La fonte più qualificata per una biografia di Publio Ovidio Nasone è Ovidio stesso attraverso l’autobiografia che ci ha lasciato con l’elegia IV, 10 dei Tristia.
Nacque a Sulmona nel 43 a.C., l’anno della battaglia di Modena, lo scontro più importante tra Ottaviano e Antonio prima del loro accordo e della nascita del secondo triumvirato. Aveva un fratello di un anno più vecchio, con il quale fu avviato alla frequenza delle lezioni dei maestri più insigni del tempo, Marco Arellio Fusco e Marco Porcio Latrone. Il padre desiderava avviarli entrambi alla lucrosa carriera forense, ma mentre il fratello mostrava interesse e attitudine per l’eloquenza, Ovidio fu attirato fin da bambino dalla poesia.
Compì un viaggio di studio in Grecia e in oriente, visitò l’Asia e la Sicilia, frequentò il circolo di Messalla Corvino e non fu estraneo in quello di Mecenate.
Quando aveva vent’anni gli morì il fratello, al quale era profondamente legato. Fece parte dei triumviri capitali, ma ben presto si allontanò da qualsiasi carriera pubblica. Dice di essere stato amico di Properzio, di aver ascoltato Orazio, di aver conosciuto Virgilio solo di vista, di non aver potuto diventare amico di Tibullo per la morte che lo colse precoce. Nell’elegia si pone al quarto posto dopo Cornelio Gallo, Tibullo e Properzio.
Lesse i primi carmi in pubblico quando era poco più che adolescente, ispirati ad una donna cantata sotto il finto nome di Corinna. Ed in seguito scrisse molto, nonostante la “censura delle fiamme” cui sottopose le parti difettose della sua produzione. Anche al momento dell’esilio ricorda di aver bruciato versi non perché fossero brutti ma perché irato con se stesso e la sua passione per la poesia, che sembra fosse una delle cause dell’esilio.
Nell’8 d.C., infatti, fu colpito da un decreto di Augusto che lo relegò a Tomi, oggi Costanza, sul mar Nero. Incerti sono i motivi dell’esilio, anche per la reticenza di Ovidio. Secondo la sua testimonianza furono due i capi di accusa: carmen et error, ma aggiunge che sull’error è costretto a tacere. Non che l’accenno al carmen sia più illuminante, ma certo la politica di Augusto, tesa a restaurare i valori familiari e della tradizione etica e religiosa romana, cozzava con la malizia e la lascività delle opere di carattere amoroso di Ovidio. L’error rimane invece nel campo delle pure ipotesi: forse di aver visto, poichè il poeta si rimprovera di aver avuto occhi, la colpa di un membro della famiglia imperiale; forse, più probabilmente, si tratta di un colpa da lui commessa.
Nel piccolo villaggio barbaro dal clima inclemente, dove nessuno parlava latino o greco, era costretto a farsi capire a gesti. Rari i viaggiatori dall’Italia, dalla sua patria. Unico conforto, la fedeltà della terza moglie, una Fabia, che aveva accettato di essere la moglie di un esule, anche se non aveva potuto seguirlo laggiù; conforto singolare per un esteta dell’ineluttabilità del peccato come lui. Una figlia lo rese due volte nonno, ma non da un unico marito.
Così Ovidio visse là, sempre vagheggiando il ritorno, sempre sperando in un provvedimento di clemenza prima da parte di Augusto, dopo da parte di Germanico, fino alla morte, avvenuta secondo san Girolamo nel 17 d.C. (ma altri la spostano al 18 d.C.).
L’attività poetica di Ovidio si svolge in tre periodi, scanditi in qualche modo dagli eventi della sua vita: il primo, cosiddetto della giovinezza, arriva fin verso il 2 d.C.; il secondo, detto della maturità, termina con l’esilio, che caratterizza il terzo periodo, fino alla morte.
Le opere erotiche della giovinezza
Al primo periodo appartengono le opere di carattere erotico: Amores, Heroides, Ars amatoria, Remedia amoris, De medicamine faciei, tutte in distici elegiaci.
Ovido stesso scrive che gli Amores cantano una donna da lui amata sotto il finto nome di Corinna. E in un epigramma premesso al primo libro aggiunge che l’edizione che possediamo, in tre libri, è una seconda stesura, mentre la prima edizione era originariamente in cinque libri. Per motivi a noi ignoti, che hanno con ogni probabilità a che fare con l’insoddisfazione per la riuscita dei versi tagliati cui accenna nella elegia autobiografica, operò la riduzione. Non si conosce l’anno in cui furono composti, ma il periodo è sta ridotto agli anni tra il 23 e il 14 a.C. circa.
Al medesimo periodo appartiene il nucleo originario delle Heroides. Si tratta di una raccolta di ventuno lettere scritte dalle eroine del titolo ai loro amati. Per la verità, solo le prime quindici sono “singole”, poichè le ultime sei sono coppie di lettere costituite da una lettera dell’amato e la risposta dell’amata (nella 16 Paride scrive a Elena, che risponde nella 17; la 18 da Leandro a Ero, la 19 da Ero a Leandro; la 20 da Aconzio a Cidippe, la 21 da Cidippe ad Aconzio).
Non si conosce il motivo che ha spinto Ovidio a comporre le coppie di epistole; è stato ipotizzato che a ciò sia stato indotto dal un certo Sabino, il quale, come ci informa Ovidio stesso negli Amores (II, 18), compose le risposte a talune delle prime quindici epistole (quella di Ulisse a Penelope, l’eroina della prima epistola; quella di Ippolito a Fedra, l’eroina della quarta epistola; quella di Enea a Didone, l’eroina della settima epistola). Le composizioni di Sabino non ci sono giunte, ma una sostanziale concordia nella critica ha raggiunto l’ipotesi che Ovidio abbia colto l’idea di Sabino e l’abbia posta in pratica aggiungendo le ultime tre coppie di epistole, composte all’epoca delle Metamorfosi, alla raccolta originaria.
L’autenticità della quindicesima epistola, che secondo l’ipotesi precedente sarebbe stata l’ultima per qualche tempo, è stata variamente contestata perchè scritta a nome di Saffo (indirizzata a Faone), che non è una eroina. Tuttavia, l’analisi ne ha mostrato l’appartenenza a Ovidio, e peraltro è da notare che il titolo attribuito dal poeta all’opera sembra essere quello generico di Epistulae, e Liber epistularum è anche il titolo che ricorre nei manoscritti assieme a quello di Liber heroidum; quest’ultimo è apparso forse dopo la pubblicazione delle Epistulae ex Ponto onde evitare confusioni.
Tanto gli Amores quanto le Heroides sono state giudicate opere fredde, risultati di esercitazioni scolastiche, mentre l’analisi ne ha messo a nudo lo sfruttamento di luoghi comuni. In effetti, l’elegia latina cambia in Ovidio. Negli Amores, in cui pure il poeta parla in prima persona di sè e del suo amore, l’interesse non è più esclusivamente rivolto a se stesso, come in Tibullo e in Properzio, ma compare un secondo pilastro: l’approfondimento della psicologia e dei sentimenti della donna. E se le Heroides sono opera fondamentalmente impersonale, Ovidio scruta ancor più in profondità nell’animo femminile. Certo, il luogo comune esiste – forse è il retaggio dell’educazione retorica del poeta, come la sua espressività sovrabbondante – ma non esiste mai da solo nè è sfruttato di per sé – cosa che sarebbe il presupposto della povertà di idee e di sentimenti –, è invece il pretesto, il supporto per la sensibilità originale e l’arguzia sottile di Ovidio.
Come annunzia il titolo, l’Ars amatoria è un’opera di didattica amorosa, un susseguirsi di precetti dedicati a chi non sa e vuol amare. Nel titolo è forse da scorgere una eco delle tante “Ars oratoria” che dovevano aver fatto parte dell’educazione di Ovidio; paraltro, il poeta si riferisce a quest’opera chiamandola Ars amandi o semplicemente Ars. Dei tre libri di cui l’opera ci appare composta, il primo insegna agli uomini come trovare l’amore, il secondo come conservarlo; il terzo libro è invece dedicato alle Amazzoni, perchè possano combattere ad armi pari con l’uomo, ovvero alle donne, per insegnare ad irretire gli uomini.
Il fatto che parlando di ciò che si accinge ad esporre il poeta non accenni a questa estenzione indirizzata alle donne fa pensare che il terzo libro sia stato aggiunto in un secondo tempo, confermando l’attenzione alla donna che abbiamo messo in luce. Il fatto notevole dell’Ars è che qui Ovidio, il poeta sovrabbondante per eccellenza, si è fatto conciso e lapidario, sentenzioso e, appunto, didattico. Si consideri il celebre brano, perla d’ironia e di arguzia ovidiana, che segue (libro II vv.197 e segg.):
Cede repugnanti: cedendo victor abibis; / fac modo, quas partes illa iubebit, agas.
Arguet: arguito; quicquid probat illa, probato; / quod dicet, dicas; quod negat illa, neges.
Riserit, adride; si flebit, flere memento: / imponat leges vultibus illa tuis.
Conseguenza quasi naturale dell’Ars amatoria sono i Remedia amoris, consigli rivolti agli innamorati delusi e provati dall’amarezza e dalla nostalgia. Il poeta ammette di aver trovato efficace rimedio al suo mal d’amore quello di considerare i difetti fisici della donna amata senza farsi scrupolo, in mancanza di veri difetti, di inventarli. Accanto a questa classica cura, talvolta utile ma in verità non poco ingenerosa, Ovidio rporta elementi di psicologia sempre validi: come quando consiglia di evitare la solitudine e di distrarsi. L’opera è costituita da un unico libro di 814 versi.
Ancora un epigono dell’Ars, con lo stesso tono precettistico, è da considerarsi il De medicamine faciei, un breve poemetto in 50 distici nel quale Ovidio indica alle donne le cure cosmetiche con le quali esse possono farsi più belle e mantenere più a lungo la loro bellezza. L’opera ha un interesse in più per gli studiosi del costume.
Le opere della maturità
Al secondo periodo appartengono i Metamorphoseon libri o Metamorfosi, in esametri, metro probabilmente sentito come più adatto di quello elegiaco al tono di epopea, e i Fasti, con i quali torna al distico elegiaco.
Nei Metamorphoseon libri sono cantate circa 250 metamorfosi. Il poema, in quindici libri, inizia con la descrizione del Caos e termina con l’apoteosi di Giulio Cesare. Si tratta di un’opera incompiuta, e il pensiero delle imperfezioni che non poteva più emendare fu uno dei crucci che resero più amaro l’esilio di Ovidio.
Pure incompiuti sono i Fasti, opera che prende il nome dall’intento del poeta di illustrare poeticamente il “nuovo” calendario romano voluto da Giulio Cesare. Le spiegazioni fornite dal poeta di feste e riti, tradizioni e leggende sono, come spesso accadde anche agli eruditi latini, completamente errate quando non ingenue, ma il calendario è in fondo solo uno spunto alla narrazione, che si rivela particolarmente fecondo a contatto con un ingegno vivace come quello di Ovidio. Mai come nei Fasti Ovidio concede spazio alla digressione, si potrebbe anzi dire, data la struttura della narrazione, che tutto il racconto è digressione.
I Fasti, dedicati ad Augusto, dovevano comprendere dodici libri, uno per ogni mese dell’anno, ma furono composti solo i primi sei, da gennaio a giugno, perchè l’opera fu interrotta dalla condanna all’esilio. Forse anche per questa concomitanza, Ovidio abbandonò l’opera fino alla morte di Augusto, quando decise di riprenderla sostituendo la dedica ad Augusto con una a Germanico, nell’ennesimo tentativo di strappare il perdono.
Tuttavia, la rielaborazione rimase probabilmente confinata al primo libro perché sopraggiunse la morte del poeta. Il testo che possediamo, infatti, fu pubblicato postumo e comprende le due dediche, quella a Germanico all’inizio del primo libro e quella ad Augusto spostata all’inizio del secondo libro. Nel primo libro, inoltre, si parla di Augusto come morto e si trovano accenni che possono essere stati scritti solo nel periodo di Tomi.
Le opere dell’esilio
Al periodo dell’esilio appartengono i Tristia, le Epistulae ex Ponto, l’Ibis, tutte in distici elegiaci, e la Halieutica, in esametri. Circola in queste opere il motivo dell’adulazione, prima ad Augusto, poi a Germanico, nella speranza che il provvedimento a suo carico sia revocato.
Il nucleo del primo libro dei Tristia è stato scritto durante il viaggio verso Tomi (8 – 9 d.C.). Si tratta di nove elegie, che sono state poi completate con un prologo e un epilogo. Il secondo libro è costituito da una sola, lunga elegia in forma di lettera indirizzata ad Augusto, una autodifesa di ben 578 versi, che giunse a Roma nell’estate del 9 d.C. I restanti tre libri dei Tristia furono scritti negli anni fino al 12 d.C.
Si può ben ritenere assai indicato il nome di Tristia, un’opera nella quale circola un senso di oppressione determinato dal raffronto tra la situazione felice del passato e la costrizione presente, dall’insofferenza per gli avvenimenti, dall’avversione per il luogo in cui è stato relegato, attorniato da popolazioni barbare che sono insidiate da altri barbari, ben diverso dall’Italia, in cui si vive nella sicurezza che viene dall’impero e il clima è clemente.
A seguire Ovidio scrisse le Epistulae ex Ponto, elegie in forma di lettera che prendono il nome dal fatto che, a differenza dei Tristia, vi è chiaramente indicato il destinatario. I primi tre libri furono pubblicati già alla fine del 13 d.C., il quarto libro, composto tra il 13 e il 16 d.C., fu pubblicato postumo.
Col passare del tempo, la sofferenza del poeta aumenta e si rinnova sempre più cruda. Nelle Epistulae ex Ponto si accentua il tono di preghiera, ma si accompagna alla vergogna per tanta vana insistenza. I lampi poetici sono ridotti al minimo e cedono il posto ai sentimenti che il poeta sciorina senza ornamenti e senza orpelli puntando direttamente al cuore. È l’ultima fase della parabola ovidiana, meno poetica e più psicologica, e forse proprio per questo assume un fascino e un interesse particolari.
L’Ibis è un poemetto di 642 versi appartenente al genere della poesia imprecatoria: Ovidio attacca una persona, forse un conoscente o un amico di cui non è detto il nome, che in patria lo calunniava, insidiava la moglie e puntava ai suoi beni. La sofferenza dell’esilio cui è sottoposto insieme al dolore per una infedeltà così vile dànno la stura ad una lunga serie di crude e violente maledizioni.
La Halieutica è un poemetto sui pesci del Mar Nero, rimasto incompleto. Secondo Plinio il vecchio, Ovidio l’avrebbe iniziato sulle rive del Ponto Eusino poco prima di morire. Noi ne possediamo un ampio frammento di 134 esametri, lacunoso.
Frammenti e opere spurie
Dei Phaenomena, un peoma astronomico, possediamo solo cinque esametri, e due soli versi, uno conservatoci da Quintiliano e l’altro da Seneca padre, della tragedia Medea. Sappiamo che era destinata alla lettura, non alla scena, e che fu molto lodata dagli antichi.
Abbiamo ancora notizia di altre opere delle quali non ci resta nulla: una Gigantomachia, un poema su Augusto scritto nella lingua dei Geti.
Spurio è ritenuto il breve poemetto Liber nucis, in 91 distici: un albero di noce si lamenta delle sassate che gli tirano i passanti per far cadere i suoi frutti. Certamente non di Ovidio è la Consolatio ad Liviam, in distici elegiaci, indirizzata a Livia, moglie di Augusto, per la morte del figlio Druso avvenuta nel 9 a.C.