Publilio Siro, il maggiore esponente del mimo a Roma assieme a Decimo Laberio, era un liberto originario della Siria, come ci informa il suo nome. Come città natale si è pensato ad Antiochia, ma non v’è certezza.
Non conosciamo la data di nascita, per la quale abbiamo un solo elemento che sia poco meno che vago. Secondo Macrobio, Cesare si sarebbe vendicato di Decimo Laberio, il celebre mimografo che non gli risparmiava aguzze frecciate, costringendolo già sessantenne a calcare le scene per confrontarsi con Publilio Siro. Per Laberio, cavaliere romano, recitare significava perdere il grado equestre; si trattò quindi di una profonda umiliazione, acuita dal fatto che, dopo aver dato la palma della vittoria a Siro, Cesare lo restituì al ceto equestre e gli fece dono di mezzo milione di sesterzi. Dal racconto comunque si evince che nel 46 – 45 a.C., quando cioè Laberio, nato intorno al 106 a.C., aveva sessant’anni, Publilio Siro fosse già affermato ma più giovane.
Non sappiamo quando, probabilmente in gioventù, Siro giunse in Italia e formò una compagnia teatrale per la quale scriveva i suoi testi. Oltre che essere archimimus, egli recitava personalmente nei mimi di cui era autore: con la sua compagnia girò tutta l’Italia, ma della sua opera ci restano solo un verso e mezzo (sic!) e due titoli per di più incerti: forse Mumurco, qualcosa come “Il brontolone”, e Putatores, “I potatori”. Per la verità, nel Satyricon di Petronio Trimalchione recita sedici senari giambici attribuendoli a Siro, ma l’autenticità è fortemente dubbia. Ci è giunta inoltre una antologia di sentenze tratte dai mimi di Siro, ma l’evidenza del rimaggiamento fa ritenere che ben poche delle massime lì raccolte risalgano realmente al mimografo.
Genere letterario e teatrale nato anch’esso in Grecia ove era già ben presente a cavallo tra il V e il IV secolo a.C., forma d’arte essenzialmente popolaresca, il mimo si affermò a Roma, sembra, nella seconda metà del II secolo a.C. in risposta alla crisi dei generi che avevano furoreggiato tra le generazioni precedenti, l’atellana e la togata. A questo proposito, una lettera di Cicerone a Papirio Peto del 46 a.C. (Epistulae ad familiares IX, 16, 7) testimonia il passaggio di consegne tra l’atellana e il mimo nella metà del I secolo a.C.: nunc venio ad iocationes tuas, quoniam ti… non, ut olim solebat, Atellanam, sed, ut nunc fit, mimum introduxisti. Probabilmente il cambiamento dei gusti del pubblico è da mettere anche in relazione con il rifiuto, in epoca cesariana, delle forme linguistiche arcaiche, che erano invece proprie del linguaggio dell’atellana (infatti la maggior parte dei frammenti i grammatici antichi ce li hanno conservati come testimonianze di arcaicità).
Poco sappiamo delle caratteristiche del mimo a Roma, anche se è facile e non fuori luogo ipotizzare marcate analogie con altri generi italici quali la stessa atellana e i fescennini, analogie che dovettero essere alla base del suo successo. Gli argomenti e i personaggi dovevano essere in fondo quelli delle commedie: amori contrastati, mariti traditi, schiavi furbi, etère. Inizialmente i mimi dovevano essere improvvisati dagli attori sulla scena in base alla trama, che era perciò una sorta di canovaccio, detto alla greca hypothesis, forzatamente più semplice di quello di una commedia. Anche quando divennero forma d’arte scritta, comunque, l’improvvisazione dovette rimanere una caratteristica peculiare del genere e anche le opere di Publilio Siro dovevano essere in qualche modo delle tracce sulle quali egli stesso, autore e attore, si sentiva libero di improvvisare. Anche per questo, il mimo non era certo fortemente tipizzato e ogni forma d’arte, la recitazione, la danza e il canto, poteva entrare a far parte della rappresentazione.
Altra caratteristica peculiare, nel senso che era propria solo di questo genere di rappresentazioni, era il fatto che gli attori non portavano né calzature particolari, come i cothurni della tragedia di derivazione greca e i socci della commedia (gli attori erano infatti detti planipedes, senza calzature rialzate, cioè), né soprattutto indossavano maschere. Quest’ultimo fatto è forse collegato al nome di mimus, che anche in latino identifica sia l’attore che la rappresentazione, radice che anche nel greco mimèomai è associata al concetto di “imitazione tramite atteggiamenti e gesti”. Conseguenza significativa è che nel mimo, al contrario degli altri generi, le parti femminili erano appannaggio di attrici, le mimae, le quali indossavano un corto mantello velato, il ricinium. Che la differenza non fosse di poco conto lo avevano ben presente gli spettatori, che fecero diventare ben presto consuetudine il terminare lo spettacolo richiedendo alle attrici la nudatio mimarum, niente di meno di uno spogliarello.
A Roma i mimi furono rappresentati particolarmente nei ludi florales, che si tenevano alla fine del mese di aprile; in seguito furono utilizzati anche come embolium, cioè intermezzo, o exodium, cioè rappresentazione d’uscita, in altri ludi. Col tempo, finirono con il degenerare verso forme lascive o addirittura crudelmente veriste.
I mimi e Publilio Siro in particolare ebbero grande popolarità presso la plebe durante il I secolo d.C. ma non raccolsero l’approvazione dei colti. Cicerone (Epistulae ad familiares XII, 18, 2) giudica una prova di coraggio ascoltare i versi di Laberio e Siro; e Orazio (Satirae I, 10, 5) aggiunge che non basta che un’opera faccia ridere gli spettatori, come i mimi di Laberio, perché possa considerarsi un’opera d’arte. Gellio giudica invece la lingua di Laberio troppo folta di volgarismi e neologismi. Comunque, la raccolta di massime di Siro fu ammirata sia nell’antichità che nel Medio Evo.