Il più grande filosofo pagano di Roma, Lucio Anneo Seneca, talvolta detto il minore o il filosofo o anche il giovane, per distinguerlo dal padre omonimo, retore di una certa fama, nacque a Corduba, antica colonia romana e capitale della Hispania Baetica (oggi Cordova in Spagna) forse nel 4 a.C. (ma quest’ipotesi usualmente accreditata si fonda, come altre egualmente possibili, soltanto su accenni desunti dalle opere – ad esempio Epistulae ad Lucilium CVIII, 22 – e su plausibili ragionamenti). La gens Annaea, di origine italica, si era trasferita in Spagna probabilmente agli inizi della colonizzazione delle nuove province dopo la seconda guerra punica; non sembra che alcuno della famiglia avesse in precedenza partecipato alla vita politica romana e tanto meno tentato il cursus honorum. Il padre, Lucio Anneo Seneca maggiore detto il vecchio o il retore, apparteneva al ceto equestre, come attesta Tacito; fu autore di apprezzati libri di controversiae e di suasoriae di cui rimangono larghi estratti, oltre una perduta opera storica. La madre Elvia, particolarmente affettuosa e vicina al nostro concetto di madre di famiglia, è ricordata con accenti di profondo trasporto e sincera tenerezza dal figlio, che non ebbe difficoltà a idealizzarla nei suoi scritti paragonandone la vita casta e dedita alla famiglia ai corrotti costumi delle ricche matrone del suo tempo. Lucio ed Elvia ebbero altri due figli (Consolatio ad Helviam matrem XVIII, 2): Marco Anneo Novato e Marco Anneo Mela, rispettivamente maggiore e minore di Seneca. Novato passò all’ordine senatorio con l’adozione da parte dell’amico di famiglia Lucio Giunio Gallione, di cui prese il nome, e attorno al 52 d.C. fu proconsole di Acaia, dove incontrò san Paolo (Actus Apostolorum XVIII, 12-17); Seneca gli dedicò alcune delle sue opere. Marco Anneo Mela, oggi noto soprattutto per essere stato il padre del poeta Lucano, rimase nel ceto equestre e si dedicò agli affari, divenendo procuratore imperiale.
Nei primi anni dell’Era Cristiana la famiglia di Seneca si trasferì a Roma, dove il giovanetto fu avviato secondo l’uso e i desideri paterni agli studi di grammatica e di retorica, manifestando però precocemente il suo ardente amore per la filosofia. Nell’Urbe poté attendere, oltre le lezioni del filosofo neopitagorico Sozione di Alessandria suo tutore, anche a quelle dello stoico Attalo e del retore Papirio Fabiano, che fu anche filosofo seguace, come Sozione, della Scuola dei Sestii, capace di fondere elementi stoico-pitagorici con influenze ciniche. Tutti e tre avevano in comune la tendenza ascetica alla vita semplice e moderata che sarà lo stile di vita e il faro dell’insegnamento di Seneca; il quale si riconobbe sempre nella dottrina stoica, seppur mai in modo limitativo, affermando anzi più volte che il vero sapiente deve essere libero di trarre e propugnare gli insegnamenti autentici da ogni scuola di pensiero. Da Sozione Seneca fu anche convinto all’astinenza dalla carne, recedendo dopo qualche tempo solo per la preghiera del padre avverso alle stranezze dei filosofi e preoccupato degli editti di Tiberio avversi ai culti stranieri e in difesa dei costumi romani (Epistulae ad Lucilium CVIII, 22). Terminati gli studi, forse già attorno al 20 d.C. forse nel 26, Seneca si recò in Egitto, presso una zia materna, moglie del praefectus Aegypti Gaio Galerio, il governatore, di nomina imperiale, di quella provincia. Il motivo della partenza fu probabilmente il mite clima egiziano, che doveva curare e rafforzare la salute cagionevole che Seneca rivelò dalla prima giovinezza e di cui soffrì fino alla morte (Epistulae ad Lucilium LXXVIII, 1-2; LIV, 1-4); ma forse non fu estranea alla decisione la summenzionata battaglia di Tiberio contro le sette esotiche, che aveva portato tra l’altro alla chiusura della Scuola dei Sestii. In Egitto scrisse un De situ et sacris Aegyptiorum che non ci è pervenuto. Dall’Egitto ritornò attorno al 31 d.C. per iniziare il proprio cursus honorum con la questura, carica che garantiva l’accesso in senato. In quel consesso che, nonostante l’ormai irreversibile passaggio al principato, era ancora al centro della vita politica, si formò e crebbe la fama di Seneca oratore. Al punto che un discorso troppo libero – e secondo alcuni contemporanei troppo brillante – alla presenza dell’imperatore, che era Caligola, attirò una condanna a morte sul senatore già celebre e influente. Era il 39 d.C. e Seneca inaugurava soltanto quel contrastato rapporto con il potere imperiale che gli sarebbe infine, dopo le minacce di tre imperatori, costato la vita. In questa occasione Seneca si salvò grazie ad una favorita dell’imperatore che gli fece notare la cattiva salute del filosofo e ne predisse la rapida morte naturale (secondo Dione Cassio in Historia Romana LIX, 19). Probabilmente nel 40 d.C. scrisse (inclusa nei cosiddetti Dialogi, per una discussione dei quali vedi infra) la Consolatio ad Marciam, figlia dello stoico e nostalgico del passato ordinamento repubblicano Aulo Cremuzio Cordo, cui era morto un figlio. Vi sono già evidenti i temi comuni anche alle altre due posteriori consolationes senecane: pesantezza della vita, inevitabilità della morte e desiderabilità della morte come liberazione dagli affanni della vita.
Al principio del 41 d.C. riuscì l’ennesima congiura ordita contro il sanguinario Caligola e a succedergli fu chiamato – ultimo maschio adulto sopravvissuto alla progressiva strage, scatenatasi dopo la morte di Augusto, della dinastia giulio-claudia – lo zio di lui, Claudio. Sebbene Seneca condividesse con il nuovo principe, che fu storico ed etruscologo celebre, l’amore per gli studi, Claudio non gli giovò più di Caligola e anzi gli procurò guai in certo modo peggiori. Infatti di lì a poco, quello stesso anno, l’imperatrice Messalina, moglie di Claudio, accusò la nipote Giulia Livilla di adulterio col filosofo – o forse Seneca fu soltanto implicato nello scandalo per favoreggiamento, non è chiaro -. Giulia, figlia di Germanico e sorella di Caligola, donna fascinosa e, secondo Suetonio (Vita Caligulae XXIV), dissoluta, già al centro di una congiura contro il fratello – che, sventata, le aveva procurato l’esilio nel 39 d.C. e la minaccia, non eseguita, di morte -, forse perchè, come pare, si era fatta promotrice di una corrente politica ostile all’imperatore o forse semplicemente per gelosia, era entrata in collisione con l’imperatrice. Nuovamente esiliata per l’adulterio di cui sopra, nel medesimo anno 41, nell’isola Pandateria, oggi Ventotene, Giulia questa volta non sopravvisse che pochi mesi, poiché Claudio ne ordinò presto l’esecuzione. Anche Seneca finì esiliato, ma nell’inospitale Corsica, terra allora poco abitata e quasi abbandonata, e lì, assai lontano dal clima convulso e dalla civilità urbana di Roma, dopo dieci anni di attività politica, rimase confinato per ben otto anni. A questo periodo risalirebbero, pur nell’incertezza della datazione, alcune opere (tutte incluse poi nei Dialogi, vedi infra): l’ultimo dei tre libri del De ira (i primi due erano stati probabilmente iniziati primi dell’esilio, tanto che la loro pubblicazione potrebbe risalire al 41), una sorta di manuale di psicologia stoica nel quale Seneca studia i meccanismi delle passioni umane e i modi per controllarle; la Consolatio ad Helviam matrem, probabilmente attorno al 42, nella quale egli si trova nell’originale situazione di consolare una persona cara essendo proprio lui l’oggetto del compianto per la sorte toccatagli; e la Consolatio ad Polybium, (forse attorno al 43 o nei primi anni di esilio) diretta al potente liberto di Claudio per consolarlo della morte del fratello, con l’intento non tanto nascosto di ottenere il perdono e il ritorno a Roma con l’adulazione e la insulsa piaggeria – comportamento in seguito aspramente criticato come indegno dell’imperturbabilità del saggio da lui perseguita -.
Ma fu solo per intercessione di Agrippina Minore, divenuta nel frattempo la seconda moglie di Claudio nonostante fosse sua nipote – essendo figlia di Germanico fratello di Claudio – che nel 49 d.C. Seneca poté tornare a Roma per assumere, come il prefetto del pretorio Afranio Burro, l’incarico di tutore del giovane Domizio, figlio di primo letto dell’imperatrice che ella cercava di lanciare nella corsa al trono imperiale. In questi anni Seneca forse scrisse altri due dei Dialogi (vedi infra), il De constantia sapientis (nel quale afferma essere la costanza, cioè la perseveranza nella virtù, la caratteristica essenziale del sapiente; dalla quale conseguono la coerenza di vita e l’imperturbabilità, cioè l’indifferenza del saggio di fronte alle offese e al disprezzo: il sapiente non può subire alcun male né dagli altri, perché dove c’è virtù non può sussistere il male, né dalla sorte, perché la virtù non è un dono della fortuna e la fortuna può togliere tutto ma non la virtù; perciò egli è invincibile, non irraggiungibile) e il De brevitate vitae (nel quale discute l’uso del tempo: gli uomini sprecano gran parte della propria vita, quindi il tempo in cui si vive davvero è spesso breve anche se la vita è lunga; invece una vita anche breve è sufficientemente lunga per realizzare grandi opere se la si sa usare), che altri però data al fecondissimo periodo finale della sua vita dopo il ritiro dalla vita pubblica. Nel 54, alla morte di Claudio, mentre il suo pupillo diveniva imperatore coronando l’ambizione propria e della madre, Seneca scrisse, forse in forma anonima, il Ludus de morte Claudii, tramandato anche con il titolo di Apokolokyntosis – termine poco chiaro che è stato interpretato come paronomasia di apotheosis nel senso di ‘zucchificazione’ invece che l’usuale ‘divinizzazione’ del principe defunto; poiché però nel testo non si accenna a trasformazioni in zucca, merita forse maggior credito l’interpretazione del termine come ‘apoteosi di uno zuccone’ -. Sulla falsariga della satira menippea (cioè un componimento di tono ironico e salace in prosa alternata a versi in vari metri) vi si immagina che Claudio defunto salga sull’Olimpo pretendendo di essere assunto tra gli dèi, ma, avendo Augusto raccontato tutti i misfatti da lui compiuti, Claudio sia condannato a discendere negli inferi come i comuni mortali, dove finisca schiavo prima di Caligola e poi del liberto Menandro, proprio lui che in vita aveva fama di concedere troppo potere ai suoi liberti. Si tratta di una postuma rivincita di Seneca sull’imperatore che lo aveva esiliato dove si mettono spietatamente alla berlina i lati e i difetti più ridicoli. Né si può escludere che lo stesso scopo abbia perfidamente avuto l’orazione funebre pronunciata dal giovane Nerone, ma che Tacito (Annales XIII, 3) si preoccupa di farci sapere esser stata scritta da Seneca stesso con molta cura e aver, con gli accenni alla preveggenza e alla saggezza di Claudio, strappato più di qualche sorriso all’uditorio. Altro atteggiamento non esemplare, questo, da parte di Seneca, che gli ha attirato nel tempo le maggiori critiche dei suoi detrattori.
Come è noto, nel primo quinquennio di regno, Nerone, positivamente influenzato dalle figure di Seneca e di Burro, si dimostrò un sovrano degno e moderato e mostrò di ricambiare il debito di gratitudine coi suoi tutori, tra l’altro creandoli consoli assieme nel 55 d.C. In questo periodo prevalentemente felice, tra il 54 e il 59, Seneca corroborò l’educazione del sovrano e la propria dottrina scrivendo altre due opere poi incluse nei Dialogi (per una discussione vedi infra): il De tranquillitate animi (da altri spostato agli ultimi anni della sua vita, ma con minor ragione: come nel De otio, che fu scritto sicuramente dopo il ritiro a vita privata, vi si tratta del rapporto tra otium e negotium, tra la vita contemplativa del saggio e la vita attiva del civis romanus; ma a differenza del De otio, qui Seneca cerca una mediazione tra le concezioni, ammettendo che l’impegno politico possa giovare agli altri e aiutare a conseguire la propria serenità d’animo) e il De vita beata (scritto in polemica con chi gli muoveva il rimprovero: aliter loqueris, aliter vivis; Seneca riafferma che il conseguimento della virtù è uno dei mezzi per raggiungere la felicità, quindi ne suggerisce l’esercizio, sebbene egli, non essendo sapiente cioè non avendo conseguito la virtù, non sia esente da colpe); e i suoi due trattati etico-politici (anch’essi discussi brevemente infra): il De clementia e il De beneficiis (quest’ultimo sarebbe stato terminato però solo attorno al 64 d.C.). Ma, come appare, i lati aberranti della personalità del principe, che lo rendevano insofferente tanto alla misura dei suoi consiglieri quanto alla prepotenza della madre, in un rapido sviluppo probabilmente favorito dall’allucinazione del potere, presero infine il sopravvento. Il suo primo bersaglio fu Britannico, figlio di Claudio e di Messalina e unico potenziale concorrente al trono in famiglia, che fece avvelenare. Agrippina, che mal sopportava di essere messa in ombra dal figlio e che pare anche si fosse avvicinata a Britannico (del quale, come seconda moglie di Claudio, era matrigna) nei suoi intrighi di potere, divenne invece l’obiettivo più raccapricciante della sanguinaria crudeltà di Nerone: Tacito (Annales XIV, 7) descrive i tentativi di Nerone di sopprimerla, poi riusciti, senza chiarire se Seneca e Burro sapessero o meno e se fossero dal principio o alla fine d’accordo; Dione Cassio (Historia Romana LXI, 12) riporta voci secondo le quali Seneca avrebbe esplicitamente incitato Nerone al matricidio. Sembra probabile, in linea con il racconto di Tacito, che, seppure dapprima i due non sapessero chiaramente delle intenzioni di Nerone, abbiano dato poi il loro tacito assenso perchè nisi praeveniretur Agrippina, pereundum esset Neroni. La conferma più lampante verrebbe dal fatto (Annales XIV, 11) che Seneca scrisse un messaggio con una falsa versione dei fatti per proteggere Nerone.
Ancora un atteggiamento di dubbia moralità da parte di Seneca, dunque, e duramente censurato dai più, sebbene si possa anche lodare l’agire lucido da parte del filosofo che nella tragica situazione dello stato privilegia la soluzione che porta il minor danno alla collettività. Ed è pur vero che da questi fatti gravissimi iniziò il distacco tra Seneca e Nerone. Quest’ultimo si abbandonò facilmente al capriccio e alla crudeltà, preferendo sempre più spesso la compagnia di scellerati, tra i quali figurava anche la sua seconda moglie Poppea Sabina, e sottraendosi all’influenza di Burro e di Seneca. E quando nel 62 d.C. morì Afranio Burro, forse per problemi di salute o forse per avvelenamento (Tacito Annales XIV, 51), Seneca chiese e ottenne di ritirarsi a vita privata. Tra il 62 e il 65, sfruttando la tranquillità del suo ritiro, Seneca si abbandonò a una produzione letterario-filosofica prodigiosa per quantità e qualità: scrisse le Epistuale morales ad Lucilium, le Naturales quaestiones, concluse il De beneficiis (per queste opere vedi infra) e aggiunse ai Dialogi il De otio (con il quale sostiene la priorità e la necessità per il sapiente della vita contemplativa rispetto alla vita attiva, la quale può essere scelta dal filosofo solose costretto dalle circostanze) e il De providentia (nel quale sostiene la tesi che è la provvidenza della divinità che permette che accadano sventure, incommoda, ai buoni perché esercitino le virtù e le rafforzino; d’altronde i buoni, che sono immuni dal male morale, sono liberi di scegliere la morte per sfuggire alle sventure).
Le Epistulae ad Lucilium, ritenute l’opera più profonda e riuscita di Seneca – certamente sono l’opera più famosa – rappresentano un caso unico nel panorama letterario e filosofico dell’antichità. Seneca stesso era consapevole di non avere predecessori nell’impresa di sfruttare lo strumento epistolare con intento pedagogico, protrettico e parenetico: egli cita Epicuro, che con Platone aveva offerto, ma non in modo organico, esempi del medesimo genere letterario, più per spiegare il proprio intento che come riferimento letterario. Le lettere in questione sono 124 divise in 20 libri: vario è l’argomento come varia è l’ampiezza che Seneca dedica a ogni tema. Lucilio era un carissimo amico dell’autore, un uomo d’affari campano di umili origini giunto al rango equestre, di buona cultura e di sincero interesse per gli studi. L’epistolario ha tutte le caratteristiche di una corrispondenza realmente avvenuta: gli argomenti nascono con evidenza dalla vita quotidiana, dall’occasione; tra l’altro si fa in più luoghi riferimento a lettere spedite da Lucilio, delle quali però, contrariamente ai casi usuali, privi di altre intenzioni che non siano il documento storico o affettivo, come l’epistolario ciceroniano, non c’è qui traccia. Tuttavia si ritiene sia stato integrato con lettere fittizie di tema specifico, soprattutto ad indirizzo sistematico, al momento della pubblicazione. L’epistola è prescelta come strumento capace di instaurare un dialogo affine a quello tra allievo e maestro; e che ha il vantaggio di permettere con la forma scritta di sottoporre spunti di riflessione chiari e argomentati, di favorire con gli intervalli tra le lettere la meditazione degli argomenti offerti alla mente e allo spirito dell’amico; strumento di insegnamento e insieme di perfezionamento morale, di ricerca della verità e insieme di esortazione al bene. Più che in ogni altra opera filosofica di Seneca rifulge qui il suo precipuo interesse per la condizione umana: la considerazione che tutti gli uomini, ricchi e potenti o poveri e schiavi, sono accomunati dallo stesso destino non è tanto interesse – pur suggestivo, essendo così fuori dal coro in tutta la storia umana antecedente il Cristianesimo – per la condizione servile di tanta parte dell’umanità di allora, come talvolta si sottolinea banalizzando e fuorviando, ma è fondamento di tutta l’etica e tutto il pensiero senecani. È fondamento dell’indifferenza del saggio verso le seduzioni del mondo, del valore della ricerca della sapienza e delle conquiste dello spirito, del disprezzo verso le occupazioni umane che non siano volte alla ricerca del bene. Per la tradizionale visione etica e politica dei Romani è un rivolgimento: non è il negotium che fa il vir, ma l’otium, quando almeno è intento al perfezionamento interiore; un perfezionamento cui si deve giungere – ma questo era già pensiero oraziano e ponte di riconciliazione col pensiero tradizionale romano – attraverso la critica dei vizi propri e altrui.
Anche le Naturales Quaestiones, a onta del nome, sono un’opera essenzialmente filosofica, e non solo perché lo studio dei fenomeni naturali furono a lungo, per nascita e per tradizione, parte della filosofia – tanto che all’ombra della filosofia nacque il metodo scientifico moderno basato sulla osservazione dei fenomeni (cioè di ‘ciò che appare’), la conseguente formulazione di teorie tese a spiegarli e la discussione razionale delle teorie necessaria alla loro dimostrazione o confutazione e alla determinazione del loro ambito di validità -. Scopo di Seneca non è infatti una discussione ordinata dei fenomeni naturali – quale fu concepita nello stesso secolo da Plinio il vecchio con la Naturalis Historia, cioè con una narrazione riguardo la natura; qui si parla invece di quaestiones, cioè di argomenti anche slegati tra loro perché scelti in base a un criterio di altro tipo che quello della affinità scientifica – bensì di illustrare la concezione secondo la quale l’uomo ascende alla divinità attraverso la vera conoscenza del mondo e liberandosi del fardello di credenze e superstizioni con le quali gli uomini hanno avvolto, nascondendone la vera essenza, la natura. La selezione delle quaestiones, condotta in base all’esigenza di spogliare i fatti delle soprastrutture create dalla paura e dall’ignoranza, verte quindi su argomenti di comune esperienza nei quali maggiore sia stato l’influsso di ignoranza e paura. Ecco perché tutti e sette i libri che compongono l’opera (I: il fuoco, seguito dagli specchi; II: i fulmini; III: le acque terrestri; IV: il Nilo, seguito dalle nubi e dalle precipitazioni atmosferiche: V: i venti; VI: i terremoti; VII: le comete – ma la redazione in nostro possesso, e forse anche l’ordine di esposizione, è quasi certamente differente dall’originale -) hanno in comune l’interesse per le cosiddette ‘forze della natura’. Come per tutte le opere dell’antichità, anche in questo caso non si può parlare di scientificità in senso stretto, né Seneca rinuncia alle digressioni morali e religiose, che anzi, secondo il sentire dell’epoca, fanno parte integrante della discussione; tuttavia il metodo conoscitivo, basato sull’approccio razionale e sull’osservazione diretta, è apprezzabile.
Al quinquennio di buon governo neroniano risalgono i due trattati di morale politica, il De clementia e, nella sostanza, il De beneficiis. Il De clementia, che ci è giunto incompleto – non è chiaro se perché mai completato o perché mutilato dal tempo -, è dedicato e diremmo indirizzato a Nerone imperatore. Seneca lo esorta a comportarsi con i suoi sudditi come un padre deve fare con i figli, con la clemenza e quasi l’indulgenza di chi ha su di essi un potere assoluto, potere che discende dalla divinità e del quale non deve far sentire il peso. L’opera, che si ispira, senza più approfonditi ripensamenti, alla tradizionale dottrina stoica che identificava nella monarchia la miglior forma di governo quando il sovrano è saggio e sa comportarsi con moderazione, sarebbe stato composto nei primi anni del principato di Nerone, del quale si elogia la clemenza. Mutato è invece il clima politico nei sette libri del De beneficiis, dedicato a Ebuzio Liberale, un amico soprattutto degli anni del ritiro a vita privata: l’opera risalirebbe quindi al torbido periodo tra il 58 e il 62, quando si rese manifesto il fallimento dell’educazione morale del principe, e sarebbe stata completata solo dopo il ritiro con la dedica. Argomento è il concetto del ‘fare il bene’: partendo dalla critica del beneficium tradizionalmente inteso, cioè come favore o servizio nell’ambito dei rapporti clientelari – rapporti che caratterizzavano tutta la vita politica e sociale romana -, Seneca giunge a proporre un beneficium come atto di generosità di chi non pensa o spera di ricevere nulla in cambio. Il pensiero morale senecano è stato spesso accostato a quello cristiano, e davvero – forse meno spesso di quel che si sia tentato di affermare – si individuano punti di contatto; ma è soprattutto in questo punto – che richiama così da vicino la definizione di Gesù Cristo come è data nei pressoché contemporanei Actus Apostolorum X, 38: Iesum a Nazareth […] qui pertransivit benefaciendo et sanando omnes […] – che si osserva un esempio di autentica comunanza di dottrina. L’esempio si rafforza quando si considera che sempre qui Seneca condanna la vendetta, affermando che se è da vero sapiente restituire il bene, non lo è restituire il male, poiché il sapiente, secondo la dottrina stoica, deve invece sopportare il male ricevuto grazie alla propria imperturbabilità nelle questioni terrene.
Le dieci opere filosofiche:
- De providentia ad Lucilium
- De constantia sapientis ad Serenum
- De ira libri III ad Novatum
- De consolatione ad Marciam
- De vita beata ad Gallionem
- De otio ad Serenum
- De tranquillitate animi ad Serenum
- De brevitate vitae ad Paulinum
- De consolatione ad Polybium
- De consolatione ad Helviam matrem
si trovano assieme, riunite sotto il comune titolo di Dialogi o Dialoghi, che è già usato da Quintiliano benché non assumano – ad eccezione del De tranquillitate animi, nel quale interviene l’amico Sereno cui è dedicato – forma dialogica: se il filosofo, infatti, svolge il discorso in prima persona, non c’è però intervento di altri né a supporto né come contraddittorio. Si avvicinano perciò alle lettere, soprattutto quelle di contenuto programmatico, delle Epistulae ad Lucilium piuttosto che al dialogo vero e proprio e tradizionale del quale Cicerone fu maestro. Se si considera che anche presso i filosofi Greci la forma dialogica, che era stata tra gli altri di Platone, aveva subito una evoluzione riducendosi spesso ad accenni ad un ipotetico avversario verbale, a occupationes di un possibile contraddittore (‘tu dirai…’); e che i cinici e gli stoici per la diatribè, per le conferenze che miravano a convincere ed esortare il grande pubblico a seguire il comportamento proposto come buono, avevano adottato uno stile immediato, breve, nel quale avevano più spazio gli esempi che catturano il cuore piuttosto che la trattazione rigorosa di un argomento che cattura la ragione – uno stile da predicatore diremmo noi – se si considera questo, si diceva, si comprende come non a torto si sia supposto che la denominazione di Dialogi (il termine diatriba in latino compare più tardi), la pubblicazione in unico volume e forse anche l’ordine di pubblicazione possa risalire allo stesso Seneca. Il quale, se si servì della diatribè come esempio, la piegò però al gusto suo e romano: egli usa come destinatari personaggi reali scelti tra gli amici, sostituisce al tono popolare e talvolta volgare della diatribè un tono più elevato ed elegante, usa esempi tratti dalla tradizione romana e anche dall’attualità (sia per giustificare certe sue posizioni pubbliche che per manifestare, in maniera ‘dantesca’, la propria stima o la propria avversione versi personaggi noti), lascia libero spazio alle sentenze e alle citazioni, soprattutto di Virgilio e Ovidio, adattate alla propria tesi. Tutti elementi atti a rendere più leggera e gradita l’esposizione, che era invariabilmente centrata sull’esortazione a un determinato comportamento morale e a rifuggire dal comportamento opposto.
Non si conosce la cronologia di composizione delle nove tragedie che portano il nome di Seneca e sono ritenute autentiche, le uniche tragedie pervenuteci integre in tutta la storia del teatro latino. Sono tutte di argomento greco: Hercules furens (su modello euripideo: Ercole, reso pazzo da Giunone, uccide moglie e figli; rinsavito, vuole uccidersi ma è convinto a rinunciare e va ad Atene per la sua catarsi), Troades (dalle Troiane e dall’Ecuba di Euripide, il dolore delle donne troiane prigioniere e impotenti di fronte all’uccisione di Polissena e di Astianatte), Phoenissae (incompleta, sulla vicenda di Eteocle e Polinice figli di Edipo, dalle Fenicie di Euripide e dall’Edipo a Colono di Sofocle), Medea (la storia della principessa della Colchide sedotta e abbandonata da Giasone e della sua vendetta sui figli avuti da lui, sull’originale naturalmente euripideo), Phaedra (sull’amore di Fedra per il figliastro Ippolito, il quale, reticente, è ucciso in seguito alla falsa denuncia dalla matrigna al padre Teseo; sul modello dell’Ippolito euripideo), Oedipus (il più celebre mito del ciclo tebano, quello di Edipo, inconsapevole assassino del padre Laio e sposo della madre Giocasta, che si acceca quando scopre la terribile verità; il modello è ovviamente l’Edipo re di Sofocle), Agamemnon (dall’Agamennone di Eschilo, il ritorno da Troia del re degli Achei e la sua uccisione per mano della moglie Clitemmestra e dell’amante Egisto), Thyestes (probabilmente dagli originali perduti di Euripide e Sofocle, il mito di Tieste che mangia le carni dei figli imbanditegli dal fratello Atreo, il quale lo odia per avergli sedotto la moglie), Hercules Oetaeus (dalle Trachinie di Sofocle, la storia di Deianira, la quale, perduto l’amore di Ercole per Iole, per riconquistarlo gli invia una tunica imbevuta del sangue cel centauro Nesso, creduto filtro d’amore e in realtà veleno mortale; sul monte Eta, da cui il titolo, Ercole si uccide ed è assunto tra gli dèi).
Il rapporto con i modelli greci è in Seneca perfettamente maturo, la contaminazione, ma meglio è parlare più in generale di ristrutturazione dell’impianto narrativo, si svolge in completa autonomia, l’impronta drammatica è consapevole e piena: si tratta non solo della più estesa e vigorosa testimonianza del teatro latino di ogni epoca, ma anche dell’impressionante residuo dell’opposizione che l’oligarchia senatoria oppose nei primi decenni del principato tramite il teatro tragico al regime dispotico sistematicamente instaurato dai più immediati successori di Augusto, nessuno dei quali seppe riportarsi ai fasti del primo princeps. Non a caso uno dei motivi principali delle tragedie è l’esecrazione della tirannide e l’esaltazione della libertà – elementi già fondamentali nel teatro greco – e personaggio ricorrente è il tiranno ambizioso e sanguinario, che non conosce la moderazione ed è tormentato dall’angoscia. Il problema etico del potere non poteva non interessare Seneca, che così da vicino vi si scontrò e che costituiva un esempio così illuminante, stante la dimensione mondiale dell’impero che rende la valenza cosmica del conflitto tra bene e male, dell’utilità e del valore dei principi della morale stoica. Tuttavia sempre forte si avverte la preoccupazione di rispondere pienamente al sottostante intento letterario attraverso l’uso del pathos esasperato e l’esaltazione del gusto sentenzioso – elementi tradizionali del teatro latino fin dalle tragedie del periodo arcaico -, l’adozione di un linguaggio poetico ricercato e di forme metriche raffinate, dell’enfasi e dell’erudizione caratteristiche della retorica asiana; mentre la continua frammentazione dei dialoghi, in cui gli interventi sono costituiti spesso da un solo verso, può essere considerata la trasposizione in poesia dello stile e del gusto senecano della prosa. La presenza di lunghe digressioni, quasi quadri autonomi che contribuiscono a esasperare la tensione drammatica del lettore ma spezzano la continuità della rappresentazione scenica, suggerisce la possibilità che le tragedie senecane fossero (o fossero prevalentemente) dstinate alla lettura più che alla scena. Ciò non toglie che molte scene siano evidentemente scritte pensando alla drammatica spettacolarità del palco.
Una decima tragedia di argomento romano, l’Octavia (che narra della sorte di Ottavia, figlia di Claudio e Messalina e prima moglie di Nerone, ripudiata per potere sposare Poppea e fatta uccidere), è ritenuta spuria sia perché lo stesso Seneca compare tra i personaggi, sia perché la descrizione della morte di Nerone è molto simile alla realtà, sia perché si individuano facilmente nella tragedia interi brani delle opere senecane in prosa versificati. Parimenti spurie sono una raccolta di epigrammi in distici elegiaci che ci è giunta sotto il suo nome e la corrispondenza epistolare con san Paolo che tanto alimentò la fama di Seneca nel Medio Evo e tanta parte ebbe nel favorire il transito fino a noi di buona parte della sua opera, specialmente filosofica. Ma numerose sono le opere perdute di cui abbiamo notizia: la biografia del padre, le orazioni, i trattati di carattere etnografico e naturalistico (come quello sul paese e sulla religione degli Egizi citato supra), e anche alcune opere filosofiche (soprattutto i Moralis philosophiae libri di cui egli stesso fa il nome più volte, sembrano particolarmente da compiangere).
Parlando degli autori di scritti filosofici, Quintiliano (Institutio oratoria X, 1, 125-131) riserva questo tagliente giudizio all’opera e allo stile di Seneca:
CXXV. Ex industria Senecam in omni genere eloquentiae distuli, propter vulgatam falso de me opinionem qua damnare eum et invisum quoque habere sum creditus. Quod accidit mihi dum corruptum et omnibus vitiis fractum dicendi genus revocare ad severiora iudicia contendo: tum autem solus hic fere in manibus adulescentium fuit. CXXVI. Quem non equidem omnino conabar excutere, sed potioribus praeferri non sinebam, quos ille non destiterat incessere, cum diversi sibi conscius generis placere se in dicendo posse quibus illi placerent diffideret. Amabant autem eum magis quam imitabantur, tantumque ab illo defluebant quantum ille ab antiquis descenderat. CXXVII. Foret enim optandum pares ac saltem proximos illi viro fieri. Sed placebat propter sola vitia, et ad ea se quisque dirigebat effingenda quae poterat: deinde cum se iactaret eodem modo dicere, Senecam infamabat. CXXVIII. Cuius et multae alioqui et magnae virtutes fuerunt, ingenium facile et copiosum, plurimum studii, multa rerum cognitio, in qua tamen aliquando ab iis quibus inquirenda quaedam mandabat deceptus est. Tractavit etiam omnem fere studiorum materiam: CXXIX. nam et orationes eius et poemata et epistulae et dialogi feruntur. In philosophia parum diligens, egregius tamen vitiorum insectator fuit. Multae in eo claraeque sententiae, multa etiam morum gratia legenda, sed in eloquendo corrupta pleraque, atque eo perniciosissima quod abundant dulcibus vitiis. CXXX. Velles eum suo ingenio dixisse, alieno iudicio: nam si aliqua contempsisset, si [parum] non concupisset, si non omnia sua amasset, si rerum pondera minutissimis sententiis non fregisset, consensu potius eruditorum quam puerorum amore comprobaretur. CXXXI. Verum sic quoque iam robustis et severiore genere satis firmatis legendus, vel ideo quod exercere potest utrimque iudicium. Multa enim, ut dixi, probanda in eo, multa etiam admiranda sunt, eligere modo curae sit; quod utinam ipse fecisset: digna enim fuit illa natura quae meliora vellet; quod voluit effecit.
Non era possibile sfuggire a lungo al desiderio di onnipotenza di Nerone, alla maligna frenesia di togliersi dagli occhi e dal pensiero chi pur senza opporsi non si conformava alla sua corrotta condotta. Il 65 d.C. segnò la morte del filosofo, costretto al suicidio da Nerone, che lo accusò di essere coinvolto nella congiura dei Pisoni dell’aprile di quell’anno, della quale peraltro pare che Seneca fosse realmente informato. La morte di Seneca, che egli scelse per dissanguamento mentre discuteva con gli amici più stretti di questioni filosofiche, è suggestivamente descritta da Tacito in Annales XV, 60-64:
[60] […] Sequitur caedes Annaei Senecae, laetissima principi, non quia coniurationis manifestum compererat, sed ut ferro grassaretur, quando venenum non processerat. solus quippe Natalis et hactenus prompsit, missum se ad aegrotum Senecam, uti viseret conquerereturque, cur Pisonem aditu arceret: melius fore, si amicitiam familiari congressu exercuissent. et respondisse Senecam sermone mutuos et crebra conloquia neutri conducere; ceterum salutem suam incolumitate Pisonis inniti. haec ferre Gavius Silvanus tribunus praetoriae cohortis, et an dicta Natalis suaque responsa nosceret percunctari Senecam iubetur. is forte an prudens ad eum diem ex Campania remeaverat quartumque apud lapidem suburbano rure substiterat. illo propinqua vespera tribunus venit et villam globis militum saepsit; tum ipsi cum Pompeia Paulina uxore et amicis duobus epulanti mandata imperatoris edidit.
[61] Seneca missum ad se Natalem conquestumque nomine Pisonis, quod a visendo eo prohiberetur, seque rationem valetudinis et amorem quietis excusavisse respondit. cur salutem privati hominis incolumitati suae anteferret, causam non habuisse; nec sibi promptum in adulationes ingenium. idque nulli magis gnarum quam Neroni, qui saepius libertatem Senecae quam servitium expertus esset. ubi haec a tribuno relata sunit Poppaea et Tigellino coram, quod erat saevienti principi intimum consiliorum, interrogat an Seneca voluntariam mortem pararet. tum tribunus nulla pavoris signa, nihil triste in verbis eius aut vultu deprensum confirmavit. ergo regredi et indicere mortem iubetur. tradit Fabius Rusticus non eo quo venerat intinere redi[sse] t[ribun]um, sed flexisse ad Faenium praefectum et expositis Caesaris iussis an obtemperaret interrogavisse, monitumque ab eo ut exsequeretur, fatali omnium ignavia. nam et Silvanus inter coniuratos erat augebatque scelera, in quorum ultionem consenserat. voci tamen et adspectui pepercit intromisitque ad Senecam unum ex centurionibus, qui necessitatem ultimam denuntiaret.
[62] Ille interritus poscit testamenti tabulas; ac denegante centurione conversus ad amicos, quando meritis eorum referre gratiam prohoberetur, quod unum iam et tamen pulcherrimum habeat, imaginem vitae suae relinquere testatur, cuius si memores essent, bonarum artium famam tam constantis amicitiae [pretium] laturos. simul lacrimas eorum modo sermone, modo intentior in modum coercentis ad firmitudinem revocat, rogitans ubi praecepta sapientiae, ubi tot per annos meditata ratio adversum imminentia? cui enim ignaram fuisse saevitiam Neronis? neque aliud superesse post matrem fratremque interfectos, quam ut educatoris praeceptorisque necem adiceret.
[63] Ubi haec atque talia velut in commune disseruit, complectitur uxorem, et paululum adversus praesentem fortitudinem mollitus rogat oratque temperaret dolori [neu] aeternum susciperet, sed in contemplatione vitae per virtutem actae desiderium mariti solaciis honestis toleraret. illa contra sibi quoque destinatam mortem adseverat manumque percussoris exposcit. tum Seneca gloriae eius non adversus, simul amore, ne sibi unice dilectam ad iniurias relinqueret, “vitae” inquit “delenimenta monstraveram tibi, tu mortis decus mavis: non invidebo exemplo. sit huius tam fortis exitus constantia penes utrosque par, claritudinis plus in tuo fine.” post quae eodem ictu brachia ferro exsolvunt. Seneca, quoniam senile corpus et parco victu tenuatum lenta effugia sanguini praebebat, crurum quoque et poplitum venas abrumpit; saevisque cruciatibus defessus, ne dolore suo animum uxoris infringeret atque ipse visendo eius tormenta ad impatientiam delaberetur, suadet in aliud cubiculum abscedere. et novissimo quoque momento suppeditante eloquentia advocatis scriptoribus pleraque tradidit, quae in vulgus edita eius verbis invertere supersedeo.
[64] At Nero nullo in Paulinam proprio odio, ac ne glisceret invidia crudelitas, [iubet] inhiberi mortem. hortantibus militibus servi libertique obligant brachia, premunt sanguinem, incertum an ignarae. nam, ut est vulgus ad deteriora promptum, non defuere qui crederent, donec implacabilem Neronem timuerit, famam sociatae cum marito mortis petivisse, deinde oblata mitiore spe blandimentis vitae evictam; cui addidit paucos postea annos, laudabili in maritum memoria et ore ac membris in eum pallorem albentibus, ut ostentui esset multum vitalis spiritus egestum. Seneca interim, durante tractu et lentitudine mortis, Statium Annaeum, diu sibi amicitiae fide et arte medicinae probatum, orat provisum pridem venenum, quo d[am]nati publico Atheniensium iudicio exstinguerentur, promeret; adlatumque hausit frustra, frigidus iam artus et cluso corpore adversum vim veneni. postremo stagnum calidae aquae introiit, respergens proximos servorum addita voce libare se liquorem illum Iovi liberatori. exim balneo inlatus et vapore eius exanimatus, sine ullo funeris sollemni crematur. ita codicillis praescripserat, cum etiam tum praedives et praepotens supremis suis consuleret.
La giovane moglie Paolina, che aveva volontariamente deciso di morire con il marito, fu invece salvata per ordine di Nerone negli ultimi istanti e serbò per alcuni anni nel suo pallore mortale il ricordo della morte di Seneca. Morte che avvenne in conformità agli ideali di imperturbabilità del saggio e di indifferenza della vita che il filosofo aveva sempre propugnato, riscattando in certo modo le precedenti incertezze della sua condotta morale, fondatamente o meno biasimate già dai contemporanei: egli dimostrò di saper dare la vita senza esitazione quando da egli non dipendesse la vita altrui.