per septem et triginta annos tribunicia potestas, nomen imperatoris semel atque viciens partum aliaque honorum mutiplicata aut nova. At apud prudentes vita eius varie extollebatur arguebaturve. Hi pietate erga parentem et necessitudine rei publicae, in qua nullus tunc legibus locus, ad arma civilia actum, quae neque parari possent neque haberi per bonas artes. Multa Antonio, dum interfectores patris ulcisceretur, multa Lepido concessisse. Postquam hic socordia senuerit, ille per libidines pessum datus sit, non aliud discordantis patriae remedium fuisse quam [ut] ab uno regeretur. Non regno tamen neque dictatura, sed principis nomine constitutam rem publicam; mari Oceano aut amnibus longinquis saeptum imperium; legiones, provincias, classes, cuncta inter se conexa; ius apud cives, modestiam apud socios; urbem ipsam magnificio ornatu; pauca admodum vi tractata quo ceteris quies esset.
[10] Dicebatur contra: pietatem erga parentem et tempora rei publicae obtentui sumpta: ceterum cupidine dominandi concitos per largitionem veteranos, paratum ab adulescente privato exercitum, corruptas consulis legiones, simulatam Pompeianarum gratiam partium; mox ubi decreto patrum fasces et ius praetoris invaserit, caesis Hirtio et Pansa, sive hostis illos, seu Pansam venenum vulneri adfusum, sui milites Hirtium et machinator doli Caesar abstulerat, utriusque copias ocupavisse; extortum invito senatu consulatum, armaque quae in Antonium acceperit contra rem publicam versa; proscriptionem civium, divisiones agrorum ne ipsis quidem qui fecere laudatas. Sane Cassii et Brutorum exitus paternis inimicitiis datos, quamquam fas sit privata odia publicis utilitatibus remittere: sed Pompeium imagine pacis, sed Lepidum specie amicitiae deceptos; post Antonium, Tarentino Brundisinoque foedere et nuptiis sororis inlectum, subdolae adfinitatis poenas morte exsolvisse. pacem sine dubio post haec, verum cruentam: Lollianas Varianasque clades, interfectos Romae Varrones, Egnatios, Iullos. Nec domesticis abstinebatur: abducta Neroni uxor et consulti per ludibrium pontifices an concepto necdum edito partu rite nuberet; Q. +Tedii+ et Vedii Pollionis luxus; postremo Livia gravis in rem publicam mater, gravis domui Caesarum noverca. Nihil deorum honoribus relictum, cum se templis et effigie numinum per flamines et sacerdotes coli vellet. Ne Tiberium quidem caritate aut rei publicae cura successorem adscitum, sed quoniam adrogantiam saevitiamque eius introspexerit, comparatione deterrima sibi gloriam quaesivisse. Et enim Augustus paucis ante annis, cum Tiberio tribuniciam potestatem a patribus rursum postularet, quamquam honora oratione quaedam de habitu cultuque et institutis eius iecerat, quae velut excusando exprobraret. Ceterum sepultura more perfecta templum et caelestes religiones decernuntur.
Certamente, un elemento da non sottovalutare in un pur sommario giudizio su Augusto, sia dalla prospettiva degli antichi che da quella dei moderni, è la non comune lunghezza della sua vita e del suo regno: l’apprezzamento per le sue qualità e il suo operato, le sue stesse creazioni, il principato e l’impero, avrebbero potuto avere una sorte ben diversa se egli fosse stato sottratto al mondo ad esempio in quella terribile malattia del 23 a.C., quando la gran parte della sua vita di governo doveva ancora svolgersi, quando i provvedimenti impopolari erano ancora vicini, quando le scorie delle guerre civili e la mancanza di assestamento avrebbero potuto ancora distruggere il nascente compromesso istituzionale, quando l’impero non era ancora unito in un blocco granitico dai confini definiti, quando il respiro dei provvedimenti politici e sociali non aveva ancora dispiegato i propri effetti benefici, consolidando implicitamente la monarchia e allo stesso tempo la buona fama di Augusto.