Gaio Sollio Modesto Sidonio Apollinare, santo, vescovo e poeta, assistette alla transizione della potestà sulla Gallia dall’impero romano ai regni dei Goti e dei Franchi. Quell’epoca difficile non si segnala per la quantità e la qualità delle fonti, ma nel caso presente una biografia non esangue ci è assicurata da Sidonio stesso coi suoi scritti e dalla sua fama, non solo di uomo di chiesa ma anche di letterato giudicato il più brillante dei suoi tempi. Come egli stesso afferma, nacque in Gallia a Lugdunum, oggi Lione; tuttavia, i frequenti accenni all’Alvernia, dove trovò pure moglie nella figlia del futuro imperatore Avito, e il fatto che fu poi nominato vescovo di quella regione fanno sospettare che la sua famiglia – una famiglia già presente ai livelli più alti della gerarchia imperiale della provincia con il padre e il nonno di Sidonio, entrambi prefetti del pretorio delle Gallie – fosse originaria di quei luoghi. L’anno di nascita è ignoto e si pone convenzionalmente e verosimilmente verso il 430 d.C. Ricevette una solida educazione classica, adeguata a un rampollo di nobile famiglia, che mise in mostra le attitudini di studioso e stimolò le qualità letterarie per le quali fu conosciuto e apprezzato.
Verso il 452 d.C. il matrimonio con Papianilla – che gli diede almeno tre figli: Apollinare, Roscia e Severiana – fece entrare Sidonio nella famiglia allora più segnalata della nobiltà senatoriale gallica, quella di Avito, uomo che ai nobili natali accompagnava qualità che l’avevano messo in luce sia nella vita civile che in quella militare e che gli avevano garantito tanto l’accesso nella classe degli inlustres quanto l’amicizia del re dei Visigoti Teodorico I – che egli aveva conosciuto attorno al 425 d.C. essendosi recato in visita a un parente ostaggio presso quel popolo. L’ascesa di Avito al trono imperiale in quegli anni fu favorita proprio dai buoni rapporti con i Visigoti: quando nel 451 d.C. le orde unne di Attila invasero l’impero, furono i buoni uffici di Avito a garantire a Ezio l’appoggio dei Visigoti ai Campi Catalaunici, ove il re visigoto perse la vita; e quando, qualche anno più tardi, inviato in missione dall’imperatore Petronio Massimo presso il figlio e successore di Teodorico I, Teodorico II, Avito apprese della morte dell’imperatore e del sacco di Roma da parte dei Vandali di Genserico, cercò l’appoggio dei suoi ospiti e ottenutolo si fece proclamare imperatore a Tolosa sede della corte del re visigoto. Consolidata la sua base di consenso in Gallia, Avito nel settembre di quel 455 d.C. entrò a Roma. Nel suo seguito era il genero Sidonio, che gli indirizzò un panegirico e ottenne il privilegio di una statua tra quelle dedicate ai poeti nella biblioteca del foro Traiano.
Tuttavia, Avito non durò a lungo sul trono: inviso all’amministrazione imperiale e al senato per il favore accordato all’aristocrazia gallica, impopolare a Roma per aver ottenuto il potere con l’appoggio di barbari e per le difficoltà di porre riparo alle conseguenze del sacco dei Vandali, avendo congedato i suoi mercenari Avito fu deposto l’anno seguente dai generali Ricimero, di origine metà sveva e metà gotica, e Maggioriano, comes domesticorum discendente di una famiglia dell’aristocrazia militare, e morì nel 457 in circostanze poco chiare. Non potendo il Ricimero di origine barbarica riceverla, la porpora imperiale finì sulle spalle di Maggioriano non senza qualche ritrosia sia da parte di questo nobile ufficiale degno della tradizione romana che da parte dell’imperatore d’oriente Leone I. Il programma di Maggioriano, il primo imperatore soldato dal tempo di Teodosio il Grande, si rivelò subito essere concretamente in grado di restaurare l’autorità del pur esausto impero d’occidente: poche leggi mirate, conservate in buona parte fino a oggi in appendice al Codex Theodosianus, ridiedero equità alla giustizia e al fisco abbandonati agli arbitri; in tre anni l’azione militare, che egli guidò personalmente, restituì sicurezza all’Italia, riprese il controllo di Gallia e Spagna, dove i barbari in assenza del potere imperiale erano rimasti padroni, e pose le premesse, tra le quali la costruzione di una grande flotta, per la riconquista dell’Africa vandala. In Gallia, oltre che ridurre alla ragione gli spadroneggianti Visigoti, occorreva catturare il consenso dell’aristocrazia rimasta fedele alla memoria di Avito: Lione dovette essere assediata, ma dopo averla presa una accorta politica di favore raggiunse anche questo scopo. Tra i Lionesi assediati e vinti era anche Sidonio, il quale fu in un primo tempo, quello della durezza contro i rivoltosi, posto in prigione; ma fu poi oggetto di uno dei provvedimenti di favore cui si è accennato e ottenne di poter declamare, nei primi giorni dell’anno 459, un panegirico all’imperatore ricevendone in compenso probabilmente il comitato. Il clima di fiducia che Maggioriano seppe creare intorno a sé si riflette anche nel resto dell’opera di Sidonio, che fa spesso grata menzione dell’imperatore. Celebre a questo proposito rimane un episodio del 461 (narrato in Epistolae I, 11) relativo a una falsa delazione che attribuiva un libello satirico anonimo a Sidonio e che l’Augusto, in occasione di un invito a pranzo presso il poeta, rigettò sorridendo. La delazione, piaga da sempre assai diffusa, e più ancora temuta nel tardo impero, quando gli intrighi di palazzo decidevano le sorti di popoli e persone, Maggioriano aveva dichiarato al senato di volerla sconfiggere, e, come si è visto, alle parole fece seguire i fatti.
L’impero era però a corto non solo di risorse materiali ma anche e in maggior misura di risorse umane: la progettata spedizione contro i Vandali fallì, perché Genserico trovò orecchie mercantili disposte al tradimento e la flotta pronta a partire fu distrutta nel porto. Maggioriano, dimostrando fortezza e realismo, accolse allora le proposte di pace di Genserico che aveva fino allora sempre rifiutato e rimandò la spedizione a una nuova occasione: la situazione dell’impero richiedeva pazienza. Ma il suo prestigio ne uscì scosso e questo facilitò probabilmente il consumarsi di un altro tradimento, questa volta a i suoi danni, ordito proprio dal collega nella carriera militare e amico di lunga data, compagno nella deposizione di Avito e primo collaboratore nelle fatiche imperiali, Ricimero, il quale molto probabilmente agì con la connivenza dell’aristocrazia colpita nei suoi interessi, ormai troppo più forte di quella nobiltà alla Sidonio che ancora conservava quale primo interesse la res publica. Ai primi di agosto del 461 d.C. Maggioriano fu con mossa improvvisa arrestato, deposto e giustiziato. Non aveva che quarant’anni e buone carte per realizzare un programma promettente. La sua figura e la sua vicenda dimostrano che la dissoluzione dell’impero in occidente fu dovuta in pari misura alle difficoltà poste dalla situazione politica e all’incapacità dei principali attori di farvi fronte.
Dopo aver ucciso Maggioriano, come imperatore Ricimero si scelse Libio Severo, un senatore pio e religioso assai manovrabile che non aveva alcuna intenzione di muoversi da Roma, tanto meno alla testa di un esercito. I lasciti ancora fragili e precari di Maggioriano si sgretolarono rapidamente ed è probabilmente da ritenersi sintomatico che Sidonio si defilò dagli impegni pubblici per dedicarsi alla composizione di versi destinati ai familiari e agli amici. Ma nel 467 d.C. fu scelto per presentare a Roma al nuovo imperatore Antemio – un patrizio e valente generale imposto dall’imperatore d’oriente Leone, e perciò disprezzato a Roma come graeculus, per tentare l’estremo salvataggio delle province d’occidente – una richiesta petizione della sua gente. Fu l’occasione per il suo terzo panegirico, pronunciato al principio del 468, che gli fruttò la cooptazione a Roma in rappresentanza della potente aristocrazia gallica, i titoli di patricius e caput senatus e la carica di praefectus Urbis (Epistulae I, 9). L’azione militare promossa congiuntamente da Antemio e da Leone contro i Vandali fu però troppo affrettata – forse per il ricordo di ciò che era successo all’accurata preparazione di Maggioriano – e non ebbe fortuna: una prima spedizione navale varata nel tardo 467 d.C. fu rimandata per il maltempo, la seconda nel 468 finì con la distruzione di flotta, mezzi e uomini. Altrettanto disastrose furono le campagne contro i Visigoti, i quali sotto la guida dell’abile e audace re Eurico avevano ripreso durante il regno di Libio Severo l’accorta politica di indipendenza che avevano dovuto momentaneamente interrompere con Maggioriano. Antemio suscitò prima gli alleati Bretoni contro i Visigoti, ma questi ultimi ebbero infine la meglio. Il successivo tentativo diretto di un esercito al comando del figlio Antemiolo si risolse nel 471 d.C. in una completa disfatta nella quale persero la vita anche i generali. Fallita la sua missione – il tentativo, del resto probabilmente tardivo indipendentemente dalle capacità dell’imperatore, di rimettere ordine nelle province – distrutto definitivamente il residuo prestigio dell’impero, che era ormai ridotto al solo nome, i nodi politici vennero al pettine e schiacciarono Antemio. Al principio del 472 iniziava in Roma tra i partigiani di Ricimero e di Antemio una lotta che divenne presto scontro aperto: Ricimero assediò Roma, dove Antemio era sostenuto da nobiltà e popolo, vi penetrò in luglio e fece decapitare Antemio.
Quell’anno drammatico fu uno spartiacque non solo per l’impero ma anche per Sidonio. Sidonio era stato gratificato da Antemio non solo degli onori cui si è accennato – nonostante fosse in linea di principio privo dei requisiti necessari, perché prima di Antemio il patriziato era riservato a chi avesse ricoperto incarichi militari, mentre la prefettura dell’Urbe era tradizionale appannaggio dell’aristocrazia italica: l’imperatore aveva invece largheggiato, non solo con Sidonio, per legare a sé per quanto possibile l’aristocrazia provinciale e con essa la popolazione delle province sempre più incline a farsi governare dai barbari – ma anche di grande influenza, come è provato dalla vicenda di Arvando (narrata in Epistulae I, 7 e da Cassiodoro in Chronica 1267), il prefetto del pretorio delle Gallie che, condannato a morte per tradimento, vide commutata la condanna in quella alla confisca dei beni e all’esilio per intercessione dell’amico Sidonio. Tanti sconvolgimenti forse resero Sidonio conscio di essere sul punto di assistere alla fine del potere imperiale e lo convinsero ad abbandonare Roma ritirandosi nuovamente nella sua Gallia in attesa degli eventi. Molto probabilmente negli stessi mesi maturò anche la decisione di optare per la vita religiosa. Sembra in verità che non si sentisse portato alla chierica, legato piuttosto agli studi profani che cristiani, ma infine, benché tuttora laico, accettò di succedere a Eparchio quale vescovo dell’Alvernia con sede ad Augustonemetum, oggi Clermont-Ferrand. Forse la scelta cadde su di lui per motivi politici, stante la sua lealtà all’impero in un momento in cui l’accelerazione centrifuga delle province diveniva irresistibile. Certo è che in Alvernia fu Sidonio a guidare gli ultimi tentativi di resistenza contro i Visigoti fino alla caduta di Clermont nel 475 d.C. Posto in prigione, fu per volere del re visigoto Eurico liberato e reintegrato nel suo ministero episcopale, che svolse con assidua carità e pari sollecitudine verso i Romani, delle istanze dei quali si fece portatore contro le prepotenze dei conquistatori, e verso i barbari, di religione ariana, fino alla morte in odore di santità avvenuta dopo il il 480 d.C. Sidonio Apollinare è ricordato nel martirologio romano il 21 agosto: la stessa data è riportata nel suo epitaffio, come compare in un antico codice cluniacense, il quale dice così:
Sanctis contiguus, sacroque patri
Vivit sic meritis Apollinaris,
Inlustris titulis, potens honore,
Rector militiae, forique iudex.
Mundi inter tumidas quietus undas,
Causarum moderans subinde motus,
Leges barbarico dedit furori,
Discordantibus inter arma regnis,
Pacem consilio reduxit amplo.
Haec inter tamen et philosophando,
Scripsit perpetuis habenda saeclis.
Et post talia dona gratiarum,
Summi pontificis sedens cathedram,
Mundanos suboli refundit actus.
Quisque hic dum lacrymis Deum rogabis
Dextrum funde preces super sepulcrum.
Nulli incognitus, et legendus orbi,
Illic Sidonius tibi invocetur.
XII Cal. Septemb. Zenone imp.
Nel problema della determinazione dell’anno di morte si esercitò nientemento che lo Scaligero, il più illustre tra i fondatori della cronologia. Egli si basò sull’indicazione, presente in Gregorio di Tours, che Sidonio morì di sabato: in accordo a questa informazione l’unico anno plausibile nell’arco del regno di Zenone (474-491 d.C.) è il 482 d.C. Tuttavia, in Epistulae IX, 12 Sidonio afferma di aver passato tre Olimpiadi (cioè dodici anni) senza scrivere carmi, da quando, all’inizio della professione religiosa, vi rinunciò: dal 472, questo lo farebbe ancora in vita nel 484 d.C. Si potrebbe rimediare all’incongruenza se si accogliesse l’antica tradizione della chiesa d’Alvernia che lo vuole morto il 23 agosto: in questo caso, l’anno più plausibile potrebbe essere il 486 d.C.
Verso il 470 d.C. Sidonio aveva fissato il contenuto della raccolta dei Carmina e l’ordine dei ventiquattro componimenti che la compongono. La raccolta si può suddividere in due parti: la prima, che comprende i primi otto carmi, inizia con i tre lunghi panegirici in esametri celebrativi dei tre imperatori Avito, Maggioriano e Antemio, preceduti dalle rispettive praefationes in distici elegiaci e seguiti da due brevi; la seconda parte, che comprende i carmi restanti di poesia non impegnata, sorta di nugae di vario argomento, inizia con un bizzarro carme dedicatorio al condiscepolo Magno Felice, in endecasillabi faleci, vede poi due epitalami in esametri e altre poesie d’occasione in richiesta di favori all’imperatore Maggioriano, un carme al vescovo Fausto, altre poesie dedicate a funzionari e compatrioti. Se la prima parte è artificiosamente e rigidamente aderente ai canoni e ai temi scolastici, la seconda è meno ingessata e più estrosa.
Anche le Epistulae, una raccolta di 147 lettere in nove libri che venne pubblicando dopo l’elezione episcopale, mostrano una piacevole freschezza di argomento, dal ritratto del re goto Teodorico II alle memorie di viaggi, e una maggiore libertà dai temi classici, nonostante già nella divisione delle lettere emerga l’intento di imitazione dell’epistolario pliniano, che si concreta pienamente nell’evidente interesse (che in Plinio era autocompiacimento e manierismo) per lo stile più che per l’argomento, che di norma è poco più di un pretesto. Per noi, comunque, il maggior valore delle lettere risiede nelle coloriture linguistiche – l’esposizione delle lettere è certo meno formale che quella delle poesie – che ci informano sull’evoluzione della lingua nella tarda latinità, nonché nelle notizie sulla vita religiosa, culturale e politica di quell’epoca contrastata.