Ben poco sappiamo di Publio Flavio Vegezio Renato, vir inlustris e comes sacrarum largitionum, quello che si può desumere da rapidi cenni nei manoscritti e da qualche elemento offerto dalle sue opere, la Epitoma rei militaris e la Mulomedicina.
Il nome riportato dai manoscritti più antichi della Epitoma, e dai codici della Mulomedicina, è Publius Vegetius Renatus; altre tradizioni manoscritte di epoca medievale riportano invece Flavius Vegetius Renatus. Ma poiché il nome Flavius fu imposto fin da Costantino a tutti gli alti funzionari dell’impero – si può dire, ad esempio, che non ci sia console eletto a partire dalla seconda metà del IV secolo che non abbia il nome Flavio – come se tutti coloro che avevano parte con la casa regnante dovessero condividerne il gentilizio, quasi fosse un titolo di distinzione, si ritiene comunemente che il nome completo fosse Publius Flavius Vegetius Renatus.
Il prologo della Mulomedicina ce lo presenta quale allevatore di cavalli e, quindi, possidente terriero probabilmente molto ricco. In effetti, ancora una famiglia di codici riporta che faceva parte del ceto degli inlustres, il più elevato tra quelli in cui era divisa la società romana in epoca tardoimperiale, cui appartenevano in massima parte i latifondisti che le varie crisi economiche succedutesi almeno dall’epoca di Diocleziano avevano contribuito a creare.
Gli stessi codici ci conservano anche l’alto incarico da lui ricoperto nell’amministrazione imperiale, quello di comes sacrarum largitionum. Si trattava del tesoriere generale dell’erario pubblico, una delle cariche più alte dell’impero dopo la riforma dello stato voluta da Costantino: aveva la completa responsabilità dell’onere finanziario dell’amministrazione civile e militare dell’impero; la sua giurisdizione si estendeva sulle miniere di metalli preziosi e le zecche, nonchè naturalmente sui tesori pubblici dove nelle città più importanti venivano conservate le monete ad uso delle amministrazioni locali; anche il commercio con l’estero dipendeva dal tesoriere, che controllava infine tutte le manifatture e tessiture di lino e lana al servizio del palazzo e dell’esercito. L’onere del computo di tutte le spese, e il controllo di ogni atto, occupava undici diversi uffici nei quali lavoravano di certo parecchie centinaia di persone. “Straordinario” il suo titolo, nota il Gibbon, “nell’intento forse di inculcare nella mente dei sudditi che ogni pagamento veniva dalla libera generosità del monarca” (quanta differenza, in effetti, tra l’impero dopo Diocleziano e Costantino e la libera repubblica delle origini o anche l’impero di Augusto, Vespasiano, Traiano e gli Antonini).
Il nome Renatus potrebbe manifestare il fatto che Vegezio fosse cristiano; questo in realtà appare molto probabile in base al contenuto della Epitoma, dall’accenno contenuto nelle primissime righe del prologo del primo libro, quando si ricorda che prima Dio e poi l’imperatore devono accordare il loro favore perché un’impresa riesca, fino alla formula di giuramento (Epitoma II, 5) o sacramentum militiae dei soldati, i quali iurant autem per Deum et per Christum et per Sanctum Spiritum et per maiestatem imperatoris, quae secundum Deum generi humano diligenda est et colenda.
Non sembra invece ai più che Vegezio fosse militare di professione, anche perché quale vir inlustris era esentato dal servizio militare; né il fatto di aver scritto un trattato di arte militare lo accredita come soldato, poiché anzi nell’antichità era più frequente che un simile trattato fosse scritto da una persona completamente estranea alla vita militare. Non a caso i trattati tecnico-scientifici, non solo militari, rispondevano nella mentalità dell’epoca essenzialmente ai criteri dell’opera di letteratura, non della manualistica, che è genere letterario figlio della mentalità e dell’impostazione pratica moderna.
Riguardo il fondamentale problema della datazione, è certo che la Epitoma sia stata composta dopo il 383 e prima del 450 d.C. Infatti, nell’opera (Epitoma I, 20) si accenna esplicitamente al divus Gratianus, che fu imperatore dal 375 fino alla morte, avvenuta nel 383 d.C., e la divinizzazione degli imperatori avveniva dopo la morte. D’altra parte, un gruppo di manoscritti del IX-X secolo si rifà ad una edizione del 450 d.C., riportandone la data.
Il prologo del primo libro contiene la dedica a un imperatore, che è però non meglio specificato: si è perciò tentato di ridurre la forchetta determinata sulla base dei dati certi riconducendola almeno alla durata del regno dell’imperatore cui l’opera è dedicata. Gli sforzi in questo senso non hanno potuto giungere a una conclusione almeno probabile: volta a volta, si sono alternati coloro che hanno trovato argomenti per stabilire il dedicatario nella persona di Teodosio Magno (imperatore dal 379 al 395), Valentiniano II (383-392), Onorio (395-423), Valentiniano III (435-455). Ai più sembra che l’opera debba collocarsi nell’epoca di Teodosio, essenzialmente poiché vi si parla esplicitamente delle invasioni e delle vittorie dei Goti in Italia, tuttavia non viene fatta menzione del sacco di Roma da parte dei Goti di Alarico del 410 d.C. Questo porterebbe ad escludere la datazione più bassa. La vita di Vegezio sarebbe perciò da collocarsi probabilmente tra la seconda metà del IV secolo d.C. e i primi decenni del V secolo.
L’Epitoma re militaris è un trattato di arte militare diviso in quattro libri, rivolti rispettivamente ai problemi del reclutamento, della costituzione della unità militari e dei loro comandanti, della strategia di guerra terrestre, e nell’ultimo delle macchine da guerra e della strategia di guerra navale. Tra le fonti, sono citati Catone il censore, Cornelio Celso, Frontino e Tarruntenio Paterno.
La dottrina esposta è basata sulla tradizione militare romana, in particolare sulla classica consapevolezza che la vittoria si conquista con la disciplina e l’esercizio militare e delle arti belliche. Per quest’ultimo assunto si ricordino ad esempio le memorie del generale Domizio Corbulone citato da Tacito, secondo il quale la vittoria si conquista non solo con le armi ma soprattutto col piccone usato dai soldati romani per le opere belliche. Non a caso la preparazione dell’esercito romano era sempre stata alla base della sua incommensurabile superiorità militare e tecnica sia rispetto a popoli di antica arte militare sia, a maggior ragione, rispetto ai popoli barbari.
A questo riguardo, si ritiene da più parti che nell’esercito romano del basso impero si desse molta minore importanza alla formazione del soldato come carpentiere, dovendo la gran parte dell’esercito essere impiegata in modo stanziale a difesa delle città e dei forti scaglionati in profondità nei territori di confine. In effetti Vegezio, oltre che sulle classiche tecniche di assedio e di assalto, insiste sulle tecniche di difesa delle mura, dei forti e degli accampamenti.
A proposito dell’impiego dell’esercito, è stato anche ipotizzato che, in seguito alle riforme militari del tempo di Costantino, che portarono tra l’altro la distinzione tra limitanei, soldati destinati alle difese di confine, e palatini, soldati facenti parte dell’esercito da campo al seguito dell’imperatore, la classica struttura della legione sia stata profondamente alterata, e in particolare ne sia stato fortemente ridotto il numero degli effettivi. In effetti Vegezio, nel tentativo di sollecitare una riforma dell’esercito, ripropone appunto l’antica struttura delle legioni, che descrive in modo del tutto simile a quella repubblicana e dell’alto impero nota per altra via (ad esempio in Tito Livio Ab Urbe condita libri VIII), ed in particolare ne fissa gli effettivi a 6100 fanti e 730 cavalieri.
È d’altronde probabile che l’uso invalso da grandissimo tempo di distaccare in caso di necessità interi reparti da un luogo ad un altro, ad esempio le famose vexillationes, da una legione stanziata in una provincia ad un esercito impiegato dall’altra parte dell’impero, distaccamenti che potevano poi rimanere permanenti, abbia contribuito effettivamente alla frammentazione dell’esercito romano che si constata nella Notitia dignitatum (risalente presumibilmente al medesimo periodo di Vegezio) e al sorgere del gran numero di “legioni” che vi sono citate. In questo senso, la precisa descrizione di Vegezio potrebbe essere interpretata come l’invito a ricostituire l’antica organizzazione secundum normam militaris iuris.
Menzione del disastro di Adrianopoli, che, come si è visto, doveva essere recente, non è mai fatto esplicitamente nel corso dell’opera, anche se più volte si insiste sul cocente ricordo di città devastate dai barbari in seguito a rotte militari e sull’esortazione della Romana virtus e della disciplina militaris populi Romani e nel primo libro al capitolo ventesimo si ricorda la sciagurata decisione, avallata probabilmente da Graziano, di disarmare la fanteria delle corazze e degli elmi in seguito alla decadenza dell’addestramento militare, mentre nel secondo libro, al principio del terzo capitolo, con forza dolorosa si denuncia il decadere del merito:
[3] Legionum nomen in exercitu permanet hodieque, sed per neglegentiam superiorum temporum robur infractum est, cum virtutis praemia occuparet ambitio et per gratiam promoverentur milites, qui promoveri consueverant per laborem. […]
Come si accennava, oltre all’Epitoma, di Vegezio possediamo la Mulomedicina, un trattato di medicina veterinaria in quattro libri certamente posteriore all’invasione degli Unni del 375 d.C. Le sue fonti sembrano essere il classico De re rustica di Lucio Giunio Moderato Columella e la Mulomedicina Chironis, un’opera greca della quale ci resta una versione in latino volgare del principio del IV secolo d.C.