Gnaeus Naevius

Alcune citazioni, soprattutto nei soliti Gellio e san Girolamo, con qualche altro, e scarne notizie autobiografiche scampate al giudizio del tempo sono le nostre fonti riguardo Gneo Nevio, il primo grande poeta romano. Era infatti cittadino romano, anche se nato molto probabilmente in Campania, come sembra potersi ricavare da Gellio quando riporta l’orgoglioso epigramma funebre di Nevio in verso saturnio (Noctes Atticae I, 24):

[24] Tria epigrammata trium veterum poetarum, Naevii, Plauti, Pacuvii, quae facta ab ipsis sepulcris eorum incisa sunt.

Trium poetarum inlustrium epigrammata, Cn. Naevii, Plauti, M. Pacuvii, quae ipsi fecerunt et incidenda sepulcro suo reliquerunt, nobilitatis eorum gratia et venustatis scribenda in his commentariis esse duxi. Epigramma Naevi plenum superbiae Campanae, quod testimonium iustum esse potuisset, nisi ab ipso dictum esset:

inmortales mortales si foret fas flere
fierent divae Camenae Naevium poetam
itaque postquam est Orcho traditus thesauro
obliti sunt Romae loquier lingua Latina

[…]

La circostanza che l’epigramma sia stato effettivamente dettato da Nevio stesso è oggi comunemente messa in discussione, tuttavia il fatto che sia definito plenum superbiae Campanae sembra indicare implicitamente che Gellio sapesse che quella era la patria del poeta. D’altra parte l’origine italica trova riscontro nello spirito mordace che serpeggia nei residui frammenti dell’opera neviana e che così bene si accorda con le altre notizie che lo riguardano; e non inverosimile, benché su troppo labili elementi forzatamente fondato, appare l’accostamento del frizzo salace delle sue commedie con l’atellana, il genere di rappresentazione comica fiorito a Roma qualche decennio prima di Nevio, originario, sembra, della città osca di Atella in Campania e caratterizzato appunto da uno stile satirico e farsesco.

L’anno di nascita del poeta non è noto, anche se, in base alle altre notizie della vita di Nevio, si assume comunemente che sia nato attorno al 270 a.C. Si colloca dunque nel periodo tra Livio Andronico, del quale è più giovane, ed Ennio e Plauto, dei quali è precedente. Anche la sua produzione letteraria lo colloca in posizione intermedia, da un lato come continuatore della nascente letteratura teatrale iniziata da Andronico e poi portata ancora avanti da Plauto, e dall’altro iniziatore della poesia epica ripresa poi da Ennio.

Ai fini della determinazione dell’anno di nascita, una notizia data da Nevio stesso nel Bellum Poenicum è che egli partecipò alla prima guerra punica (combattuta dal 264 al 241 a.C.) come soldato. Una data significativa è poi quella del 235 a.C. riportata da Gellio (Noctes Atticae XVII, 21) come anno della rappresentazione in Roma di sue fabulae:

[21] […] eodemque anno [519 a.U.c. sive 235 a.Chr.n.] Cn.
Naevius poeta fabulas apud populum dedit, quem M. Varro in libro de poetis
primo stipendia fecisse ait bello Poenico primo idque ipsum Naevium dicere
in eo carmine, quod de eodem bello scripsit.

Nevio fu amico di Scipione Africano, del quale il poeta potè permettersi di ricordare in una commedia, in modo forse un po’ irriverente nei confronti del grande eroe, certi trascorsi giovanili:

etiam qui res magnas manu saepe gessit gloriosae
cuius facta viva nunc vigent, qui apud gentes solus praestat,
eum suus pater cum pallio unod ab amica abduxit

Da Plauto, nel prologo del Miles gloriosus, sappiamo che Nevio fu messo in prigione a Roma; notizia confermata ancora da Gellio (Noctes Atticae III, 3), il quale aggiunge che in prigionia Nevio compose le commedie Leon e Hariolus, con le quali cercò di riabilitarsi dall’impudenza che in carcere l’aveva condotto:

[3] […] Sicuti de Naevio quoque accepimus fabulas eum in carcere duas scripsisse, Hariolum et Leontem, cum ob assiduam maledicentiam et probra in principes civitatis de Graecorum poetarum more dicta in vincula Romae a triumviris coniectus esset. Unde post a tribunis plebis exemptus est, cum in his, quas supra dixi, fabulis delicta sua et petulantias dictorum, quibus multos ante laeserat, diluisset.

Fatale, in particolare, gli sarebbe stata l’inimicizia della potente famiglia patrizia dei Metelli, che egli si sarebbe peraltro procurata per l’incapacità di tenere a freno la lingua quando si trattava di colpire gli ottimati. Come, infatti, lo spirito italico è uno dei pilastri dell’identità neviana, un altro è la sua nascita plebea. Le due cose insieme lo resero sempre ferocemente ostile alla nobiltà, e l’astio unito alla libertà di spirito e di parola gli procurarono contrasti e fastidi e lo esposero alle rappresaglie dei patrizi che Gellio cita quali cause della sua incarcerazione. Lo scontro con i Metelli è oggi dato per certo, come è confermato dai due celebri versi riportati dal grammatico Asconio (I secolo d.C.) nel proprio commento delle Actiones contra Verrem di Cicerone (I, 10). Nevio avrebbe composto questo maligno senario: fato Metelli Romae fiunt consules, nel quale la parola fato era usata nel suo doppio senso di ‘destino’ e di ‘sventura’. E i Metelli avrebbero risposto manifestando senza possibilità di dubbio le loro intenzioni con questo saturnio: dabunt malum Metelli Naevio poetae, riuscendo poi a dare corso alla minaccia facendolo imprigionare; tuttavia, la tradizione non ci ha tramandato il motivo che essi addussero.

Poiché un Metello fu console nel 206 a.C., si suole ammettere che Nevio fu incarcerato in quell’anno. E forse la riabilitazione cui fa cenno Gellio, almeno parzialmente, gli riuscì, poiché, come riferisce san Girolamo (Chronicon nelle note all’anno 201 a.C.: Naevius comicus Uticae moritur pulsus Roma factione nobilium ac praecipue Metellis), Nevio non rimase in prigione ma morì in esilio a Utica in Africa nel 201 a.C. Cercando di interpretare la stringatezza del santo, croce e delizia di tanti storici, egli afferma, in verità, che Nevio fu pulsus Roma, cioè esiliato a forza dal partito dei nobili, ma la circostanza che da poco in Africa Scipione, che, si è detto, di Nevio era amico, avesse trionfato su Annibale nei pressi di Zama e che allora egli esercitasse su Cartagine una sorta di dominio personale ha fatto pensare non a un esilio forzato magari come commutazione della pena della prigione ma piuttosto ad un allontanamento volontario per porsi sotto l’amichevole protezione del grande generale. Rimane da osservare che Cicerone pose la morte di Nevio nel 204 a.C., aggiungendo però che Varrone la metteva invece qualche anno più tardi.

Se Andronico è considerato l’iniziatore della letteratura latina, e tale fu sentito già dagli antichi, Nevio ne è certamente il primo vero campione nazionale, colui che riesce a conquistare spazi di autonomia dagli originali greci, ad inventare nuovi generi o riambientare in lingua latina generi esistenti, a portare nella poesia e sulla scena i grandi fatti della nazione romana in luogo della rielaborazione dei fatti lontani, nel tempo e nello spazio, della nazione greca. E le esigenze dell’orgoglio nazionale lo resero il primo innovatore della letteratura latina. Nevio è infatti commediografo e tragediografo, e la tradizione lo accredita di essere stato il primo a portare commedie e tragedie in ambiente romano, nonché poeta epico, e il suo è il primo èpos che nasce dalla storia romana. Ma l’orgoglio nazionale non è che il riflesso letterario del suo spirito personale che, l’abbiamo già osservato, si manifesta nell’esibizione di ogni cosa che lo caratterizza e nella commozione per ciò che egli è: la nascita plebea, ad esempio, e la sua lingua sciolta e libera, come – perché no? anche oggi il semplice servizio di leva è un argomento che inorgoglisce i giovani – la vita e l’etica militari.

Del Nevio commediografo ci rimangono trentadue titoli di palliate e numerosi versi sparsi, anche se probabilmente non tutti autentici. Dei titoli superstiti, alcuni sono di forma greca, come Agrypnuntes, o "Gli insonni", e Colax, o "L’adulatore", e altri di forma latina, come Corollaria, o "La fioraia", e Figulus, o "Il vasaio". Le sue origini campane si esaltano nel sapore mordace e buffonesco delle commedie, nella vivace caratterizzazione dei personaggi, come quella della civettuola donna originaria di Taranto al centro di un frammento appunto della Tarentilla:

Quasi pila
in choro ludens datatim dat se et communem facit.
Alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet.
Alibi manus est occupata, alii pervellit pedem,
anulum dat alii spectandum, a labris alium invocat,
cum alio cantat, adtamen alii suo dat digito litteras.

Il gusto dei fescennini, della satura e dell’atellana è il mezzo a lui più congeniale per attaccare la nobiltà, mettendola in ridicolo, soprattutto nella commedia, e per riaffermare, per la verità anche qualche volta di troppo, sembra, e forse con qualche mancanza di misura, la sua indipendenza e la sua libertà. Come nel frammento di incerta origine (e si noti, per inciso, l’allitterazione): libera lingua loquemur ludis Liberalibus o in modo ancor più evidente in questo verso della Agitatoria: ego semper pluris feci potioremque habui libertatem multo quam pecuniam.

Secondo un celebre passo del prologo dell’Andria di Terenzio, Nevio avrebbe fatto uso della contaminatio, cioè avrebbe attinto, nel volgere le commedie dal greco in latino, in varia misura a diversi originali greci aggiungendo ad un canovaccio principale scene e personaggi derivati da altre rappresentazioni:

[…] Id isti vituperant factum atque in eo disputant
contaminari non decere fabulas.
Faciuntne intellegendo ut nil intellegant?
Qui quom hunc accusant, Naevium Plautum Ennium
accusant quos hic noster auctores habet,
quorum aemulari exoptat neglegentiam
potius quam istorum obscuram diligentiam. […]

L’uso della contaminazione da un lato mostra una certa dipendenza dai testi presi a modello, dall’altro suggerisce che Nevio avrebbe cercato di conseguire una maggiore libertà di rielaborazione del materiale originale. In accordo con la personale indipendenza neviana è anche la notizia che egli sarebbe stato l’inventore della togata, cioè della commedia di ambientazione romana (da toga, la veste romana, contrapposta al pallium, il mantello, corrispondente all’himàtion greco, indossato dagli attori delle commedie di ambientazione greca, da cui palliata). Peraltro, a questa notizia mancano conferme e gli si presta oggi poca fede.

Ma Nevio fu anche tragediografo, e ci rimangono i titoli di sei fabulae cothurnatae (più una incerta), cioè tragedie il cui soggetto era di origine greca (da cothurnus, in greco kòthornos, la speciale calzatura greca usata dagli attori per alzare la statura), e qualche decina di versi. Dai titoli (Aesiona, Andromacha, che è incerta, Danae, Equos Troianus, Hector proficiscens, Iphigenia, Lycurgus) si evince che anche Nevio, come Andronico, nella tragedia predilige il ciclo troiano e il teatro di Euripide. E come in Andronico, che rappresentava il predecessore da emulare e superare, nei versi di Nevio si preferiscono i calchi, cioè neologismi latini foggiati ricalcando i corrispondenti greci, ai grecismi, cioè alle parole portate di peso dal greco in latino cambiandone semplicemente l’alfabeto; benché i grecismi non siano assenti, forse limitatamente ai termini ‘tecnici’.

Come nella commedia, anche nella tragedia Nevio è ricordato per essere stato il primo ad introdurre l’ambientazione romana con l’invenzione della praetexta o praetextata (che prendeva il nome dalla toga praetexta, la toga orlata di porpora caratteristica dei magistrati romani indossata dagli attori sulla scena). Peraltro, mentre l’invenzione della togata è posta in dubbio, e a questi dubbi si è fatto cenno, si ritiene oggi concordemente che la praetexta sia effettivamente una originale invenzione neviana. In accordo con questo, sembra che la prima praetexta sia stata quella dal titolo Clastidium, nella quale veniva celebrata la vittoria del console Marco Claudio Marcello sui Galli Insubri appunto a Clastidium (oggi, dal toponimo antico, Casteggio, in provincia di Pavia) nel 222 a.C. e l’uccisione del comandate gallo Viridomaro per mano dello stesso console; la rappresentazione avrebbe avuto luogo proprio in occasione del trionfo riservato a Marcello (secondo altri, invece, si sarebbe tenuta in occasione della celebrazione del funerale del console, nel 208 a.C.). L’unico altro titolo certo delle praetextae neviane è Romulus, evidentemente incentrata sul fondatore di Roma (ma ne rimangono solo due parole). Inoltre, un frammento citato da Festo come appartenente a un’opera dal titolo Lupus, essendo relativo a un colloquio tra il re di Veio e Amulio, ha fatto pensare che si tratti di un’altra tragedia di argomento romano, sempre che non coincida col Romulus (ma secondo altri, sarebbe addirittura una commedia togata). Le praetextae non sono un genere molto fortunato, peraltro, se è vero che l’unica giunta fino a noi è la molto più tarda Octavia di Seneca (peraltro non da tutti accettata come autentica).

Ma la maggiore innovazione di Nevio, e forse la sua maggiore impresa poetica, è il Bellum Poenicum, atto d’inizio dell’epica romana, del quale però, benché fosse assai apprezzato dagli antichi – tanto che Cicerone lo paragonò a un’opera di Mirone -, ci rimangono pochi frammenti. Il Bellum Poenicum cantava la gloria della prestigiosa vittoria nella prima guerra punica, alla quale, come s’è detto, Nevio stesso aveva preso parte. L’opera fu composta da Nevio nella sua vecchiaia, dunque durante la seconda guerra punica, forse proprio negli anni più difficili, quando occorreva raccogliere tutte le forze per superare Annibale, il favoloso avversario che aveva portato la guerra in Italia dentro i confini dei domini e del controllo romani rimanendoci per tanti lunghi anni. È suggestivo, e probabilmente veritiero, pensare che Nevio abbia cantato la gloria passata, ma ancora viva nelle menti e nei cuori, per incitare all’unione e alla riscossa i suoi concittadini.

Per il suo scopo, Nevio si rifà all’epica greca, ma per cantare, a differenza di quello (è ancora una volta originale), una gloria recente, con lo stesso principio con cui aveva adattato la tragedia al fatto (d’armi) di storia romana recente con la praetexta. Tuttavia, anche in questo caso Nevio cerca una mediazione con la tradizione: non si distacca radicalmente da Omero, ma cerca in un certo senso la fusione dell’Iliade con l’Odissea, col cantare prima le peregrinazioni di Enea da Troia caduta al Lazio e il suo sfortunato amore con Didone, che è visto come causa della discordia delle due grandi avversarie, per arrivare poi al tema centrale della prima guerra punica. Nevio aveva composto il Bellum Poenicum come opera unica o carmen continuum; fu il grammatico Ottavio Lampadione che nel II secolo a.C. lo divise in sette libri, i primi due dei quali sembra fossero dedicati proprio alla leggenda di Enea, mentre la narrazione vera e propria sarebbe iniziata con il terzo.

La fortuna del Bellum Poenicum è stata, nell’antichità, ininterrotta e quasi senza eccezioni. Se non possiamo darne un giudizio moderno per la scarsità dei frammenti, il fatto che alcuni di questi siano certamente collegati a brani dell’Eneide di Virgilio, tanto che non è sbagliato dire che Nevio, assieme ad Ennio, è stato certamente molto presente al cantore della grandezza romana, rende ragione di una vena poetica sicura, nonostante dai versi residui sembri che non sia sfuggito del tutto al principale pericolo insito nella scelta di un argomento così vicino nel tempo, di scivolare cioè dal fascino antico del carme leggendario alla brutale immediatezza della cronaca in versi. Cicerone, mentre criticava la legnosità della lingua di Andronico, paragonava il Bellum Poenicum a una statua di Mirone (Brutus 75). Frontone, nel clima generale di recupero di tutto ciò che era arcaico caratteristico del II secolo d.C., ne lodava l’abilità stilistica e lessicale. Il solo Orazio, nel suo rifiuto della poesia arcaica (che forse gli derivava dai metodi di insegnamento un poco rigidi che i suoi maestri, quali il plagosus Orbilius, avevano usato), si stupiva che il vetus carmen di Nevio fosse ancora letto e apprezzato.

Il metro usato per il Bellum Poenicum è ancora il saturnio, caro alla tradizione latina e già utilizzato da Andronico per la sua Odusia. Caratteristica di tutta la produzione di Nevio, e del Bellum Poenicum in particolare, è l’uso di arcaismi, come il genitivo in ‘-as’ e l’ablativo in ‘-ad’, certo alla sua epoca non dimenticati, ma già in disuso. Come nella produzione teatrale, l’esigenza di distacco dai modelli greci e la consapevolezza di voler creare una letteratura che fosse davvero latina e non solo in latino spinge Nevio a rifiutare le traslitterazioni di parole greche, preferendogli, ove necessario, il calco latino modellato sulla radice greca.

Questi effetti linguistici e stilistici sono meno evidenti nella produzione teatrale (del resto una considerazione analoga vale anche per Andronico tra l’Odusia e le tragedie). Tuttavia, anche i drammi neviani hanno conosciuto la medesima fortuna del Bellum Poenicum, se è vero che si riscontrano corrispondenze sia linguistiche che stilistiche tra i frammenti neviani e le commedie plautine e soprattutto se è vera la notizia che il teatro di Pompeo, il primo teatro in muratura a Roma, fu inaugurato quasi due secoli dopo Nevio, nel 55 a.C., con la rappresentazione del suo Equos Troianus.

Sappiamo da Festo che Nevio esercitò il suo ingegno salace anche nel genere romano per eccellenza, la satira, ma tutto quello che ci è conservato è proprio l’unico verso citato da Festo nel De verborum significatione. La notizia può essere comunque interpretata come ulteriore conferma del desiderio di romanità della poetica neviana.