Quinto Aurelio Simmaco, uno dei più autorevoli esponenti del senato e anima della resistenza pagana allo strapotere del Cristianesimo sul finire del IV secolo d.C., nacque intorno al 340 d.C. Era quindi all’incirca coetaneo del grande avversario nella sua maggiore battaglia ideale, sant’Ambrogio.
Di famiglia nobile e ricchissima, fu educato da un maestro di origine gallica e poi avviato ad una brillante carriera pubblica: influente e ascoltato membro del senato, fece parte del collegio dei quindecemvir sacris faciundis, fu poi praefectus Urbis nel 384 d.C., proconsole d’Africa, corrector (una sorta di moderno commissario straordinario) della Lucania e degli Abruzzi e infine console nel 391 d.C.
Panegirista e brillante oratore, per la sua eloquenza ebbe una statua a Roma e una a Costantinopoli. Conservatore e reazionario, fu al centro del movimento di dotti letterati, aristocratici e senatori che cercarono di difendere le tradizioni pagane dallo zelo cristiano.
Nella Roma ancora lontana dal baricentro delle continue invasioni di popoli innumerevoli, che richiedevano costante vigilanza, l’imperatore metteva ormai raramente piede: il rango di capitale dell’Impero era passato ad altre città poste a distanza più ragionevole dalle frontiere, mentre l’imperatore si spostava prevalentemente tra le città del nord dell’Europa, quasi ognuna sede di un palazzo imperiale. L’allontanamento dell’imperatore aveva risolto a favore di quest’ultimo il secolare contrasto per la supremazia tra il princeps e il senato romano: il senato aveva perso la tradizionale influenza che era riuscito, bene o male, in maggiore o minor misura ad esercitare per secoli sul princeps, sostituito, in questo, da una vera e stabile corte imperiale di stampo quasi orientale che, con l’avvento del Cristianesimo, era divenuta almeno ufficialmente cristiana.
Sotto i colpi del Cristianesimo le più antiche e gloriose tradizioni della Roma vittoriosa e pagana andavano scomparendo una ad una. Contro i cambiamenti dei tempi il senato romano cercava la sua rivincita: una rivincita nel segno della tradizione che era in fondo anche una lotta per le sue prerogative e la sua stessa esistenza. L’epistolario di Simmaco ci mostra il retore quale animatore impegnato in prima fila nella lotta. I suoi corrispondenti sono senatori, autorità, letterati pagani o paganeggianti celebri quali Ausonio, Nicomaco Flaviano, Naucellio, Vettio Agorio Pretestato e molti altri a noi noti ad esempio attraversi i Saturnalia di Macrobio.
Il grande avversario di Simmaco fu la più grande figura cristiana di quel momento, sant’Ambrogio. E questo almeno per una celebre controversia la cui importanza simbolica – lo sentivano gli antagonisti e lo provò la storia – andava al di là del mero contenuto, la questione dell’Ara della Vittoria.
Nel 382 d.C. l’imperatore Graziano, aderendo ad una richiesta di sant’Ambrogio, aveva vietato pressoché tutti i culti pagani e in particolare aveva fatto rimuovere dalla Curia in Roma, ove si svolgevano le riunioni del senato, la statua della Vittoria e l’altare destinato al suo culto. Culto che era stato stabilito per ordine di Ottaviano, non ancora Augusto, più di quattro secoli prima, nel 31 a.C. dopo la vittoria di Azio.
Nel 384 d.C. il senato, approfittando della morte di Graziano e della confusione creatasi per il tentativo di usurpazione di Massimo contro il giovanissimo legittimo successore sul trono Valentiniano II – la cui tutrice, la madre Giustina, era peraltro di tendenze ariane ed ebbe anch’essa la sua guerra con Ambrogio per la questione della basilica milanese da destinare al culto ariano – decise di presentare una petizione con la quale chiedeva la ricollocazione della statua nella Curia e la ripresa del suo culto. La petizione si giovava anche dell’assenza di Ambrogio dall’Italia, in missione a Treviri proprio presso l’usurpatore Massimo.
Simmaco, il più illustre membro del collegio senatorio e oltre tutto praefectus Urbis quell’anno, fu incaricato dal senato di rivolgere la petizione a Valentiniano II, cosa che fece attraverso una relatio, una comunicazione ufficiale del prefetto dell’Urbe all’imperatore. Delle quarantanove relationes che ci sono conservate nel decimo libro dell’epistolario, questa, la terza, rimane meritatamente la più celebre. È infatti un’orazione vibrante e accorata, commossa e solenne, che supera agilmente la rigidità ampollosa e ingessata del linguaggio ufficiale e suscita la dolente nostalgia dei tempi andati ma eroici e trionfali.
Nonostante la prosa incisiva e non priva di buon senso di Simmaco a sostegno della argomentazioni dei pagani, però, l’incisiva confutazione di sant’Ambrogio ebbe la meglio e la Vittoria non sorrise più lasciva nella città di Roma.
Non altrettanto sentite e vitali sono le altre relazioni ed in generale tutto l’epistolario di Simmaco, nel quale trionfa il manierismo e la cura formale. Delle circa 900 lettere che lo compongono, riunite dal figlio sull’esempio dell’epistolario di Plinio il giovane in un un volume di dieci libri dei quali il decimo libro è riservato alle quarantanove relationes ufficiali, quasi tutte hanno come fine l’esercitazione stilistica. La stessa brevità che le caratterizza – poche vanno oltre la lunghezza di un biglietto – esalta il gusto dei termini arcaici accuratamente ricercati e degli effetti musicali e ritmici.
L’uditorio in caccia di frivolezze e abilità stilistica doveva restarne contento, ma quale differenza dai modelli di quel passato la cui memoria quei dotti volevano difendere e che desideravano recuperare. L’epistolario di Cicerone ci abitua a ben altri accenti accorati e commoventi, divertenti e vivaci, ad uno stile talvolta casalingo ma non dimesso, ad una forma accurata ma non artefatta.
Anche sotto il profilo letterario le epistole di Simmaco mettono in mostra una larga conoscenza, ma di stampo scolastico e poco approfondita; nullo o quasi l’apporto della cultura greca. Gli orizzonti culturali dei letterati del IV – V secolo d.C. si andavano progressivamente riducendo in favore di quella visione scolastica che trionferà nel Medio Evo. In Macrobio si nota come siano ora le sillogi, i formulari, i breviari, le epitomi a fare cultura; in Simmaco si vede come l’interesse per i classici si sposta sempre più verso l’opera di recupero e di salvaguardia dei testi piuttosto che dell’approfondimento.
Va notato, peraltro, che questa nuova forma di amore per la classicità, che Simmaco suscitò fra i primi, ha consentito la revisione critica e la trascrizione di tanti testi che, giacenti ormai da tempo sul fondo polveroso di qualche biblioteca mentre le epitomi erano in gran voga, sarebbero potuti andare perduti. È questo il caso dei codici nicomachei dell’opera liviana così come dei migliori codici di Virgilio, tutti risalenti a quel periodo. L’opera di emendazione e di salvataggio, nata qui in nome della gloria della tradizione, risponderà ben presto all’esigenza di far sopravvivere alle intemperie della barbarie la cultura del mondo, e questo è un merito che ai Simmachi non si può togliere.
Questi i limiti degli uomini, che si riflettono anche nella loro opera di salvaguardia della classicità e determinano in definitiva l’incapacità di comprendere i cambiamenti del mondo: il Cristianesimo, ad esempio, ma più di tutto il crollo incipiente del mondo stesso. Di fronte al crollo del mondo romano questi tradizionalisti non sapranno opporre se non sgomento e incredulità, là dove il Cristianesimo ha risposte, ieri come oggi, eterne e immutabili.
La ragione essenziale della fine dell’Impero Romano risiede nei fattori militari: le orde barbariche, sempre più numerose e agguerrite, non potevano essere respinte all’infinito, perlomeno a costi accettabili. Ma una delle ragioni dietro il disfacimento del potere imperiale è la crisi degli ideali romani. Di fronte alla crisi, Simmaco e il suo circolo di intellettuali e senatori oppone la resistenza in nome del passato; di quegli ideali non è in grado di proporre il rinnovamento in nome del futuro.
Oltre all’epistolario, di Simmaco possediamo anche otto discorsi: due panegirici per l’imperatore Valentiniano I, un altro per l’imperatore Graziano, un ringraziamento per il consolato del padre e altri quattro discorsi indirizzati al senato. Furono scoperti dal cardinale Angelo Mai nello stesso palinsesto del De re publica di Cicerone, tutti peraltro lacunosi o frammentari. Sono generalmente considerate in blocco opere giovanili e giudicate unanimemente di rara vacuità e di scarsissimo valore.
Simmaco morì nei primi anni del V secolo d.C.