Al contrario di Lucilio, di Orazio e dello stesso Persio, Decimo Giunio Giovenale, l’ultimo grande poeta satirico di Roma, ben poco ci ha lasciato scritto di sé. Si tratta, tuttavia, di un lascito prezioso per ricostruire la sua vita, perché le brevi biografie giunte fino a noi sono tardive – la più antica risale al IV secolo d.C. – e talora contraddittorie. Sappiamo che nacque ad Aquino (Satirae III, 319) probabilmente tra il 50 e il 60 d.C. Era di famiglia non ricca, o almeno questo dice lui stesso. Un’iscrizione, trovata nel territorio di Aquino e oggi perduta, contiene una dedica di un Iunius Iuvenalis a Cerere: è possibile che costui, che dichiara di far parte della Cohors I Dalmatorum e di essere stato duovir quinquennalis e flamen divi Vespasiani, appartenesse alla famiglia del poeta, che quindi non sarebbe di origine plebea. Giovenale, comunque, fece un regolare e completo corso di studi, prima grammatica poi retorica. Dopo essersi trasferito a Roma pare che abbia esercitato l’avvocatura, professione generalmente lucrosa, dalla quale, però, sembra non aver tratto grandi guadagni (Satirae VII, 105 segg.). Che non fosse ricco né di famiglia né per la sua professione lo attesta anche l’amico Marziale – che era più vecchio di lui di almeno dieci anni, essendo nato attorno al 40 d.C. – quando (Epigrammata XII, 18) immagina Giovenale aggirarsi affannato nel chiasso dell’Urbe alla ricerca dell’amicizia dei potenti. L’epigramma VII, 91 – un brevissimo biglietto di saluto, datato al 91 o 92 dell’era volgare, per accompagnare il dono di noci in occasione dei Saturnali – è indirizzato al facundus Iuvenalis, il che fa pensare che allora egli facesse ancora l’avvocato.
Dal riferimento al sessantenne Calvino, Fonteio consule natus, cioè nel 67 d.C. (Satirae XIII, 16-17), e dal riferimento al recente consolato di Giunco (nuper consule Iunco) del 127 d.C. (Satirae XV, 27), si desume che l’ultimo libro di satire (che include il gruppo dalla satira XIII alla XVI) fu scritto a partire dal 127 d.C. Dunque Giovenale morì dopo questa data, ma non disponiamo di più precisi indizi per stabilire quando. Le fonti biografiche sono concordi nell’affermare che Giovenale, per aver suscitato l’ira di un mimo caro all’imperatore, sarebbe stato esiliato, ormai ottuagenario, non è certo se in Egitto o in Caledonia, forse con il pretesto di un comando militare. La doppia versione della terra d’esilio, la mancanza del nome dell’imperatore, l’improbabilità di una condanna all’esilio o di una nomina militare a ottant’anni, fanno ritenere questa notizia non degna di fede, benché sia possibile che il suo istinto mordace abbia provocato l’irritazione di qualche potente personaggio e questa tradizione ne sia l’eco. Sembra invece credibile il particolare che morì ottuagenario, dal quale si risale a ritroso al probabile periodo di nascita. L’ipotesi della nascita tra il 50 e il 60 è in accordo con un’altra congettura che prende origine dalla prima satira, datata podo dopo l’anno 100, nella quale al verso 25 egli si dice non più iuvenis, il che significherebbe che aveva ormai passato i 45 anni al momento di scrivere.
Giovenale iniziò la sua attività di scrittore satirico non più giovane, solo dopo la morte di Domiziano (96 d.C.), probabilmente attorno al 100, quando alla tirannide instaurata dall’ultimo principe della dinastia flavia subentrò una nuova era di libertà e con essa la possibilità, secondo Tacito (Historiae I, 1), di poter finalmente dire ciò che si volesse, e secondo Giovenale di potersi sfogare, purchè si lasciassero in pace in vivi e ci si occupasse solo dei morti. La prima satira contiene infatti un riferimento al celebre processo contro il proconsole Mario Prisco, intentato dai provinciali d’Africa per corruzione, la cui accusa fu sostenuta da Plinio il giovane nel 100 d.C. A noi rimane la raccolta di sedici Satirae, suddivise, pare dal poeta stesso, in cinque libri: il primo libro comprende le satire I – V; il secondo la satira VI (la celebre satira contro le donne, che da sola occupa più di un quinto della raccolta); il terzo le satire VII, VIII e IX; il quarto le satire da X a XII; e infine il quinto comprende le satire da XIII a XVI (ma dell’ultima, mutila, rimangono solo 60 versi). La prima satira costituisce il proemio dell’opera e ha valore programmatico. In essa il poeta esprime il motivo che lo spinge a scrivere, l’indignatio (questo termine chiave è in Satirae I, 79) contro i costumi del suo tempo in una corruzione che i tempi futuri non potranno superare (Satirae I, 147 segg.):
Nil erit ulterius quod nostris moribus addat
posteritas, eadem facient cupientque minores,
omne in praecipiti vitium stetit […]
Gli argomenti delle sedici Satirae sono i seguenti.
- Semper ego auditor tantum? ‘Dovrò sempre e soltanto ascoltare’ si chiede il poeta ‘e lasciare la scena a poeti mediocri e personaggi turpi e corrotti d’ogni sorta?’ Di fronte a certe scene difficile est saturam non scribere, perciò egli decide di raccontare ciò che ha davanti a sé, anche se, dialogando con un interlocutore fittizio, conclude che è più sicuro parlare dei morti.
- Il poeta si scaglia contro coloro che nascondono i loro vizi con l’affettazione di virtù o dietro la filosofia. Meglio le le meretrici, che non fanno nulla per nascondere la propria condizione; mentre gli invertiti non temono di mostrarsi effeminati in pubblico.
- Umbricio, amico del poeta, lascia Roma per stabilirsi in Campania. ‘Quid Romae faciam?‘, si chiede infatti, poiché ‘non so mentire e lodare un libro che non lo merita’ né fare nemmeno una di tutte le strane cose che si fanno a Roma. Meglio la vita semplice della campagna e dei piccoli municpi.
- Un liberto, emulo dei più malfamati arricchiti, ha speso una somma sproporzionata per una triglia. Una cosa simile accadde all’imperatore denominato ‘calvo Nerone’ (cioè Domiziano), quando convocò i suoi consiglieri per decidere come cuocere nel modo migliore un meraviglioso rombo. Disorientati, temendo il peggio, i consiglieri danno vita a un gustoso teatrino.
- Trebio, un cliente di Virrone, è stato invitato a cena, una volta tanto, dal suo patrono. Ma mentre quest’ultimo si fa servire cibi raffinati e vino d’annata, al poveretto sono riservati vino scadente e pane secco. Anche gli schiavi lo guardano male, e non è strano perché, commenta Giovenale, maxima quaeque domus servis est plena superbis. Quanto le cose ti andrebbero meglio se un dio ti donasse 400.000 sesterzi di rendita – cioè la rendita di un cavaliere -! Perché, è l’amara conclusione, quae comoedia, mimus quis melior plorante gula? Tutto è stato fatto per godere lo spettacolo delle umiliazioni che egli è costretto ad accettare.
- Si tratta della celebre satira sulle donne, quella che ha dato corpo alle voci sulla misoginia di Giovenale. L’amico Postumo vuole sposarsi, ma la sua è una pazzia dacché la pudicizia ha abbandonato le case romane. Giovenale spara a zero sui costumi delle donne del suo tempo lanciandosi in una descrizione della corruzione femminile imperante, puntando il dito contro la cattiva influenza dei Greci, nel lusso ma anche nella cultura.
- Et spes et ratio studiorum in Caesare tantum, l’ultima speranza per arrestare la decadenza degli studi è da riporre in Cesare, solus enim tristes hac tempestate Camenas respexit, l’unico che abbia guardato alle Muse in tempi così tristi per loro. Perché la crisi delle arti, sostiene Giovenale, è legata alla crisi dei costumi: e nemmeno gli storici, gli avvocati, i maestri di declamazione, di retorica, di grammatica troveranno soddisfazione nel loro lavoro, finché la legge non imporrà il ritorno dell’onestà, del merito e della preparazione presso maestri e discepoli.
- Discussione sulla nobiltà: essa, sostiene Giovenale, non può essere solo quella del sangue. Una lunga sequenza di esempi, tra i quali spicca Cicerone, semplice cavaliere di un piccolo municipio, il quale si oppose con successo alla congiura organizzata da esponenti corrotti di pur illustri famiglie.
- ‘Perché sei sempre triste?’ chiede il poeta al giovane Nevolo, il quale non ha difficoltà a spiegarlo: si guadagna da vivere soddisfacendo gli appetiti dei ricchi e delle loro mogli. Sempre soggetto alle angherie dei suoi padroni, è infelice ma non può cambiar vita: haec exempla para felicibus; at mea Clotho et Lachesis gaudent, si pascitur inguine venter.
- Spesso chiediamo alla Fortuna beni senza accorgerci che sono mali: hanno forse giovato ricchezza e potere a Seiano, ai Crassi, ai Pompei? Ambizione politica e arte retorica a Cicerone e Demostene? E a che giova chiedere una vita lunga se la vecchiaia è piena di affanni e di malanni? E perché le madri desiderano la bellezza per i propri figli, se Lucrezia stessa non la desidererebbe, se bellezza e pudicizia raramente vanno d’accordo? ‘Nil ergo optabunt homines? ‘, conclude il poeta. E risponde: prima di tutto, pro iucundis aptissima quaeque dabunt di: carior est illis homo quam sibi; se agli dèi si deve chiedere qualcosa, orandum est ut sit mens sana in corpore sano; e comunque nullum numen habes, si sit prudentia: nos te, nos facimus, Fortuna, deam caeloque locamus.
- ‘Experiere hodie numquid pulcherrima dictu, Persice, non praestem vita et moribus et re‘ L’invito a cena del poeta all’amico Persico è l’occasione per ironizzare sugli eccessi del cattivo gusto e della lussuria in materia: egli offrirà non cibi raffinati che vengono da lontani paesi, ma il più tenero capretto dell’agro Tiburtino e la cena sarà sana e gustosa come quelle che un tempo godevano i senatori, quando si era ignari delle arti della Grecia. L’ospite berrà in calici di poco valore, ma lo schiavo che glielo porge non è maltrattato e capisce il latino. Se si aspetta danzatrici impegnate in balli lascivi, sarà deluso: altri saranno i divertimenti offerti nel convivio, i versi dell’Iliade e di Virgilio. E poi, lasciati gli spettacoli fragorosi ai giovani di Roma rapiti dal circo, si godranno i bagni di sole, come una volta tanto si può fare.
- Con mestizia il poeta offre un sacrificio per il ritorno, ormai insperato, dell’amico Catullo, disperso in mare dopo un naufragio. Non si pensi che egli abbia qualche interesse inconfessabile: il povero Catullo ha già tre piccoli eredi… Piuttosto egli è mosso dall’amicizia, nobile sentimento non più in uso; mentre il miraggio di una ricca eredità farebbe compiere delitti.
- L’amico Calvino, benché già sessantenne, è stato truffato di diecimila sesterzi. Il poeta cerca di consolarlo, poiché si sente colpito così duramente nella sua buona fede, ma anche di riportarlo alla realtà: non sa egli quali attrattive abbia il denaro degli altri? Per fortuna i sesterzi non erano duecentomila! Ma si è mai visto un criminale contento di un solo delitto? Il truffatore dovrà soffrire in carcere o affrontare gli scogli del mare Egeo, mentre Calvino godrà della pena e potrà lietamente dire che gli dèi non sono sordi alla giustizia.
- L’educazione dei figli, dice il poeta all’amico Fuscino, passa per l’esempio che i genitori gli offrono. Cetronio amava costruire ville ovunque e così fece il figlio, e tra tutti e due dilapidarono il patrimonio di famiglia. Così quelli che in sorte hanno un padre che onora il sabato magari disprezzano la legge romana ma imparano e temono la legge giudaica. Solo l’avarizia non imparano i giovani; ma in tutti vizi spontaneamente imitano i genitori.
- Contro gli usi e le tradizioni degli Egizi, terribili e barbare: adorano gli animali come dèi, non è lecito mangiare il capretto, ma invece è permesso pascersi di carne umana. Come si fa a non credere ai Lestrigoni? Nemmeno gli animali si comportano così: forse il leone più forte toglie la vita a un altro leone? O il cinghiale a un altro cinghiale? Se vedesse queste mostruosità, cosa direbbe Pitagora che si astenne dalla carne degli animali e nemmeno concesse al proprio ventre ogni tipo di legumi?
- Chi potrebbe enumerare i tanti vantaggi della vita militare? Nel residuo frammento di appena 60 versi, il poeta comincia ad elencare i privilegi di cui godono i soldati, soggetti al tribunale militare anche per delitti civili, ai quali soltanto è permesso fare testamento quando il padre è ancora vivo…
Di certo la potenza e la vivacità dell’invettiva contro la corruzione dei costumi, soprattutto nei primi tre libri, sono la caratteristica più notevole del poeta. L’ironia è sempre sferzante, ma il linguaggio è spesso eccessivo, tanto da essere talvolta contundente. Inoltre, nel suo moralismo senza freni, Giovenale commette l’errore di fare, come si dice, di tutta l’erba un fascio: egli si scaglia in egual misura e con uguale forza contro i difetti veniali e le colpe più turpi. Tuttavia, non è privo di genio sentenzioso, se a lui dobbiamo tanti aforismi e locuzioni vive ancor oggi, come mens sana in corpore sano.
Forse proprio all’atteggiamento moraleggiante che non perdona – se non alla caduta in disgrazia cui accennano le biografie – è dovuta la scarsa fortuna di Giovenale nei secoli centrali della vita dell’Impero Romano. Ma è certo che proprio il contenuto morale gli assicurò la grande fama di cui Giovenale godette invece sin dall’affermarsi del Cristianesimo e che si estese al Medio Evo, all’Umanesimo, al Rinascimento fino ai giorni nostri.