Della vita di Aurelio Agostino, santo, Padre e Dottore della Chiesa, molto sappiamo grazie al fatto che egli ha molto parlato di sé in opere autobiografiche che brillano di intensa intimità: i dialoghi, soprattutto quelli composti a Cassiciacum nel periodo che seguì la (ri)conversione, e due opere centrali nella sua attività, le Confessiones e le Retractationes, nonché in frequenti e talvolta ampi accenni di sé in numerose altre dei sue cento e più scritti. Come aiuto insostituibile per la ricostruzione della sua vita dalla conversione fino alla morte possediamo inoltre la Vita sancti Augustini del discepolo e amico Possidio, biografo che scrive immediatamente dopo la morte del santo, tra il 431 e il 439 d.C., in base ai freschi ricordi personali e alla documentazione esistente nella biblioteca di Ippona che era scampata all’assedio dei Vandali.
Agostino nacque a Tagaste, in Numidia, il 13 novembre del 354 d.C. Il padre, Patricio, era un decurione, qualcosa come un moderno consigliere comunale, di religione pagana e possedeva una modesta proprietà. La madre, Monica, in seguito elevata agli onori degli altari, era cristiana e diede al figlio, forse il primogenito, i primi rudimenti della sua religione. Una educazione cattolica familiare, semplice, dunque, ma che si rivelò tanto radicata (quanto può l’amore di una madre) che la sua essenza, la fede in Cristo, egli non mise in discussione nemmeno quando decise di abbandonarla.
Fece il primo corso di studi a Tagaste, poi a Madaura, infine, con l’aiuto del concittadino Romaniano, riuscì a recarsi a Cartagine, la ricca e lussuriosa metropoli della provincia, per studiare retorica. La sua formazione fu integralmente romana e la sua fu cultura latina (del resto, se non fosse stato per l’invasione islamica, ancora oggi in gran parte dell’Africa costiera si parlerebbero molto probabilmente lingue romanze, tale fu la profondità che la romanizzazione riuscì a raggiungere); non aveva, né volle avere, grande dimestichezza col greco; ignorava il punico, che, annota egli stesso, pure sopravviveva nelle zone di campagna.
La retorica fu la sua professione: divenne insegnante di grammatica a Tagaste nel 374 d.C., l’anno dopo andò ad insegnare retorica a Cartagine, dove rimase fino al 383 d.C. per recarsi a Roma (384 d.C.) e infine, come professore ufficiale, a Milano. A Milano rimase poco meno di anni (dall’autunno del 384 d.C. alla fine dell’estate del 386 d.C.) essenziali per la sua esistenza. Conobbe sant’Ambrogio e la crisi religiosa che maturava da quando, a diciannove anni, aveva abbandonato la fede cattolica, si concluse con il rientro nella Chiesa.
Come accade a molti, molti giovani quando sono messi a contatto con un ambiente lascivo che ne stimola gli appetiti, quale certamente Cartagine era all’epoca, anche Agostino, egli stesso racconta, fu condizionato dalla sua prorompente pubertà, tanto che a diciassette anni, per mettere un freno alla propria incontinenza e non venir meno alle convenzioni sociali, convisse con una donna da cui ebbe un figlio, Adeodato (morto intorno al 390 d.C.), e alla quale rimase sempre fedele. Una situazione non dissimile a quella che vediamo oggi assai spesso, là dove per convenzioni sociali si intenda in senso lato ogni sorta di condizionamenti che possono condurre a una convivenza fuori dal matrimonio.
A diciannove anni, come si è anticipato, la rottura con la Chiesa cattolica era consciamente compiuta, ma non quella con la fede in Cristo, che era rimasta in qualche modo la luce della sua vita. La crisi interiore si manifestò nel 373 d.C. con la lettura dell’Hortensius di Cicerone, che entusiasmò il giovane Agostino per la sua sapienza e gli instillò quei principi razionalisti e naturalisti dei quali riuscirà vincitore solo dopo tredici anni ma dai quali ricevette anche la spinta per la crescita della sua fede. Lesse poi, quasi in un raffronto, la Sacra Scrittura, ma gli mancava la chiave di lettura dell’Antico Testamento, che gli fu troppo ostico e la lettura fu infruttuosa.
Nel frattempo incontrò la religione di Mani, razionalista, materialista e negatrice della necessità della fede, e vi si legò. Affermò in seguito (De beata vita 4) di non essere mai diventato manicheo convinto, ma di essere sempre rimasto in attesa che la sapienza che gli era stata promessa gli venisse mostrata. Nell’attesa, lo studio della filosofia gli mostrò l’inconsistenza del manicheismo, tanto che se ne allontanò. Nello stesso luogo del De vita beata racconta come non fece però ritorno nel seno della Chiesa ma si affidò agli accademici; è una fase di transizione del suo travaglio interiore.
Giunto a Milano, la predicazione del vescovo Ambrogio gli schiudeva l’interpretazione dell’Antico Testamento e lo riconciliava con quella Chiesa che aveva rifiutato: solo la Chiesa, si persuase, possiede l’autorità e il retto insegnamento per interpretare le Sacre Scritture e le Scritture sono il fondamento della fede. La medesima fede che nel manicheismo aveva rifiutato gli appare ora come la via maestra per giungere alla sapienza. Mai l’aveva abbandonato la fede in Cristo, o almeno nella sua autorità, ma ora gli associava la fede nella Chiesa e nella sua autorità.
Alla riflessione personale sulla necessità della fede molto contribuì la lettura dei neoplatonici. Nelle Confessiones afferma che si trattava allora di una fede ancora rozza e talvolta ignara dei limiti posti dalla retta dottrina, ma intanto penetrava e si radicava nel suo spirito; in seguito sarebbe venuta anche la conoscenza della retta dottrina. E la fede nell’autorità di Cristo giungeva infine ad accettare che egli non è solo divino Maestro ma anche redentore e che l’opera della redenzione si compie in noi mediante la grazia.
Lo spirito esigente di Agostino non si fermò qui: una volta avvenuta consapevolmente la conversione, sentiva che gli rimaneva da compiere un ultimo passo, decidere cosa fare della sua vita. La prospettiva del matrimonio era per lui la più naturale, ne aveva l’inclinazione e possedeva una professione remunerativa nella quale era molto ben considerato, era avviato probabilmente ad una ottima carriera. Dopo lunghe esitazioni e travagli, la grazia gli indicò chiaramente la strada più difficile e più alta verso la santità, quella della rinuncia alle occupazioni e agli onori terreni e del servizio di Dio, ed egli infine accettò dedicandosi alla vita ascetica nello stato laico e allo studio della Scrittura e della teologia. Era l’inizio di agosto del 386 d.C.
Verso la fine di ottobre di quell’anno, si ritirò a Cassiciacum, da identificarsi probabilmente con Cassago in Brianza, per prepararsi a ricevere il battesimo. Nel marzo del 387 d.C. era di nuovo a Milano per iscriversi tra i catecumeni. Seguì la catechesi di Ambrogio e fu da lui battezzato, assieme all’amico Alipio e al figlio Adeodato, la notte di Pasqua di quell’anno, tra il 24 e il 25 aprile. Decise poi di tornare a vivere in Africa, mentre avviava la straordinaria produzione letteraria, per quantità – gli sono attribuite più di mille opere e opuscoli – che per quantità. Ad agosto si recò quindi a Roma, ma a Ostia la madre Monica si ammalò improvvisamente e morì.
A Roma rimase allora fino alla morte dell’usurpatore Massimo (estate del 388 d.C.), quando finalmente partì per l’Africa per tornare alla natia Tagaste; continuava nel frattempo a scrivere senza fermarsi. Concepì presto il disegno di codificare la vita ascetica che conduceva con amici e un numero crescente di discepoli in una forma monastica, sia pure sempre nello stato laicale.
Nel 391 d.C. si recò quindi ad Ippona per cercare il luogo adatto a fondare il proprio monastero. Fu sorpreso dalla notizia dell’ordinazione sacerdotale, che accettò riluttante. Anche ordinato sacerdote, non rinunciò al suo piano originario e ottenne dal vescovo Valerio di fondare un monastero ove impose una regola di intenso ascetismo e di approfonditi studi teologici, e l’accompagnò con la predicazione che il suo stato sacerdotale imponeva.
Già nel 395 d.C. (secondo altri nel 396) veniva ordinato vescovo. Rimase ad Ippona, prima come coadiutore del vescovo Valerio, poi, dal 397 d.C., come vescovo di quella diocesi; costretto dagli eventi a lasciare il monastero da lui fondato, trasformò però la casa ad uso del vescovo in una sorta di monastero per i chierici.
Da quel momento la sua vita fu assorbita dall’attività ordinaria di vescovo e di evangelizzatore, predicatore, difensore della fede dalle eresie: predicava il sabato e la domenica, ma spesso anche più volte la settimana e due volte al giorno; seguiva la formazione del clero come la cura dei bisognosi, la fondazione e l’organizzazione di monasteri come le visite agli infermi, curava le cause che gli venivano presentate in qualità di vescovo come l’intervento presso le autorità civili e l’amministrazione dei beni ecclesiastici.
Gran parte della sua instancabile produzione letteraria, oltre mille scritti dei quali più di cento ne possediamo, fu rivolta alla lotta contro il paganesimo e soprattutto contro le eresie, manichea, donatista, pelagiana, ariana, tanto che è riconosciuto quale principale artefice della composizione degli scismi di Donato e Pelagio. Ma la maggior parte di ciò che scrisse probabilmente non lo possediamo: lettere in risposta alle richieste che al vescovo provenivano da ogni parte, interventi nei frequenti sinodi africani, predicazioni.
Agostino si spense mentre Ippona subiva da tre mesi ormai l’assedio dei Vandali, il 28 agosto del 430 d.C. Il Chronicon di Prospero d’Aquitania dice:
Aurelius Augustinus episcopus per omnia excellentissimus moritur V. kl. Sept., libris Iuliani inter impetus obsidentium Wandalorum in ipso dierum suorum fine respondens et gloriose in defensione Christianae gratiae perseverans.
Oltre alla risposta a Giuliano, la seconda che scriveva contro l’eretico pelagiano, la morte di Agostino lasciò incompiuta almeno una lettera (la epistula 228) indirizzata al suo clero, sui doveri dei sacerdoti di fronte all’invasione dei barbari.
I suoi resti furono prima trasportati a Cagliari, ove riposarono fino alla prima metà dell’VIII secolo d.C. (precisamente al periodo tra il 722 e il 732 d.C., a seconda dei computi e delle testimonianze). Nel suo De sex aetatibus mundi, il venerabile Beda (morto nel 735 d.C. e quindi contemporaneo ai fatti) racconta che negli anni sopra precisati le spoglie di Agostino vennero traslate nella basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, dove tuttora riposano assieme a quelle di Boezio e di Liutprando, per volontà dello stesso re longobardo Liutprando, onde sottrarle alle profanazioni dei saraceni che allora dilagavano incontenibili in Sardegna.
In seguito Agostino fu canonizzato e dichiarato Padre e Dottore della Chiesa. La dottrina della salvezza per mezzo della grazia divina gli valse l’appellativo specifico di Doctor Gratiae.