Il grido di dolore del mondo per la caduta dell’impero che gli aveva dato ordine e benessere è particolarmente commovente nel De reditu suo, il breve poemetto incompiuto di Claudio Rutilio Namaziano.
Namaziano era molto probabilmente originario di Tolosa, in Gallia, dove sembra che la sua famiglia possedesse estese proprietà terriere e dove fu educato agli studi classici. Ancora adolescente, seguì il padre in Italia, dove assunse l’incarico di governatore della Tuscia e dell’Umbria. Fece un fortunato cursus honorum nell’amministrazione imperiale fino a giungere nel 414 d.C. all’incarico di praefectus Urbis.
A termine della carica, in seguito alle invasioni dei Goti nelle Gallie, decide di affrontare il viaggio di ritorno in patria per constatare di persona la situazione e forse riprendere le redini delle proprietà di famiglia. Il De reditu suo è appunto il racconto, in distici elegiaci sul fortunato genere degli itinera, del suo ritorno in Gallia.
Il viaggio inizia ad Ostia il 14 novembre del 415 d.C., dunque in prossimità dell’inizio del periodo poco propizio alle navigazioni: anche per questo le imbarcazioni rimangono sempre in vista della costa percorrendo in media poco più di trenta miglia al giorno. La descrizione geografica del tratto tirrenico costeggiato nella navigazione è proprio l’oggetto del libello: ma dopo le prime otto tappe – la prima da Porto a Centumcellae, la seconda fino a Porto Ercole, la terza fino alla foce dell’Ombrone, la quarta fino a Falesia, oggi Piombino, la quinta fino a Populonia, la sesta fino a Vada Volterrana, la settima fino a Porto Pisano, l’ottava fino a Luni in provincia di Carrara dove arriva ai primi di dicembre – la narrazione si interrompe improvvvisamente al verso 68 del secondo libro (il primo libro ne comprende ben 644).
Non si sa perché Namaziano abbia interrotto la narrazione, che nelle intenzioni iniziali doveva verosimilmente accompagnare il lettore fino all’arrivo o almeno fino al termine della navigazione, che doveva essere probabilmente a Massalia, oggi Marsiglia. Forse il poeta morì improvvisamente durante il viaggio (che, tenendo conto anche dei tempi e delle invasioni barbariche, non doveva essere completamente sicuro; e se in un naufragio oltre alla vita sarebbe andato perduto tutto il poemetto, l’assalto di una tribù barbara nella Gallia devastata dai Goti poteva forse risparmiare non la vita ma almeno lo scritto); forse la lacuna è dovuta alla tradizione manoscritta; o forse, più semplicemente, il poeta stesso non volle portarlo a termine. Nell’incertezza tutte le ipotesi sono in fondo accettabili.
La descrizione geografica è solo uno spunto: ogni paesaggio, ogni luogo, ogni città è nel racconto il pretesto per riflettere sul destino degli uomini, per sfogare l’incredula amarezza di chi assiste alla fine del mondo. Un mondo al quale l’alto funzionario romano non trova alternative se non quella distruzione e quella barbarie che del resto erano dolorosamente sotto i suoi occhi nel suo viaggio, nella Roma violata e devastata per la prima volta quattro anni prima dai Goti di Alarico e anche in patria.
Il racconto inizia proprio con una struggente ode alla Città Eterna:
Exaudi, regina tui pulcherrima mundi,
inter sidereos Roma recepta polos!
Exaudi, genitrix hominum genitrixque deorum,
non procul a caelo per tua templa sumus.
Te canimus semperque, sinent dum fata, canemus:
sospes nemo potest immemor esse tui.
Obruerint citius scelerata oblivia solem
quam tuum ex nostro corde recedat honos.
Nam solis radiis aequalia munera tendis,
qua circumfusus fluctuat Oceanus.
Volvitur ipse tibi qui continet omnia Phoebus
eque tuis ortos in tua condit equos.
Te non flammigeris Libye tardavit harenis,
non armata suo reppulit Ursa gelu.
Quantum vitalis natura tetendit in axes,
tantum virtuti pervia terra tuae.
Fecisti patriam diversis gentibus unam;
profuit iniustis te dominante capi.
Dumque offers victis proprii consortia iuris,
urbem fecisti quod prius orbis erat.
Anche per Namaziano, come per tutti gli scrittori pagani del IV e V secolo d.C., Roma maestra di civiltà è eterna. Ma la caducità delle cose umane è sotto i suoi occhi: ad esempio il passare davanti a Populonia, porto già etrusco e un tempo attivissimo, ma oggi abbandonato, fa venire alla mente il fantasma di una città morta.
Namaziano non è cristiano, fa parte dei resistenti del paganesimo. Così, ad esempio, quando passa davanti all’isola di Capraia occupata solo da monaci eremiti li attacca dicendo che squalet lucifugis insula plena viris. Ma è la Roma pagana a crollare nel clamore e nel dolore del mondo; la Roma cristiana sorge intatta in mezzo alle gloriose rovine. In un certo senso, gli scrittori pagani avevano ragione nel protestare fino all’ultimo istante l’eternità di Roma.