L’iniziatore della grande storiografia latina, Gaio Sallustio Crispo, nacque ad Amiternum – la popolosa città della Sabina (i cui resti sono oggi in località San Vittorino presso l’Aquila), conquistata dai Romani nel 293 a.C. al termine delle guerre sannitiche, che già aveva dato i natali ad Appio Claudio Cieco e che un’antica tradizione indica come patria di Ponzio Pilato, il governatore della Giudea che processò Gesù Cristo – nell’86 a.C. (san Girolamo Chronicon ad annum 86 a.Chr.n.: Sallustius Crispus scriptor historicus in Sabinis Amiterni nascitur) da famiglia plebea agiata. Poco o nulla sappiamo della sua giovinezza e dei suoi studi, che poté compiere a Roma; tra i suoi maestri si ricorda Lucio Ateio Pretestato, il liberto ateniese che si autodefinì Filologo. Un giudizio morale di poche righe Sallustio riserva ai propri esordi (De Catilinae coniuratione 3):
III […] Sed ego adulescentulus initio, sicuti plerique, studio ad rem publicam latus sum ibique mihi multa advorsa fuere. Nam pro pudore, pro abstinentia, pro virtute audacia, largitio, avaritia vigebant. Quae tametsi animus aspernabatur insolens malarum artium, tamen inter tanta vitia imbecilla aetas ambitione corrupta tenebatur; ac me, cum ab reliquorum malis moribus dissentirem, nihilo minus honoris cupido eadem, qua ceteros, fama atque invidia vexabat.
Di temperamento ambizioso e indole di fuoco, visceralmente avverso al partito ottimate del quale lui plebeo sentiva con odio la prevalenza politica, dovette divenire presto uno degli esponenti più attivi e rissosi del partito democratico. Nel 55 a.C. fu nominato, poco più che trentenne, questore. A quest’anno o al seguente è da riportarsi la Invectiva in Ciceronem, un violento attacco personale all’Arpinate che nei codici ci è giunto per intero quale sallustiana risposta a una pure integra pseudociceroniana Invectiva in Sallustium. La palese falsità di questa, che è incontestabilmente una tarda esercitazione retorica, ha fatto dubitare pure dell’autenticità di quella, autenticità che però è convintamente sostenuta sulla valida base di Quintiliano (che in Institutio oratoria IV, I, 68 ne cita l’inizio attribuendolo a Sallustio) e di argomentazioni stilistiche e storiche, che la fanno ritenere consona a Sallustio e vicina ai fatti. L’inimicizia tra l’oratore e lo storico porterebbe ad attribuire al nostro Sallustio di quegli anni anche un’altra opera, gli Empedoclea, un poema scientifico noto solo per il titolo attraverso Cicerone. Il giudizio poco lusinghiero che questi ne dà, accostandoli ai versi di Lucrezio, in una lettera al fratello Quinto datata alla fine di gennaio del 54 a.C. (Epistulae ad Quintum fratrem II, 9, 3): […] Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae etiam artis; sed, cum veneris, virum te putabo, si Sallustii Empedoclea legeris, hominem non putabo.) farebbe infatti pensare che il Sallustio degli Empedoclea sia da identificarsi proprio con lo storico, il quale peraltro pare fosse in contatto proprio con i circoli neopitagorici di Roma e con Publio Nigidio Figulo, l’erudito e filosofo di tendenze pitagoriche che nella guerra civile si schiererà con Pompeo. Non possiamo verificare il giudizio di Cicerone poichè nulla ci rimane del poema oltre questa citazione. Che tra i due non corresse buon sangue appare del tutto plausibile data la particolare miscela di divergenze politiche e caratteriali cui essi davano origine – l’indole sprezzante del Cicerone che difendeva i privilegi degli ottimati come dovuti dovette facilmente entrare in conflitto con quella passionale del Sallustio che li contestava come soprusi. Più tardi Sallustio nel De Catilinae coniuratione relegherà Cicerone, il console che svelò e sventò la congiura, al ruolo di comprimario, senza sminuirne gli atti, ma col semplice espediente di dare maggiore rilievo alle figure di Cesare e di Catone.
Come attirato dal vorticoso aumento dei disordini politici e sociali che ormai insanguinavano pressoché quotidianamente Roma e la preparavano alla nuova, lunga e cruenta guerra civile che doveva sancire la sconfitta del senato e dalla quale doveva uscire il principato, nel 52 a.C. Sallustio fu eletto tribuno della plebe e immediatamente chiamato al centro della scena: l’indomani dell’uccisione di Clodio, l’agitatore di parte popolare – avvenuta il 18 gennaio lungo la via Appia -, fu infatti colui che puntò il dito accusatore contro Milone, che di Clodio era l’oppositore di parte ottimate. Sembra che il provvedimento di espulsione dal senato probri causa, cioè per aver comesso azioni vergognose, che colpì Sallustio poco dopo essere uscito dalla carica, sia da considerarsi la reazione degli ottimati, i quali posero pure sotto processo i suoi colleghi nel tribunato, Q. Pompeo Rufo e T. Munazio Planco, per i disordini popolari (tra i quali l’incendio della Curia Hostilia, sede delle riunioni del senato) causati dalla violenza dei loro interventi. L’inimicizia tra Milone e Sallustio sarebbe forse derivata anche da contrasti personali, se è vero quel che riporta Varrone (di parte senatoria) nel Logistoricus là dove dice che Milone avrebbe colto Sallustio in flagrante adulterio con la propria quarta moglie Fausta.
La guerra civile vide ovviamente Sallustio al fianco di Cesare. Una notizia di Orosio (Historiae adversus paganos VI, 15, 8) ci informa che nel 49 a.C. egli, avuto con altri l’incarico di portare aiuto ad Antonio bloccato nel Carnaro, fu battuto dai pompeiani. Nonostante ciò, due anni dopo gli fu restituita la dignità senatoria. Un altro insuccesso militare (inviato in Campania per sedare una rivolta militare, fu respinto e dovette fuggire) fu bilanciato dal felice esito nel compito di impadronirsi di un deposito di frumento nell’isola di Cercina (Bellum Africum 34; l’isola è nell’attuale arcipelago Kerkennah nel Golfo di Gabes). Dopo la vittoria di Cesare a Tapso (6 febbraio 46 a.C.) contro l’esercito senatoriale guidato da Q. Cecilio Metello Scipione e appoggiato dal re di Numidia Giuba I, Sallustio come proconsole fu il primo governatore della provincia Africa Nova, creata proprio allora con la maggior parte del regno di Giuba, il quale si era dato la morte dopo la battaglia. Nel solo anno 45 a.C. in questo incarico si arricchì oltre misura: tornato dalla Numidia, si fece costruire in Roma uno splendido palazzo tra il Pincio e il Quirinale, circondato dai famosi horti Sallustiani, un complesso divenuto da Vespasiano in poi abitazione di molti imperatori, del quale rimane tuttora ricordo nella toponomastica dell’Urbe. Tanto che già nell’antichità non mancò chi (Cassio Dione Historia Romana XLIII, 9, 2-3) rilevasse il contrasto tra questa rapida fortuna e la condanna dei cattivi amministratori e dell’avidità imperante che Sallustio fa nelle sue opere – e della quale, in verità, egli stesso ammette dopo il ritiro dalla scena pubblica di essere stato succube. Cassio Dione afferma che Sallustio si arricchì con le tangenti e le confische e che per la sua rapacità fu accusato e cadde in disgrazia. C’è chi tende ad attenuare la reale portata di queste notizie, facendo osservare che la provenienza dell’accusa è pur sempre di parte senatoriale – Dione fu un orgoglioso senatore romano, sia pure di origine greca, del II secolo d.C. – e che Sallustio fu probabilmente il nemico per antonomasia del senato romano. Era inoltre del tutto consueto che l’amministrazione di una provincia – e soprattutto di una provincia molto fiorente, come in questo caso – portasse al rapido arricchimento dell’amministratore. A questo periodo risalirebbe la composizione delle Epistulae ad Caesarem, due lettere di consigli rivolti a Cesare su, diremmo oggi, il programma di governo: nella lettera più antica (circa 49 a.C.) – la seconda nei codici – l’autore repubblicano invita a guardare all’avvenire di Roma senza commettere gli errori di Silla; nella più recente (circa 46 a.C.), l’autore monarchico esorta Cesare alla mitezza e a riportare la situazione sociale alla normalità. Poiché le due lettere seguono nel manoscritto Vaticano le orazioni delle Historiae (vedi infra) senza indicazione di paternità, l’autenticità è stata spesso contestata; oggi tuttavia si propende a dare peso alle consonanze con lo stile e le idee di Sallustio.
Che Sallustio fosse o meno caduto in disgrazia come riportato da Cassio Dione, con la morte di Cesare e l’aprirsi delle nuove lotte intestine egli, come pare, vide crollare gli ideali democratici per i quali si era battuto con così grande passione. Caduto in un profondo pessimismo per la sorte di Roma e del suo impero, causato dalle considerazioni moralistiche, tradizionali per un Romano, sulla corruzione presente dei sani costumi ereditati dai maiores (De Catilinae coniuratione VI-XIII), decise – come ricorda egli stesso (De Catilinae coniuratione III-IV):
III Sed in magna copia rerum aliud alii natura iter ostendit. Pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est; vel pace vel bello clarum fieri licet; et qui fecere et qui facta aliorum scripsere, multi laudantur. Ac mihi quidem, tametsi haudquaquam par gloria sequitur scriptorem et actorem rerum, tamen in primis arduum videtur res gestas scribere: primum, quod facta dictis exaequanda sunt; dehinc, quia plerique, quae delicta reprehenderis, malevolentia et invidia dicta putant, ubi de magna virtute atque gloria bonorum memores, quae sibi quisque facilia factu putat, aequo animo accipit, supra ea veluti ficta pro falsis ducit. Sed ego adulescentulus initio, sicuti plerique, studio ad rem publicam latus sum ibique mihi multa advorsa fuere. Nam pro pudore, pro abstinentia, pro virtute audacia, largitio, avaritia vigebant. Quae tametsi animus aspernabatur insolens malarum artium, tamen inter tanta vitia imbecilla aetas ambitione corrupta tenebatur; ac me, cum ab reliquorum malis moribus dissentirem, nihilo minus honoris cupido eadem, qua ceteros, fama atque invidia vexabat.
IV Igitur ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi reliquam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere neque vero agrum colundo aut venando, servilibus officiis, intentum aetatem agere; sed, a quo incepto studioque me ambitio mala detinuerat, eodem regressus statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere, eo magis, quod mihi a spe, metu, partibus rei publica animus liber erat. Igitur de Catilinae coniuratione, quam verissume potero, paucis absolvam; nam id facinus in primis ego memorabile existumo sceleris atque periculi novitate. […]
– di ritirarsi dalla vita politica per dedicarsi al suo interesse principale e più arduo – dal quale era stato distolto dalla mala ambitio di fama, onori e denaro e dalla consapevolezza che gloria molto maggiore consegue agli autori dei fatti che non a chi li racconta – quello cioè di narrare la storia del popolo romano cercando di sfuggire alle critiche che sogliono colpire gli storici con la professione di aderenza formale e sostanziale ai fatti; e scelse, almeno inizialmente, di procedere sviscerando gli avvenimenti che gli sembravano più significativi in monografie. Nacquero in qesto modo il De Catilinae coniuratione e il Bellum Iugurthinum.
Motivo della scelta della congiura di Catilina come primo argomento della sua opera di storico fu (vedi supra) la novità della minaccia, nella quale Sallustio, contemporaneo al fatto, presagì i segni del declino dello stato romano. La vicenda ruota attorno alla figura di Lucio Sergio Catilina, l’esponente della nobile ma decaduta gens Sergia, il quale, avido in modo insaziabile di potere e denaro, privo invece di mezzi sufficienti a sostenere la sua vita dissipata, ripetutamente sconfitto alle elezioni consolari con l’opposizione dei boni homines, non esitò a congiurare contro la patria. Catilina è presentato come un ambizioso e audace anarchico, la cui caratteristica è la subdola duttilità intesa tanto come capacità di sopportazione fisica di fatiche e privazioni quanto come qualità morale di simulazione e dissimulazione; con queste arti egli, che si era unito in gioventù alle proscrizioni sillane traendone grande vantaggio e che dalla dominatio Sullae aveva secondo Sallustio appreso la libido dominandi, la cupidigia del potere, raccolse gli scontenti del vecchio partito sillano, anch’essi acutamente insofferenti alla mancanza di denaro e rosi dall’invidia per il lusso e gli onori concessi ai pochi che, in seguito alla restaurazione operata da Silla, avevano lo stato nelle proprie mani. A parte qualche cavaliere, le fila della congiura sono tutte nelle mani della nobiltà senatoria, la cui sovversione è per Sallustio prova della corruzione dell’aristocrazia. Oltre che a Catilina, cui sono concessi due discorsi (in occasione della prima riunione dei congiurati e prima dello scontro finale a Pistoia), con un ampio discorso a testa risalto è dato alle figure di Cesare e di Catone, presentati come i due protagonisti della seduta del senato nella quale viene decisa, secondo l’opinione di Catone, la morte dei congiurati, e più in generale come le due personalità dominanti del periodo, delle quali non è possibile tacere (De Catilinae coniuratione LIII: […] Sed memoria mea ingenti virtute, diversis moribus fuere viri duo, M. Cato et C. Caesar. Quos quoniam res obtulerat, silentio praeterire non fuit consilium, quin utriusque naturam et mores, quantum ingenio possum, aperirem, dove il fuere lascia capire che il libretto fu scritto dopo la morte di Cesare). L’ultimo posto tra i protagonisti, o forse meglio il primo tra i comprimari, con il riconoscimento della tempestività del suo agire ma senza l’onore di una parola, è assegnato a Cicerone, il console che scoprì e denunciò in senato la congiura, ed eseguì la sentenza di morte dei congiurati: tuttavia non a Cicerone, ma alle parole di Catone Sallustio attribuisce la morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum, l’atto illecito che attirò in seguito su Cicerone, sia pure temporaneamente, la pena dell’esilio. La drammatica conclusione del racconto riconosce a Catilina e al suo esercito sconfitto a Pistoia coraggio e forza morale (De Catilinae coniuratione LXI): qui trovano onore le ingenti masse popolari, che Catilina, rispondendo con la demagogia alle istanze di rinnovamento dei tempi, aveva potuto attrarre a sè e concentrare in Etruria attorno ai veterani delle colonie dedotte da Silla.
Così Sallustio spiega la scelta, nella sua seconda monografia, di narrare la guerra contro Giugurta (Bellum Iugurthinum V):
V Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum gessit, primum quia magnum et atrox variaque victoria fuit, dein quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est; quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit, ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret. […]
E non è difficile credergli, poiché la vicenda di Giugurta, grande, atroce e varia, fece indubbiamente emergere in modo clamoroso le contraddizioni dell’aristocrazia senatoria, giustificando l’atteggiamento moralista che è anche di Sallustio, e portò alla ribalta i due futuri campioni delle fazioni popolare e ottimate, rispettivamente Mario e Silla. Giugurta, nipote illegittimo di Massinissa, re della Numidia già alleato dei Romani nella seconda guerra punica, era stato adottato dal figlio di Massinissa, Micipsa, il quale l’aveva mandato a partecipare alla presa di Numanzia agli ordini di Scipione Emiliano e – alla sua morte avvenuta nel 119 a.C. – l’aveva nominato erede del trono di Numidia assieme ai figli Aderbale e Iempsale. La spietata ambizione di Giugurta si manifestò con crudeltà nelle concitate fasi della disputa con i fratelli per dividere il regno: prima si sbarazzò a tradimento di Iempsale, che aveva invitato nella propria casa col pretesto di trattare un accordo; poi corruppe il senato romano, cui Aderbale si era rivolto per vedere riconosciuti i suoi dopo essere stato attaccato e sconfitto da Giugurta, in modo da farsi assegnare le regioni più ricche; quindi, dopo aver nuovamente assalito Aderbale e averlo ridotto nella cittadella di Cirta (113 a.C.), avendo Aderbale negoziato la consegna della città in cambio della vita sua e della popolazione – meditava di rivolgersi di nuovo ai Romani per avere giustizia, come era stato consigliato dal ceto mercantile italico che aveva lì una delle sue basi più importanti -, fece crocifiggere il fratello, uccidere i difensori della città e massacrare gli italici. Roma non poteva non dichiarare guerra (111 a.C.), ma anche il console incaricato delle operazioni, Lucio Calpurnio Bestia, dopo aver ottenuto diversi successi, fu probabilmente corrotto e concluse la pace con il Numida. Subito il tribuno della plebe Gaio Memmio sollecitò l’apertura di una inchiesta ottenendo che Giugurta fosse chiamato a comparire a Roma, ma il collega nel tribunato Gaio Bebio entrò tra i beneficati dal re e pose il veto all’interrogatorio; in compenso, prima di allontanarsi da Roma, Giugurta colse l’occasione per eliminare un altro nipote di Massinissa che nell’Urbe aspirava al trono di Numidia. Le operazioni militari ripresero ma il console del 110, Spurio Postumio Albino, non riuscì a concludere nulla di importante e anzi, lasciato il comando al fratello Aulo per tornare a Roma e tenere le elezioni, ricevette la notizia che l’esercito era stato costretto alla resa e a una pace infamante. Lo sdegno popolare, fino allora a stento trattenuto, ottenne l’istituzione di un tribunale speciale per indagare sui fatti, mentre il console del 109, Quinto Cecilio Metello, affrontava finalmente con serietà il temibile nemico ristabilendo la disciplina nell’esercito e costringendolo a rifugiarsi presso il suocero Bocco, re di Mauritania. Gli eserciti presero a logorarsi in azioni di guerriglia che durarono anche l’anno seguente, proconsole Metello. Mentre sembrava che il proconsolato sarebbe stato proprogato anche per il 107, i popolari sostennero la candidatura a console di un homo novus, Gaio Mario, già luogotenete di Metello, andando contro, secondo le parole di Sallustio, la superbia della nobiltà. Mario uscì vincitore dalle elezioni per il 107, ottenne l’incarico della guerra in Africa e lo concluse vittoriosamente dopo più di due anni di dure battaglie condotte città per città, oggi si direbbe palmo a palmo: quando Mario prese Cirta, Bocco consegnò Giugurta a Silla, che era allora questore di Mario – e questo fatto, unito alla pubblicità che Silla seppe dargli, fu il primo atto di ostilità tra i due. Giugurta terminò i suoi giorni nel carcere Mamertino per strangolamente (Eutropio Breviarium ab Urbe condita IV, 27) oppure per inedia (Plutarco Vitae parallelae, Vita Marii XII, 4), mentre Bocco fu ricompensato per il suo aiuto con la metà del regno di Numidia.
Merito dello storico sabino è di far emergere impietosamente nella vicenda gli interessi di parte e personali e la loro difformità dagli interessi dello stato: il senato corrotto concede il regno all’usurpatore Giugurta senza preoccuparsi della compromissione che con ciò si produceva all’immagine e alla strategia di Roma in politica estera, la quale si proponeva allora quale arbitro imparziale delle contese e alleato fedele nelle controversie piuttosto che come conquistatore; quando la guerra è inevitabile per la violenza e la crudeltà di Giugurta, sotto le insistenze dei cavalieri, i cui rappresentanti sono stati trucidati a Cirta, il senato prima cerca di opporsi e poi tenta di insabbiare le operazioni militari, macchiandosi di ripetuti, vergognosi episodi di corruzione che interessano gli stessi generali comandanti. La guerra piega in favore di Roma con l’arrivo di Metello, cui Sallustio rende il dovuto merito nonostante l’estrazione aristocratica. Ma la massima simpatia dello storico va naturalmente a Mario, il capo dei populares, cui viene attribuito, con un po’ di esagerazione, tutto il merito della contrastata vittoria.
Abbandonò Sallustio l’impostazione saggistica nella sua terza opera, le Historiae, in favore della narrazione organica, con metodo annalistico, di un periodo pur breve della storia romana. Quintiliano (Institutio oratoria III, 8, 9) sembra affermare che le Historiae fossero prive di proemio; in realtà pare accertato che molti frammenti in nostro possesso siano da riferire a un proemio, e altri a una lunga introduzione concernente i decenni precedenti la narrazione vera e propria. Secondo Rufino (Keil VI, 575, 18 fr. 1), erano composte di cinque libri: alcuni brani conservati da un manoscritto Vaticano (quattro orazioni, di Pompeo, Filippo, Cotta e Licinio Macro; e due lettere, di Pompeo e Mitridate) e più di 500 frammenti di varia estensione, soprattutto relativi alle guerre contro Spartaco, Sertorio e i pirati, per lo più ricavati dalle citazioni di autori antichi, sono tutto quello che ci rimane. Il periodo interessato dovevano essere i dodici anni (Ausonio XIII, 2, 61) che andavano dalla morte di Silla (avvenuta nel 78 d.C.) al 67 a.C. Sallustio continuava così l’opera storica omonima di Lucio Cornelio Sisenna, lo storico di parte aristocratica – e Sallustio lo critica per questo – che in 23 libri aveva narrato la storia di Roma dalle origini alla morte di Silla dando maggior peso agli avvenimenti degli ultimi decenni. A favorire la scelta dell’oggetto della narrazione, questa volta, potrebbe essere stato l’interesse per la figura di Sertorio e la guerra contro Spartaco, uomini che mettevano il loro valore contro lo stato romano e per questo sembrano riscuotere ammirazione preso lo storico sabino, ma non abbiamo elementi per avvalorare questa tesi nè per dare un giudizio dell’opera, sebbene in base ai frammenti sia generalmente ritenuta la sua più perfetta. Né si spiega la lacuna tra il 67 e il 63, onde riallacciarsi alla congiura di Catilina nell’intento, come sembra probabile egli abbia avuto, di offrire il quadro di tutti gli avvenimenti della lotta tra le fazioni oligarchica e popolare tra la guerra giugurtina e la battaglia di Pistoia, se non con la morte dell’autore.
Sallustio morì mentre era intento ai suoi studi nel 35 a.C. (san Girolamo Chronicon ad annum 35 a.Chr.n.: Sallustius diem obiit quadriennio ante Attiacum bellum). La sua figura di militante nel partito cesariano e di attivo esponente della vita politica del turbolento periodo a cavallo della metà del primo secolo a.C. pone una questione di non facile soluzione. Le accuse portate alla sua condotta mal si conciliano infatti con il moralismo arcigno presente in tutta la sua opera: se infatti certi giudizi aspramente negativi vengono da avversari politici in un periodo nel quale l’odio politico si manifestava spesso con violenza, tuttavia rimane evidenza, e la sua stessa confessione, che anche Sallustio, per brama di gloria e sete di denaro, cadde nei medesimi errori che condannò. Presso gli antichi pagani, che non distinguevano l’uomo dallo scrittore, Sallustio ebbe piuttosto detrattori: il grammatico Pompeo Leneo ne criticò l’arcaismo e ne distrusse la figura morale come uomo e come politico (lastaurum et lurconem et nebulonem […] et vita scriptisque monstruosum, praeterea priscorum Catonisque verborum ineruditissimum furem). Presso gli autori cristiani, che conoscevano il perdono, lo storico ebbe maggiore considerazione. Sant’Agostino fu un entusiasta ammiratore di Sallustio, del quale sfruttò spesso le citazioni, e lo considerò esempio di attendibilità storica. San Girolamo (Epistulae CXXX, 12) definì saecularis la frase sentenziosa sull’amicizia che Sallustio mette in bocca a Catilina (De Catilinae coniuratione XX, 4: nam idem velle atque idem nolle, ea demum firma amicitia est). Alla considerazione dei moderni si impone la focosa animosità di Sallustio non scompagnata da sincera passione civile e non sorprende che la sua preoccupazione costante sia stata la denuncia dell’imperante corruzione dell’oligarchia senatoria e l’esaltazione dell’operato degli esponenti del partito popolare. Tuttavia, gli va riconosciuto che la professione di obiettività, come è dichiarata nelle opere, è ricercata anche nei fatti, nonostante la difficoltà di valutare eventi che, almeno in parte, l’avevano visto attivo partecipante.