Gaius Plinius Caecilius Secundus

Gaio Plinio Cecilio Secondo detto Plinio il giovane o minore, per distinguerlo dall’omonimo zio per parte di madre Plinio il vecchio, il grande erudito, nacque a Novum Comum (Como) nel 62 o nel 61 d.C. – infatti in Epistulae VI, 20 afferma: agebam enim duodevicensimum annum, in relazione all’eruzione del Vesuvio del 24 agosto del 79 d.C. che doveva segnare così profondamente la sua vita – da famiglia equestre agiata. Perdette il padre quando era ancora molto giovane (forse attorno al 70 d.C.) e fu lo zio ad assumersi la responsabilità della sua educazione. Da questi adottato per testamento, alla sua morte – avvenuta nella citata eruzione vesuviana, immortalata e resa celebre proprio dalla descrizione di Plinio (Epistulae VI, 16), il quale pure vi assistette dal golfo di Napoli (Epistulae VI, 20) – Plinio ne assunse i nomi (si chiamava alla nascita Publius Caecilius Secundus). Non essendo ancora uscito di minorità egli fu affidato per un biennio alla tutela di Virginio Rufo, personaggio integerrimo che fu un vero esempio di legalità e di devozione allo stato – domò una rivolta contro Nerone e rifiutò per tre volte l’acclamazione a imperatore da parte dei soldati; nel 97 d.C. Tacito, che vi vedeva l’incarnazione del proprio ideale di eroe modesto e di boni mores e che di Plinio era molto amico, di lui compose e pronunciò l’elogio funebre – e per il quale Plinio provò affetto sincero (testimoniato nel commosso ricordo di Epistulae II, 1). Attorno all’83 d.C. perdette anche la madre.

Plinio si dedicò agli studi d’eloquenza e fu allievo di Quintiliano e del retore Nicete Sacerdote di Smirne. Egli stesso qualifica l’attività oratoria come la principale tra quelle che svolse. La strada professionale, che iniziò a soli 19 anni (Epistulae V, 8: […] undevicesimo aetatis anno dicere in foro coepi […]), gli fu preparata da una difficile occasione che egli seppe audacemente cogliere: in una lettera indirizzata a Suetonio (Epistulae I, 18) racconta che adulescentulus si assunse il peso di una causa contro uomini molto potenti e amici dell’imperatore – che allora era un principe non facile come Domiziano. In un’epoca in cui l’accentramento del potere nella mani del princeps aveva smorzato il dibattito politico, così vitale in epoca repubblicana, privando la retorica dei motivi di respiro più alto, Plinio si rivolse con generosità e buona volontà alla difesa degli amici, degli oppressi e di coloro che erano accusati ingiustamente: condusse tra l’altro, con Erennio Senecione, l’accusa di concussione contro Bebio Massa nel 93 d.C. e, con l’amico Tacito, l’accusa di corruzione avanzata dai provinciali d’Africa contro il proconsole Mario Prisco nel 100, mentre sostenne la difesa di due governatori accusati di appropriazione indebita nel 103 d.C. Anche grazie, forse, alla visibilità offertagli dall’esercizio dell’avvocatura e alla coraggiosa interpretazione che ne diede, Plinio fece un prestigioso cursus honorum, come si ricava dall’iscrizione dedicatoria posta all’ingresso delle terme da lui fatte costruire nella sua città natale: tribuno militare in Siria, tribuno della plebe, questore imperiale, pretore nel 93, presidente del collegio dei centumviri, console suffectus nel 100, augure, curator alvei Tiberis et cloacarum Urbis nel 105 e infine governatore imperiale della Bitinia nel 111-112 d.C. Le prime tre cariche le ottenne da Domiziano, le ultime tre sotto Traiano. Non conosciamo la data della sua morte, che non dovette essere di molto posteriore al 113, anno nel quale la sua corrispondenza si interrompe.

Sappiamo da san Girolamo (Chronicon, ad annum 109 p.Chr.n.) che ai suoi tempi rimanevano ancora molte opere di Plinio, senza però che ne riporti alcun titolo. A noi è giunto il già citato epistolario, principale fonte di informazioni sulla sua vita e interessante testimonianza su vari aspetti della società del tempo. Si tratta di dieci libri, i primi nove dedicati alla corrispondenza personale e l’ultimo, pubblicato postumo probabilmente dagli amici, alla corrispondenza ufficiale con l’imperatore Traiano nello svolgimento dell’incarico di governatore della Bitinia. La raccolta comprende sia le lettere di Plinio che quelle inviate dai corrispondenti, ma l’ordine di pubblicazione non è quello cronologico, come afferma Plinio stesso nell’epistola introduttiva (Epistulae I, 1) indirizzata a quel Setticio Claro cui Suetonio – altro amico di Plinio – dedicò il De vita Caesarum:

C. PLINIUS SEPTICIO CLARO SUO S.

Frequenter hortatus es, ut epistulas, si quas paulo curatius scripsissem, colligerem publicaremque. Collegi non servato temporis ordine – neque enim historiam componebam -, sed ut quaeque in manus venerat. Superest ut nec te consilii nec me paeniteat obsequii. Ita enim fiet, ut eas quae adhuc neglectae iacent requiram et si quas addidero non supprimam. Vale.

Egli scelse le lettere scritte paulo curatius, cioè più adatte alla pubblicazione, nell’ordine con cui gli venivano tra le mani, senza intento cronologico (che però è generalmente rispettato). Sebbene gli argomenti e le occasioni di corrispondenza siano reali e non si sia in presenza di una pura esercitazione letteraria, si nota ovunque l’attenzione che si riserva agli scritti destinati alla pubblicazione, pur stemperata da una certa noncuranza. Ma l’affettazione di semplicità è sempre accompagnata in Plinio da una punta di narcisismo ingenuo, garanzia di effetto ricercato. Non di rado l’effetto c’è, ad esempio nella già citata descrizione dell’eruzione del Vesuvio e della fine dello zio Plinio il vecchio (Epistulae VI, 16 e 20, indirizzate a Tacito che gli aveva chiesto quale fosse stata la sorte del grande erudito per poterla includere nelle sue Historiae). E comunque l’epistolario pliniano si segnala generalmente per la piacevole gradevolezza della lettura. Tuttavia, Plinio stesso si rendeva conto (Epistulae IX, 2) che i tempi non gli concedevano certo la varietas rerum che aveva arricchito, assieme al copiosissimum ingenium, l’epistolario ciceroniano e che egli si muoveva in angustis terminis all’ombra dei quali nascevano spesso lettere di sapore scolastico. Gli avvenimenti comuni così come le cronache di eventi pubblici, peraltro, sono per noi una preziosa fonte di notizie sulla storia e la società romana del tempo e la corrispondenza ufficiale del decimo libro è un esempio unico nel suo genere, non solo per ampiezza, di come avveniva l’amministrazione di una provincia.

Nell’incarico ufficiale Plinio manifesta aperti limiti di capacità decisionale, dai quali la frequente richiesta di istruzioni anche in casi piuttosto semplici. Un caso di maggior spessore, che in seguito ha avuto a più riprese grande risonanza, riguarda il comportamento da tenersi nei confronti dei Cristiani. In una celebre lettera a Traiano (Epistulae X, 96) Plinio spiega che fino ad allora, non conoscendo la prassi in quei casi, egli ha adottato la politica di condannare chi, denunciato come cristiano, avesse persistito nel professare per tre volte la propria fede sotto la minaccia della pena capitale, se non altro per punire una simile manifestazione di inflexibilis obstinatio, ma ora necessitava di indicazioni ufficiali su come intervenire verso i molti nomi accusati da un libello anonimo. La risposta di Traiano (Epistulae X, 97) ingiunge di non ricercare i cristiani e di non tenere conto delle denunce anonime, perchè ritenute indegne del suo amore per la giustizia, ma di punirli se, portati di fronte al tribunale, non abiuravano la loro religione. Se questa risposta dovette appagare Plinio, convinto della benignità del principe, la sua apparente equanimità provocò il sarcastico commento di Tertulliano (Apologeticum II, 8: O sententiam necessitate confusam! Negat inquirendos ut innocentes, et mandat puniendos ut nocentes. […] Si damnas, cur non et inquiris? si non inquiris, cur non et absolvis? […]), che mise in luce la contraddizione insita nel fatto che i cristiani non dovevano essere ricercati, e quindi erano da ritenere innocenti, eppure, se denunciati e condotti personalmente in tribunale e se non apostati, dovevano essere condannati come colpevoli.

L’epistolario ci tramanda anche pochi frammenti di una attività poetica di Plinio, probabilmente giovanile. Con una sola notevole eccezione, nulla ci rimane invece dell’attività oratoria di Plinio a parte la descrizione che lui stesso ne fa, con quel pizzico di ingenuo autocompiacimento che caratterizza tutte le occasioni in cui parla di se stesso – e bisogna tener conto che egli parla volentieri di se stesso. In uno scambio epistolare con Tacito egli tra l’altro afferma (Epistulae I, 20) di preferire l’eloquenza ciceroniana ampia e tonante al discorso conciso e ficcante, che caratterizzava invece l’amico. Unico esempio della sua oratoria giunto fino a noi è il Panegyricus a Traiano. Si tratta di un discorso pronunciata in senato – secondo l’uso, al momento di uscire di carica – di fronte all’imperatore per ringraziarlo del conferimento del consolato, anche se il testo che possediamo fu certamente rielaborato in vista della pubblicazione (Epistulae III, 18). Nella lode di Traiano, acclamato optimus princeps, Plinio esalta la figura e le virtù del nuovo imperatore che ha restaurato la libertà così gravemente compromessa da Domiziano. La sua esaltazione è al tempo stesso sincera e superficiale: egli è giustamente convinto che l’età di benessere e di libertà in cui vive deriva dalle qualità e dall’equilibrio del nuovo principe, così come il capriccio del suo predecessore aveva provocato crudeltà e instaurato un regime di polizia, ma gli basta godere del sereno dopo la tempesta senza indagare perché lo stato romano attraversava periodi così diversi in balia del suo nocchiero. Ben altrimenti profondi erano i giudizi del suo amico Tacito sia sul principato di Domiziano e, pare, di Traiano sia sul problema della conciliazione di principato e libertà, avendo il primo assicurato stabilità e pace al dominio di Roma ma anche compromesso irrimediabilmente la seconda. Invece Plinio, rivolto a Traiano, afferma (Panegyricus LXVI):

[LXVI] […] Quod enim tam infidum mare, quam blanditiae principum illorum, quibus tanta levitas, tanta fraus, ut facilius esset iratos, quam propitios habere? Te vero securi et alacres, quo vocas, sequimur. Iubes esse liberos; erimus. Iubes, quae sentimus, promere in medium: proferemus. Neque enim adhuc ignavia quadam et insito torpore cessavimus: terror, et metus, et misera illa ex periculis facta prudentia monebat, ut a republica (erat autem omnino nulla respublica) oculos, aures, animos averteremus. At nunc tua dextera tuisque promissis freti et innixi, obsepta diutina servitute ora reseramus, frenatamque tot malis linguam resolvimus. […]

Nelle virtù dell’optimus princeps ci si può abbandonare come bambini nelle braccia del padre, a lui si può concedere tutto, anche di comandare se e quando essere liberi, come se la libertà la potesse instaurare il principe a comando. Mentre nei periodi di terrore è bene accettare l’ammonimento dei pericoli e disinteressarsi delle condizioni dello stato.