Il più grande maestro di retorica a Roma a noi noto, Marco Fabio Quintiliano, nacque a Calagurris (oggi Calahorra) nella Spagna Tarragonense attorno al 40 d.C. o poco prima. Sappiamo infatti (De institutione oratoria VI, 1, 14) che era adulescens al tempo del processo di Capitone – che, secondo Tacito in Annales XIII, 32, si svolse nel 57 d.C. – e (De institutione oratoria V, 7, 7) che adulescentulus frequentò assiduamente Domizio Afro ormai senex – secondo Tacito in Annales XIV, 19 l’oratore e pubblico accusatore, che lo storico dice compromesso con il potere politico, morì nel 60 d.C. -. Sembra quindi probabile che Quintiliano fosse attorno ai 17 anni nel 55-58 d.C. A Roma era stato inviato dal padre, un oratore piuttosto noto in patria, per studiare alla scuola del celebre grammatico Remmio Palemone. In seguito, la passione per la retorica lo spinse ad attingere direttamente dai migliori del suo tempo: ascoltò Seneca, ma da lui, o meglio dallo stile che egli impersonava, non fu mai convinto (De institutione oratoria X, 1, 125); Giulio Africano, che giudicò assai favorevolmente, ma comunque inferiore a Domizio Afro (De institutione oratoria X, 1, 118); e fu proprio quest’ultimo a catturare la sua ammirazione e stima incondizionate, testimoni le citazioni, seconde per numero e cifra d’autorità solo a quelle relative a Cicerone. Di Afro dice tra l’altro che fu un autorevole critico (De institutione oratoria X, 1, 86) e un oratore sommo, il quale commise però l’errore di non aver riconosciuto il progressivo venir meno delle proprie forze e di non essersi ritirato quand’era al culmine del successo (De institutione oratoria XII, 11, 3).
Al termine dei suoi studi Quintiliano tornò in Spagna, dove visse per circa dieci anni esercitando la professione di maestro di retorica e probabilmente di avvocato. Quando nel 68 d.C. dopo la morte di Nerone e gli sconvolgimenti che la seguirono il vecchio Galba, governatore della Spagna, fu eletto imperatore dalle sue legioni, questi condusse con sè a Roma anche il giovane Quintiliano (san Girolamo Chronicon ad annum 68 p.Chr.n.: M. Fabius Quintilianus Romam a Galba perducitur). A Roma, Quintiliano continuò il suo mestiere aprendo la scuola di retorica nella quale insegnò per più di vent’anni (san Girolamo Chronicon ad annum 88 p.Chr.n.: Quintilianus ex Hispania Calagurritanus primus Romae publicam scholam et salarium e fisco accepit et claruit). Tra gli allievi più noti si ricordano Plinio il giovane e probabilmente anche Tacito e Giovenale. Non disdegnò però lo scopo pratico dell’educazione ed esercitò anche la professione di avvocato. Nel 71 d.C. Quintiliano fu il primo a beneficiare dello stipendio, finanziato dall’erario, di centomila sesterzi l’anno che l’imperatore Vespasiano decise di attribuire ai migliori maestri di retorica e con il quale per la prima volta nella res publica e forse nel mondo si riconosceva tangibilmente l’importanza dell’educazione superiore.
Nell’89 d.C. Quintiliano iniziò le sue pubblicazioni con il trattato, oggi perduto, De causis corruptae eloquentiae. Il tema era già stato affrontato da Seneca il retore e sarà di lì a breve caro all’autore (da identificarsi, come è noto, con Tacito) del Dialogus de oratoribus: più in generale un argomento di grande interesse nel I secolo dell’era volgare, così vicino ai luminosi esempi di virtù oratoria del secolo precedente e così ricco di ingegni quasi come quell’età dell’oro. Ma mentre Seneca il retore e Tacito legarono il declino dell’eloquenza a ragioni politiche e sociali, cioè l’avvento del principato che segnò la fine della repubblica e la corruzione della società romana, Quintiliano, da buon professore – e con atteggiamento più prudente e forse necessario in un’epoca come l’ultimo periodo domizianeo -, lo attribuì – per quel che possiamo capire delle sue opinioni attraverso il De institutione oratoria – a cause legate all’insegnamento: la carenza di buoni maestri e il cattivo uso delle declamationes, le esercitazioni che erano divenute ormai il fine delle scuole di retorica. Nello stesso anno 89 sappiamo che vide la pubblicazione anche l’orazione Pro Naevio Arpiniano, forse pronunciata molti anni prima, che pure non è giunta fino a noi: anzi, non sopravvive integralmente alcuna delle sue orazioni. Possediamo, invece, due raccolte di declamazioni a lui attribuite: le Declamationes maiores, che sono controversiae complete – l’unica opera del genere sopravvissuta in latino – e le Declamationes minores, centoquarantacinque parti o sunti di declamazioni, spesso accompagnate da istruzioni. Entrambe sono generalmente ritenute spurie ma discendono probabilmente da esempi originali, forse orazioni pronunciate da Quintiliano nel corso della sua professione forense, adattati e pubblicati a scopo di lucro da stenografi. Da simile sorte, perché pubblicati da alcuni allievi senza la sua autorizzazione (De institutione oratoria, Proemium 7), erano nati nel corso degli anni di insegnamento i due libri, oggi perduti, dal titolo di Ars Rethorica, raccolte di appunti delle sue lezioni. Entrambi composti in forma di dialogo, il primo, più breve, raccoglieva il materiale del corso preparatorio del primo anno, mentre il secondo, più corposo, era basato sul corso avanzato del secondo anno.
Probabilmente l’anno seguente – il 90 d.C. – Quintiliano si ritirò dopo vent’anni dall’insegnamento (De institutione oratoria, Proemium 1). Gli ultimi anni di vita furono funestati da gravissimi lutti, poiché nell’arco di pochi mesi perdette la giovane moglie e il figlioletto secondogenito, di appena cinque anni, e qualche anno più tardi morì anche il primogenito all’età di appena dieci anni; e furono parallelamente segnati da grande attività, poiché scrisse il poderoso trattato De institutione oratoria, vera summa della sua scienza, e inoltre l’imperatore Domiziano gli affidò l’educazione dei suoi pronipoti, figli di suo cugino Flavio Clemente e di Flavia Domitilla. Lo stesso Flavio Clemente sollecitò per Quintiliano a titolo di ringraziamento gli ornamenta consularia, cioè gli onori del console senza aver mai ricoperto la carica, che gli furono attribuiti alla fine del 94 o forse all’inizio del 95 d.C. Sembra che proprio al principio del 95 – comunque certamente prima della morte di Domiziano – egli pubblicasse, su pressione dell’editore Trifone, la De institutione oratoria. L’anno segnò, secondo alcuni, la morte dello stesso Quintiliano, che secondo altri è invece da spostarsi qualche anno più avanti.
Probabilmente agli anni tra il 93 e il 95 risale la composizione del De institutione oratoria, l’opera pedagogica e istitutoria celeberrima e unica nel suo genere e per la sua completezza nel panorama dell’antichità, che dobbiamo all’interessamento dell’amico Vitorio Marcello, maestro di Geta figlio di Domiziano, cui la dedicò. Il titolo è di Quintiliano, che così la chiamò nella lettera all’editore premessa nei codici e nelle edizioni all’opera. Il pensiero di Quintiliano educatore, lo scopo dell’opera e la distribuzione della materia nei dodici libri che la compongono sono chiaramente spiegati da Quintiliano stesso nel proemio, che funge anche da dedica e da prefazione, e che per il suo valore programmatico qui riportiamo integralmente:
I. Post impetratam studiis meis quietem, quae per viginti annos erudiendis iuvenibus inpenderam, cum a me quidam familiariter postularent ut aliquid de ratione dicendi componerem, diu sum equidem reluctatus, quod auctores utriusque linguae clarissimos non ignorabam multa quae ad hoc opus pertinerent diligentissime scripta posteris reliquisse. II. Sed qua ego ex causa faciliorem mihi veniam meae deprecationis arbitrabar fore, hac accendebantur illi magis, quod inter diversas opiniones priorum et quasdam etiam inter se contrarias difficilis esset electio, ut mihi si non inveniendi nova, at certe iudicandi de veteribus iniungere laborem non iniuste viderentur. III. Quamvis autem non tam me vinceret praestandi quod exigebatur fiducia quam negandi verecundia, latius se tamen aperiente materia plus quam imponebatur oneris sponte suscepi, simul ut pleniore obsequio demererer amantissimos mei, simul ne vulgarem viam ingressus alienis demum vestigiis insisterem. IV. Nam ceteri fere qui artem orandi litteris tradiderunt ita sunt exorsi quasi perfectis omni alio genere doctrinae summam (in eloquentiae) manum imponerent, sive contemnentes tamquam parva quae prius discimus studia, sive non ad suum pertinere officium opinati, quando divisae professionum vices essent, seu, quod proximum vero, nullam ingenii sperantes gratiam circa res etiamsi necessarias, procul tamen ab ostentatione positas, ut operum fastigia spectantur, latent fundamenta. V. Ego cum existimem nihil arti oratoriae alienum sine quo fieri non posse oratorem fatendum est, nec ad ullius rei summam nisi praecedentibus initiis perveniri, ad minora illa, sed quae si neglegas non sit maioribus locus, demittere me non recusabo, nec aliter quam si mihi tradatur educandus orator studia eius formare ab infantia incipiam. VI. Quod opus, Marcelle Vitori, tibi dicamus, quem cum amicissimum nobis tum eximio litterarum amore flagrantem non propter haec modo, quamquam sint magna, dignissimum hoc mutuae inter nos caritatis pignore iudicabamus, sed quod erudiendo Getae tuo, cuius prima aetas manifestum iam ingenii lumen ostendit, non inutiles fore libri videbantur quos ab ipsis dicendi velut incunabulis per omnes quae modo aliquid oratori futuro conferant artis ad summam eius operis perducere festinabimus, VII. atque eo magis quod duo iam sub nomine meo libri ferebantur artis rhetoricae neque editi a me neque in hoc comparati. Namque alterum sermonem per biduum habitum pueri quibus id praestabatur exceperant, alterum pluribus sane diebus, quantum notando consequi potuerant, interceptum boni iuvenes sed nimium amantes mei temerario editionis honore vulgaverant. VIII. Quare in his quoque libris erunt eadem aliqua, multa mutata, plurima adiecta, omnia vero compositiora et quantum nos poterimus elaborata. IX. Oratorem autem instituimus illum perfectum, qui esse nisi vir bonus non potest, ideoque non dicendi modo eximiam in eo facultatem sed omnis animi virtutes exigimus. X. Neque enim hoc concesserim, rationem rectae honestaeque vitae, ut quidam putaverunt, ad philosophos relegandam, cum vir ille vere civilis et publicarum privatarumque rerum administrationi accommodatus, qui regere consiliis urbes, fundare legibus, emendare iudiciis possit, non alius sit profecto quam orator. XI. Quare, tametsi me fateor usurum quibusdam quae philosophorum libris continentur, tamen ea iure vereque contenderim esse operis nostri proprieque ad artem oratoriam pertinere. XII. An, si frequentissime de iustitia fortitudine temperantia ceterisque similibus disserendum est, adeo ut vix ulla possit causa reperiri in quam non aliqua ex his incidat quaestio, eaque omnia inventione atque elocutione sunt explicanda, dubitabitur, ubicumque vis ingenii et copia dicendi postulatur, ibi partes oratoris esse praecipuas? XIII. fueruntque haec, ut Cicero apertissime colligit, quemadmodum iuncta natura, sic officio quoque copulata, ut idem sapientes atque eloquentes haberentur. Scidit deinde se studium, atque inertia factum est ut artes esse plures viderentur. Nam ut primum lingua esse coepit in quaestu institutumque eloquentiae bonis male uti, curam morum qui diserti habebantur reliquerunt: XIV. ea vero destituta infirmioribus ingeniis velut praedae fuit. Inde quidam contempto bene dicendi labore ad formandos animos statuendasque vitae leges regressi partem quidem potiorem, si dividi posset, retinuerunt, nomen tamen sibi insolentissimum adrogaverunt, ut soli studiosi sapientiae vocarentur; quod neque summi imperatores neque in consiliis rerum maximarum ac totius administratione rei publicae clarissime versati sibi umquam vindicare sunt ausi: facere enim optima quam promittere maluerunt. XV. Ac veterum quidem sapientiae professorum multos et honesta praecepisse et, ut praeceperint, etiam vixisse facile concesserim: nostris vero temporibus sub hoc nomine maxima in plerisque vitia latuerunt. Non enim virtute ac studiis ut haberentur philosophi laborabant, sed vultum et tristitiam et dissentientem a ceteris habitum pessimis moribus praetendebant. XVI. Haec autem quae velut propria philosophiae adseruntur, passim tractamus omnes. Quis enim non de iusto, aequo ac bono, modo non et vir pessimus, loquitur? Quis non etiam rusticorum aliqua de causis naturalibus quaerit? Nam verborum proprietas ac differentia omnibus qui sermonem curae habent debet esse communis. XVII. Sed ea et sciet optime et eloquetur orator: qui si fuisset aliquando perfectus non a philosophorum scholis virtutis praecepta peterentur. Nunc necesse est ad eos [aliquando] auctores recurrere, qui desertam, ut dixi, partem oratoriae artis, meliorem praesertim occupaverunt, et velut nostrum reposcere, non ut illorum nos utamur inventis, sed ut illos alienis usos esse doceamus. XVIII. Sit igitur orator vir talis qualis vere sapiens appellari possit, nec moribus modo perfectus (nam id mea quidem opinione, quamquam sunt qui dissentiant, satis non est), sed etiam scientia et omni facultate dicendi; qualis fortasse nemo adhuc fuerit, XIX. sed non ideo minus nobis ad summa tendendum est: quod fecerunt plerique veterum, qui, etsi nondum quemquam sapientem repertum putabant, praecepta tamen sapientiae tradiderunt. XX. Nam est certe aliquid consummata eloquentia neque ad eam pervenire natura humani ingenii prohibet. Quod si non contingat, altius tamen ibunt qui ad summa nitentur quam qui praesumpta desperatione quo velint evadendi protinus circa ima substiterint. XXI. Quo magis impetranda erit venia si ne minora quidem illa, verum operi quod instituimus necessaria, praeteribo. Nam liber primus ea quae sunt ante officium rhetoris continebit. Secundo prima apud rhetorem elementa et quae de ipsa rhetorices substantia quaeruntur tractabimus. XXII. Quinque deinceps inventioni (nam huic et dispositio subiungitur), quattuor elocutioni, in cuius partem memoria ac pronuntiatio veniunt, dabuntur. Unus accedet in quo nobis orator ipse informandus est: ubi qui mores eius, quae in suscipiendis discendis agendis causis ratio, quod eloquentiae genus, quis agendi debeat esse finis, quae post finem studia, quantum nostra valebit infirmitas disseremus. XXIII. His omnibus admiscebitur, ut quisque locus postulabit, docendi ratio quae non eorum modo scientia quibus solis quidam nomen artis dederunt studiosos instruat et, ut sic dixerim, ius ipsum rhetorices interpretetur, sed alere facundiam, vires augere eloquentiae possit. XXIV. Nam plerumque nudae illae artes nimiae subtilitatis adfectatione frangunt atque concidunt quidquid est in oratione generosius, et omnem sucum ingenii bibunt et ossa detegunt, quae ut esse et adstringi nervis suis debent, sic corpore operienda sunt. XXV. Ideoque nos non particulam illam, sicuti plerique, sed quidquid utile ad instituendum oratorem putabamus in hos duodecim libros contulimus, breviter omnia demonstraturi: nam si quantum de quaque re dici potest persequamur, finis operis non reperietur. XXVI. Illud tamen in primis testandum est, nihil praecepta atque artes valere nisi adiuvante natura. Quapropter ei cui deerit ingenium non magis haec scripta sint quam de agrorum cultu sterilibus terris. XXVII. Sunt et alia ingenita cuique adiumenta, vox, latus patiens laboris, valetudo, constantia, decor, quae si modica optigerunt, possunt ratione ampliari, sed nonnumquam ita desunt ut bona etiam ingenii studiique corrumpant: sicut haec ipsa sine doctore perito, studio pertinaci, scribendi legendi dicendi multa et continua exercitatione per se nihil prosunt.
Il progetto educativo di Quintiliano, pur saldamente inserito nel solco della tradizione moralista romana e sostanzialmente tutt’altro che innovativo, è comunque assai ambizioso: egli crede nell’oratore totale, oratorem perfectum, e, per maggiore chiarezza, vuole subito esplicitare che la tradizionale definizione catoniana dell’oratore vir bonus dicendi peritus va intesa nel senso che la eximiam facultatem dicendi è solo il punto di partenza, perché nulla è estraneo o inutile ai fini della sua formazione, della quale fanno certamente parte innanzi tutto le virtù morali da valutare nell’esercizio costante di boni mores. E quanto alle nozioni elementari dell’istruzione, esse sono necessarie all’oratore come le fondamenta a una casa e, come le fondamenta di un bel palazzo, sono usualmente neglette e dimenticate di fronte ai fasti del risultato visibile. In forza di questo concetto e perché egli non intende semplicemente aggiungersi alla schiera di coloro che in greco e in latino avevano già ben scritto dell’argomento, decide infine, cedendo alle pressioni degli amici, di creare un lavoro in questo senso originale, che sottolinei l’importanza di tutti gli aspetti della formazione dell’oratore, piuttosto che analizzarne solo qualcuno seppure in maggior dettaglio.
Questo intento è evidentemente rispettato nel criterio di scelta del materiale e nel modo con cui esso è distribuito sui dodici libri dell’opera: il I libro tratta di questioni relative all’istruzione elementare; il II delle questioni relative alla didattica nella formazione del retore; i libri dal III all’XI coprono in sequenza le parti in cui era tradizionalmente divisa l’arte retorica, i primi cinque l’inventio e la dispositio, gli altri quattro l’elocutio, la memoria e l’actio o pronuntiatio – il X libro include anche una preziosa sebbene rapida galleria di giudizi sui migliori scrittori latini e greci -, quegli stessi argomenti che erano state per tanti anni il nucleo del suo insegnamento ai figli delle classi nobili e presentemente ai rampolli della famiglia imperiale; il XII libro, infine, descrive l’oratore ideale, non più dal punto di vista della formazione teorica, bensì dei principi etici e comportamentali e delle regole da osservare nella professione. I consigli di ordine morale sono tratti tutti dalla tradizionale visione romana e dagli esempi luminosi di Catone il censore, il fondatore dell’oratoria in latino, e di Cicerone, che ne fu il migliore interprete, vetta di perfezione dell’eloquenza non solo latina (si veda, oltre alle numerose citazioni, la breve discussione sull’Arpinate in De institutione oratoria X, 1, 108-112). Esempi entrambi delle qualità che fecero i grandi uomini di Roma e di ogni tempo, genio e costanza. Perché, è la preziosa lezione di Quintiliano professore, illud tamen in primis testandum est, nihil praecepta atque artes valere nisi adiuvante natura, nulla si può fare senza il sostegno della natura e a chi manchi l’ingegno non magis haec scripta sint quam de agrorum cultu sterilibus terris; ma anche i beni dell’ingegno sine studio pertinaci […] et continua exercitatione per se nihil prosunt.