Marcus Terentius Varro Reatinus

Il più grande esponente dell’erudizione latina, Marco Terenzio Varrone, nacque a Reate (oggi Rieti) in Sabina nel 116 a.C. (san Girolamo, Chronicon ad annum 116 a.Chr.n.: Marcus Terentius Varro philosophus et poeta nascitur). L’appellativo di Reatino lo distingue spesso dall’altro Varrone, il Publio Terenzio poeta precursore degli elegiaci, detto Atacino perchè nativo di Atax nella Gallia Narbonense. Fu allievo del celebre grammatico Elio Stilone e, come l’amico Cicerone, del filosofo accademico Antioco d’Ascalona. Di famiglia non nobile ma illustre, contava tra i suoi antenati il console sconfitto a Canne assieme ad Emilio Paolo. Egli stesso fu attivo nella vita pubblica fino alla drammatica guerra civile degli anni 50 e 40 a.C. tra Cesare e Pompeo. A Pompeo, che nella guerra civile fu poi il rappresentante degli ottimati, Varrone fu legato sin dagli anni della maturità: lo seguì nelle campagne contro Sertorio, contro i pirati e contro Mitridate. Non ne condivise la scelta del triumvirato che bollò pubblicamente in una delle Saturae Menippeae intitolata Tricàranos (cioè ‘mostro a tre teste’), ma si aggregò ugualmente all’esercito di Pompeo contro Cesare e fece parte del corpo d’armata che fu sconfitto in Spagna nel 49 a.C. Decise allora di uscire dalla vita pubblica per dedicarsi solo agli studi che erano sempre stati il centro della sua vita. Ottenuto il perdono dal dittatore a vita, fu da questi nominato direttore della prima biblioteca pubblica di Roma. Il suo passato non fu però dimenticato, tanto che dopo la morte di Cesare con l’avvento del secondo triumvirato entrò nelle liste di proscrizione di Marco Antonio e fu graziato solo per intervento di Ottaviano. La morte lo colse immerso nei libri nel 27 a.C. a quasi novant’anni (san Girolamo, Chronicon ad annum 27 a.Chr.n.: M. Terentius Varro philosophus prope nonagenarius moritur).

Studioso infaticabile, erudito di interessi e cultura prodigiosamente ampi, Varrone si occupò di tutto e di tutto scrisse. Nulla sappiamo dei suoi metodi di ricerca e di critica delle fonti; sant’Agostino (De civitate Dei VI, 2) ne ammirò la sapienza e la dottrina così come la chiarezza, ma ne criticò lo stile usando le parole dello stesso Cicerone – che aveva dedicato gli Academica all’amico -:

[2] Quis Marco Varrone curiosius ista quaesivit? Quis invenit doctius? Quis consideravit adtentius? Quis distinxit acutius? Quis diligentius pleniusque conscripsit? Qui tametsi minus est suavis eloquio, doctrina tamen atque sententiis ita refertus est, ut in omni eruditione, quam nos saecularem, illi autem liberalem vocant, studiosum rerum tantum iste doceat, quantum studiosum verborum Cicero delectat. Denique et ipse Tullius huic tale testimonium perhibet, ut in libris Academicis dicat eam, quae ibi versatur, disputationem se habuisse cum Marco Varrone, homine, inquit, omnium facile acutissimo et sine ulla dubitatione doctissimo. Non ait eloquentissimo vel facundissimo, quoniam re vera in hac facultate multum impar est; sed omnium, inquit, facile acutissimo, et in eis libris, id est Academicis, ubi cuncta dubitanda esse contendit, addidit sine ulla dubitatione doctissimo. Profecto de hac re sic erat certus, ut auferret dubitationem, quam solet in omnibus adhibere, tamquam de hoc uno etiam pro Academicorum dubitatione disputaturus se Academicum fuisset oblitus. In primo autem libro cum eiusdem Varronis litteraria opera praedicaret: Nos, inquit, in nostra urbe peregrinantes errantesque tamquam hospites tui libri quasi domum reduxerunt, ut possemus aliquando qui et ubi essemus agnoscere. Tu aetatem patriae, tu descriptiones temporum, tu sacrorum iura, tu sacerdotum, tu domesticam, tu publicam disciplinam, tu sedem regionum locorum, ut omnium divinarum humanarumque rerum nomina genera, officia causas aperuisti. Iste igitur vir tam insignis excellentisque peritiae et, quod de illo etiam Terentianus elegantissimo versiculo breviter ait:

Vir doctissimus undecumque Varro,

qui tam multa legit, ut aliquid ei scribere vacuisse miremur; tam multa scripsit, quam multa vix quemquam legere potuisse credamus. […]

La sua disposizione allo studio si accompagnava a grande accuratezza e capacità di analisi: sta di fatto che ebbe grande autorità in vita e in morte e che talune sue posizioni fecero poi testo, come accadde nella questione della data di nascita di Roma, per la quale, pur essendo stata calcolata da tanti altri, si impose – e dura fino ai giorni nostri – l’opinione varroniana che la poneva al 21 aprile (come da tradizione ripresa anche in De re rustica II, 1) del 754-753 a.C. Molti suoi lavori sono originali, almeno presso i Romani, e servirono poi come fonte alle generazioni successive, sia agli ingegni che ai compilatori. Secondo un catalogo antico, a lui sarebbero da ascrivere 74 opere per complessivi 620 libri. A noi, però, restano solo il De re rustica, in tre libri peraltro lacunosi, e sei libri centrali del De lingua latina. Numerosi frammenti del resto della sua produzione aiutano a inferire almeno sul contenuto.

Il De re rustica fu scritto all’età di 80 anni in occasione dell’acquisto di un podere. Si tratta di un’opera fondamentalmente erudita in forma dialogica a carattere didascalico i cui tre libri trattano rispettivamente: il primo, De agricultura, dedicato alla moglie Fundania con tutta l’opera, di problemi generali di agricoltura; il secondo, De re pecuniaria, dedicato all’allevatore Turranio Nigro, dell’allevamento del bestiame; e il terzo, De villatica pastione, dedicato al vicino Quintino Pinnio, dell’allevamento di animali da cortile e dell’apicoltura. Presso i Romani – alla cui letteratura sull’argomento, ma con intento poetico ben diverso, Virgilio stava per dare le Georgiche -, l’opera aveva un precursore nel De agri cultura di Catone il censore, che Varrone utilizzò certamente come fonte; tuttavia Catone, ristretto nel proprio intento utilitaristico, si era limitato a parlare della conduzione di un piccolo podere, mentre Varrone affronta con razionalità i criteri di lavoro in un grosso possedimento terriero.

Il De lingua latina era in venticinque libri, di cui ci restano, lacunosi, quelli dal quinto al decimo. Il primo libro era introduttivo e conteneva la dedica a Cicerone, mentre i restanti ventiquattro si dividevano in tre parti: la prima, comprendente i libri II-VII, era dedicata alla storia della lingua e all’etimologia; la seconda parte, comprendente i libri VIII-XIII, studiava la morfologia della parola, cioè la declinazione e la coniugazione; la terza parte, comprendente i libri XIV-XXV, era dedicata alla sintassi e allo stile. A noi restano dunque gli ultimi tre libri della prima parte, dedicati all’etimologia, e i primi tre della seconda parte, nei quali si sviluppava la disputa tra analogisti e anomalisti. In questa questione che fu così dibattuta tra i migliori ingegni dei suoi tempi, tra i quali Cesare e Cicerone, Varrone mantiene una ragionevole posizione intermedia: la lingua si arricchisce sia attraverso l’uso che attraverso l’apporto della tradizione degli autori precedenti. Assai interessante è la dissertazione sull’etimologia: se le etimologie varroniane sono in buona parte parte astruse e prive di fondamento, la massa di citazioni che egli riporta a sostegno delle proprie tesi è per noi della massima importanza, poichè ci ha salvato numerose testominanze di poeti e prosatori arcaici.

Di altre opere varroniane possiamo farci un’idea attraverso frammenti e citazioni. Sul tema linguistico conosciamo numerosi titoli: De antiquitate litterarum (84 a.C.), un trattato in due libri sulla storia dell’alfabeto latino scritto in memoria del poeta Accio morto in quell’anno; De sermone latino ad Marcellum, in cinque libri; De similitudine verborum, tre libri dedicati all’analogia, e il De utilitate sermonis, sull’anomalia; e tre libri di De origine linguae latinae. Sugli aspetti storici della letteratura, abbiamo notizia di un De bibliothecis, un De lectionibus e un De proprietate scriptorum. Rivolti ad argomento letterario erano invece: il De poematis, in tre libri, sui personaggi della commedia; le Quaestiones Plautinae e il De comoediis Plautinis, dedicati a Plauto stesso, nei quali affronta tra l’altro la questione dell’attribuzione delle 130 commedie che già al suo tempo andavano sotto il nome del grande commediografo, suddividendole in novanta sicuramente spurie, diciannove incerte e ventuno certe (quelle che poi sono pervenute sino a noi e che pertanto vanno sotto il nome di ‘varroniane’). Di argomento prettamente teatrale erano il De actionibus scaenicis, in cinque libri, il De actis scaenicis, pure in cinque libri, e il De originibus scaenicis, sui vari aspetti delle rappresentazioni; il De personis, in tre libri, sulle maschere del teatro latino.

L’erudizione di Varrone doveva mostrarsi un tutta la sua possanza nelle Antiquitates. Opera enciclopedica divisa in Antiquitates humanae, in venticinque libri (uno di introduzione e quattro esadi dedicate a homines, loci, tempora, res), e Antiquitates divinae, in sedici libri (ancora uno di introduzione e cinque triadi, le prime quattro sugli stessi temi precedenti e l’ultima de deis), per un totale di quarantuno libri, sopravvive solo in alcuni frammenti e, per quanto riguarda la seconda parte, nel sommario che sant’Agostino ce ne dà nel VI libro del suo De civitate Dei. Attraverso la descrizione del vescovo d’Ippona sappiamo che per Varrone esistevano tre teologie: una favolosa, fondata sul mito e utilizzata essenzialmente dai poeti; una naturale, che ha origine dalla filosofia; e una civile, usata dallo stato per incitare i cittadini alle grandi imprese. Per Varrone la religione è creata dagli uomini, ma può essere utilizzata come strumento di difesa dello stato e delle istituzioni. In questo, la concezione di Varrone è romana e senatoriale, e a conferma suona il fatto che egli giudica la religione naturale perniciosa per lo stato ed invece reputa assai utile quella civile. Nulla di diverso dall’importanza che fu annessa in tutta la storia di Roma alle tradizioni religiose e alla superstizione soprattutto nell’esercito – era giudicato essenziale che i soldati credessero che il comandante fosse fortunato e benvoluto dagli dèi – ma anche nella vita civile – la decisione di divinizzare gli imperatori rispondeva alle medesime esigenze -: basti pensare al fatto che questa impostazione perdurò anche dopo Costantino. Lo scopo delle Antiquitates era probabilmente quello di scavare nell’origine delle credenze del popolo romano. Questa passione del costume romano e del suo già glorioso passato, una nostalgia caratteristica di molti romani, soprattutto nella parte senatoriale e particolarmente in un’epoca tormentata dalle guerre civili e dalle trasformazioni sociali che portarono alla formazione del principato, aveva già ispirato numerose monografie del Reatino: De familiis Troianis, De vita populi Romani, De gente populi Romani, Rerum urbanarum libri, Tribuum libri, Aetia (cioè, le cause all’origine di vari usi romani).

Altra opera enciclopedica di Varrone sono i Logistorici, in ben settantasei libri, illustrazione della filosofia morale attraverso esempi tratti dalla mitologia e dalla storia; i libri erano intitolati ad un personaggio e collegati all’argomento, ad esempio Atticus de numeris, Marius de fortuna, Messala de valetudine. Sulla filosofia vera e propria abbiamo notizia di un De forma philosophiae e di un De philosophia. In età avanzata, Varrone tornò all’enciclopedia scrivendo i Disciplinarum libri IX, dedicati a nove discipline di studio: grammatica, dialettica, retorica, aritmetica, geometria, astronomia, architettura, musica, medicina. È immediato pensare al trivio e al quadrivio, la suddivisione medievale dello scibile umano che originò dai grandi del tardo impero e che fu certamente influenzata anche da quest’opera, della quale a noi invece non rimangano che pochi frammenti. Altre monografie varroniane sulle disciplinae: De ora maritima, Ephemeris navalis, De aestuariis, De mensuris, De principiis numerorum. Aveva curiosamente forma epistolare un’altra opera enciclopedica, le Epistolicae quaestiones, forse in sette o forse in nove libri su vari argomenti.

Varrone non coltivò estesamente la poesia – ma la sua produzione poetica è più abbondante di quella di molti poeti – forse perché si rendeva conto di non avere grande talento. San Girolamo ricorda alcune opere poetiche di Varrone per noi perdute: quattro libri di Saturae, dieci libri di Poemata, sei libri di Pseudotragoediae. In quest’ambito il lavoro migliore dovevano essere le Saturae Menippeae, 150 libri di un misto di prosa e poesia, da cui probabilmente il riferimento nell’intitolazione alla satira della tradizione latina – la polimetria e la prosimetria erano state abbandonate dalla satira letteraria fin da Lucilio – mentre l’aggettivo menippeo gli fu attribuito dallo stesso autore in ricordo del filosofo cinico del III secolo a.C. Menippo di Gàdara, cui si era ispirato. Secondo Cicerone furono composte nella giovinezza, tuttavia si tiene oggi per certo che ad un nucleo giovanile altri libri si siano aggiunti nel corso degli anni – come il già nominato Tricàranos, che, essendo rivolto al primo triumvirato, non può essere anteriore al 60 a.C. A noi restano appena 600 versi, suddivisi in molti frammenti per lo più brevissimi, tanto che non è stato possibile ricostruire la trama di nessuna satira, e una novantina di titoli, in latino ma anche in greco, a testimonianza di apertura tanto nei confronti dei prestiti di parole e di radici greche quanto nell’uso delle citazioni in lingua originale. Così, accanto alle Eumenides, in cui il bersaglio erano le follie dei filosofi e cui appartiene la maggioranza dei frammenti di cui disponiamo, abbiamo il Marcipor, cioè ‘il servitore di Marco’, in cui è riportato un racconto di viaggio, Marcopolis, descrizione di una città fantastica, Sexagesis, racconto oggi ampiamente sfruttato di un fanciullo che, addormentatosi, si risveglia a sessant’anni trovando Roma completamente mutata, Gerontodidàscalos, cioè ‘colui che ha imparato da vecchio’, sul tema caro a Varrone come a Cicerone della superiorità dei costumi degli avi rispetto alla sciocca vanità del presente; e poi il Taphè Menìppou, ‘il funerale di Menippo’, e Tithonus perì gèros, ‘Titono sulla vecchiaia’.

Scarso fu l’interesse di Varrone per l’argomento storico. Si ricordano tre libri di Annales, e un De Pompeio, pure in tre libri, che peraltro sembra più legato al campo biografico e politico. In effetti, a Pompeo, che fu sempre il suo referente politico, consacrò anche un Isagogicus ad Pompeium, una raccolta di consigli risalente al 71 d.C. e ai primi rapporti tra di loro. Solo il titolo abbiamo di un De iure civili, mentre all’autobiografia appartengono il De vita sua e i tre libri di Legationes, sulle ambascerie da lui condotte. Riguardo l’attività strettamente letteraria, sappiamo che scrisse in prosa ventidue libri di Orationes e tre di Suasoriae, nonchè una Laudatio Porciae; è nota anche una raccolta di Epistulae. In vecchiaia, Varrone scrisse le Imagines seu Hebdomades, una galleria di personaggi la cui struttura era legata al numero sette. L’elemento costitutivo dell’opera erano infatti le ebdomadi, cioè raccolte di sette personaggi, da cui il nome. Dei quindici libri, uno era introduttivo e comprendeva due ebdomadi, mentre gli altri quattordici constavano di sette ebdomadi ciascuno. In totale si avevano quindi cento ebdomadi, ovvero settecento ritratti di personaggi, prevalentemente latini e greci, forse divisi per categorie e ciascuno accompagnato da un elogio in versi, non sempre di Varrone. L’opera assecondava quel gusto per la biografia che si andava allora affermando nella letteratura latina e che – si pensi alle numerose opere dal titolo De viris illustribus, di altrettanto numerosa paternità – attraverserà i secoli.