Marcus Porcius Cato Maior

Del generale, uomo di stato e primo prosatore di Roma di cui sia stata tramandata un’opera fino ai nostri giorni, Marco Porcio Catone detto il Censore – per la rigida interpretazione di quella magistratura che lo rese celebre più del consolato e del trionfo che pure conseguì – e Maggiore – per distinguerlo dall’omonimo bisnipote, Catone il Minore o Uticense, che morì suicida a Utica in odio alla nascente tirannide di Cesare – le fonti principali sono la vita di Plutarco – il quale nei suoi Bìoi paràlleloi lo mise a confronto con Aristide, il politico e generale ateniese che fu a Salamina, a Maratona e a Platea – con il Cato maior de senectute di Cicerone – nel quale l’Arpinate traccia un ritratto del Censore, protagonista del dialogo, probabilmente idealizzato ma certamente assai informato – e la breve biografia di Cornelio Nepote – unica superstite assieme alla Vita Attici della sezione storica del suo De viris illustribus, e tuttavia un semplice riassunto di un altro e più esteso libro che Nepote dedicò a Catone purtroppo non pervenuto – qui riportata integralmente:

[1] M. Cato, ortus municipio Tusculo adulescentulus, priusquam honoribus operam daret, versatus est in Sabinis, quod ibi heredium a patre relictum habebat. Inde hortatu L. Valerii Flacci, quem in consulatu censuraque habuit collegam, ut M. Perpenna censorius narrare solitus est, Romam demigravit in foroque esse coepit. Primum stipendium meruit annorum decem septemque. Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit. Inde ut rediit, castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in proelio apud Senam, quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. Quaestor obtigit P. Africano consuli; cum quo non pro sortis necessitudine vixit: namque ab eo perpetua dissensit vita. Aedilis plebi factus est cum C. Helvio. Praetor provinciam obtinuit Sardiniam, ex qua, quaestor superiore tempore ex Africa decedens, Q. Ennium poetam deduxerat; quos non minoris aestimamus quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum.

[2] Consulatum gessit cum L. Valerio Flacco, sorte provinciam nactus Hispaniam citeriorem, exque ea triumphum deportavit. Ibi cum diutius moraretur, P. Scipio Africanus, consul iterum, cuius in priori consulatu quaestor fuerat, voluit eum de provincia depellere et ipse ei succedere neque hoc per senatum efficere potuit, cum quidem Scipio principatum in civitate obtineret, quod tum non potentia, sed iure res publica administrabatur. Qua ex re iratus senatu, consulatu peracto privatus in urbe mansit. At Cato, censor cum eodem Flacco factus, severe praefuit ei potestati. Nam et in complures nobiles animadvertit et multas res novas in edictum addidit, qua re luxuria reprimeretur, quae iam tum incipiebat pullulare. Circiter annos octoginta, usque ad extremam aetatem ab adulescentia, rei publicae causa suscipere inimicitias non destitit. A multis temptatus non modo nullum detrimentum existimationis fecit, sed, quoad vixit, virtutum laude crevit.

[3] In omnibus rebus singulari fuit industria. Nam et agricola sollers et peritus iuris consultus et magnus imperator et probabilis orator et cupidissimus litterarum fuit. Quarum studium etsi senior arripuerat, tamen tantum progressum fecit, ut non facile a reperiri possit neque de Graecis neque de Italicis rebus, quod ei fuerit incognitum. Ab adulescentia confecit orationes. Senex historias scribere instituit. Earum sunt libri VII. Primus continet res gestas regum populi Romani: secundus et tertius, unde quaeque civitas orta sit Italica; ob quam rem omnes Origines videtur appellasse. In quarto autem bellum Poenicum est primum, in quinto secundum. Atque haec omnia capitulatim sunt dicta. Reliquaque bella pari modo persecutus est usque ad praeturam Servii Galbae, qui diripuit Lusitanos; atque horum bellorum duces non nominavit, sed sine nominibus res notavit. In eisdem exposuit, quae in Italia Hispaniisque aut fierent aut viderentur admiranda. In quibus multa industria et diligentia comparet, nulla doctrina. Huius de vita et moribus plura in eo libro persecuti sumus, quem separatim de eo fecimus rogatu T. Pomponii Attici. Quare studiosos Catonis ad illud volumen delegamus.

Catone nacque a Tusculum, presso l’odierna Grottaferrata, nel 234 a.C. Il padre morì quando era ancora giovane, lasciandogli il podere in Sabina nel quale trascorse la sua giovinezza. Era di famiglia plebea e nessuno dei suoi avi aveva tentato il cursus honorum: egli fu dunque un homo novus, sebbene egli dicesse di sé che in fatto di atti di valore era vecchissimo, poiché suo padre e suo nonno erano stati soldati coraggiosi che spesso avevano riportato premi al valor militare (Plutarco, Marcus Cato 1). Egli stesso si segnalò ripetutamente fin dalla giovinezza per il suo contegno fiero e deciso in battaglia – di sé ricordava di aver preso parte alla sua prima campagna a diciassette anni quando Annibale sembrava incontenibile in Italia – e per le abitudini assieme marziali e frugali sia durante il servizio militare che nella vita civile; e non soltanto per questo, ché fin da giovane manifestò grandi capacità oratorie che perfezionò coi patrocini nelle città intorno a Roma e lo fecero chiamare Demostene romano (Plutarco, op.cit. 1-4). La seconda guerra punica lo vide poi promosso tribunus militum in Sicilia nel 214 a.C. nella campagna che due anni più tardi portò Marco Claudio Marcello alla conquista di Siracusa; indi Catone partecipò alla presa di Taranto nel 209 a.C. (Plutarco, op.cit. 2) al comando di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, del quale divenne grande ammiratore; e due anni dopo fu al Metauro, ove si distinse nella battaglia con la quale i consoli Marco Livio Salinatore e Gaio Claudio Nerone bloccarono il tentativo dei rinforzi cartaginesi al comando di Adrubale di ricongiungersi con Annibale bloccato in Puglia.

Furono forse le esortazioni di Lucio Valerio Flacco – un nobile e influente proprietario di terre confinanti con la fattoria di Catone il quale aveva preso in simpatia e poi come intimo amico il suo vicino, conquistato dalla integrità e sobrietà della persona e dalle qualità oratorie – a spingere Catone a portarsi a Roma e a impegnarsi nella vita pubblica; e di Flacco, con il quale condivise in seguito il consolato e la censura, furono probabilmente i buoni auspici che lo favorirono nel cursus honorum (Plutarco, op.cit. 3). Nel 204 a.C. Catone fu eletto alla questura e fu destinato in Sicilia al seguito di Scipione, il quale stava progettando l’impresa africana che gli avrebbe dato il nome. Con il grande generale e la sua vita sfarzosa e piena di interessi raffinati il quasi coetaneo questore entrò subito in rotta di collisione (Plutarco, op.cit. 3) denunciando un eccesso di spese nella preparazione della campagna che la sua austerità non poteva tollerare, per di più destinate, a suo dire, a corrompere i soldati coi piaceri sfrenati che derivavano dall’avere a disposizione troppo denaro. Appoggiato in senato dal Temporeggiatore, già in passato avversario di Scipione e presentemente contrario alla spedizione sul suolo africano, fece aprire un’inchiesta ufficiale: Scipione fu richiamato a Roma per rispondere delle accuse di spreco di denaro pubblico e trascuratezza nell’incarico di comandante d’armata, ma se la cavò facilmente sostenendo con il suo prestigio e il suo carisma che la vittoria in guerra dipende dalla cura con cui la si prepara e che egli era solito dedicare il giusto tempo allo svago, quando possibile, senza per questo trascurare le proprie incombenze. Poi partì per la guerra e il trionfo, ma è comprensibile che Catone non lo seguisse a Zama. Nel 203 a.C. Catone fu invece in Sardegna ove tra i soldati di stanza nell’isola conobbe Ennio, che condusse poi con sé a Roma dove il Rudino poté diventare il padre della letteratura latina.

Dopo l’edilità del 199 a.C., nel 198 a.C. Catone colse la pretura. Nella provincia assegnatagli, la Sardegna, fece mostra (Plutarco, op.cit. 6) ancora una volta di abitudini di vita austere e frugali unite a onestà e buone capacità di amministratore del denaro pubblico e della giustizia, in stridente contrasto con il dispendio e l’oppressione di molti suoi predecessori. Nel 195 a.C. fu console assieme all’amico Valerio Flacco ed ebbe in sorte la Spagna citeriore. Sottomise numerose tribù locali con le armi e con la diplomazia, nel solco della autentica tradizione strategica dei Romani, e le sue vittorie furono così numerose che egli poté affermare, come riferisce Plutarco (op.cit. 10), di aver catturato più città di quanti giorni aveva passato in Spagna. Carica di forza militare rimane l’immagine di Catone, ricordata da Polibio attraverso il medesimo passo di Plutarco, a un gesto del quale le mura di tutte le tante città sulla riva del fiume Betis furono contemporaneamente atterrate. Un successo così completo gli fruttò il trionfo che celebrò nel 194 a.C. e la crescente ostilità di coloro che ne temevano il rigorismo e la grettezza accoppiata al prestigio. Tra questi, Scipione Africano (Plutarco, op.cit. 11) brigò per succedere a Catone nel comando della provincia spagnola e bloccare da un lato il corso dei successi del suo avversario, dall’altro per cercare di oscurarli. Ma, benché si fosse affrettato per sostituirlo nell’incarico, non riuscì a impedire a Catone di completare il suo programma di conquista e finì per di più col trovarsi impegnato in una ben poco gloriosa attività di governo della provincia senza il lustro di grandi operazioni militari.

La carriera doveva riservare a Catone ancora un brillante successo militare (Plutarco, op.cit. 12-14) da tribuno militare nelle legioni di Manio Acilio Glabrione, il console del 191 a.C. che sconfisse il re seleucide Antioco il Grande alle Termopili. Il Gran Re – come Antioco si fece chiamare con il titolo che spettava ai re persiani dopo aver restaurato quasi del tutto in oriente l’impero fondato da Seleuco Nicatore – nei primi anni del II secolo a.C. si era rivolto verso occidente con l’intenzione di recuperare ai suoi domini anche i possedimenti dei Tolomei e delle città greche in Asia Minore; così facendo era venuto in contatto con i crescenti interessi di Roma nella regione. Alla politica di Antioco, che nasceva dall’ambizione personale, non era estranea la mente di Annibale, che proprio presso di lui si era rifugiato quando i Romani ne richiesero l’esilio ai Cartaginesi. Non sorprende perciò che in pochi anni la preoccupazione romana riguardo l’espansione del regno seleucide divenne scontro in campo aperto. Antioco, che aveva messo piede sul suolo europeo sbarcando in Tracia nel 196 a.C., cominciò a soffiare sui focolai di rivolta contro il protettorato romano facendosi alleati la Lega Etolica e altri stati greci, quindi invase da liberatore la Grecia nel 192 a.C. La reazione romana portò Acilio e i suoi uomini di fronte alle Termopili: l’esercito di Antioco si era accampato con trinceramenti e fortificazioni là dove trecento Spartani avevano potuto tener testa da soli all’esercito persiano. La posizione del Seleucide sembrava così favorevole da essere imprendibile, ma una convinta, insistita, audacissima manovra di aggiramento compiuta nottetempo da un battaglione di soldati al comando di Catone riuscì a forzare le difese prendendo gli avversari di sorpresa e aprì la strada a un completo e insperato successo. Antioco dovette ritirarsi dalla Grecia, ma si era dimostrato troppo pericoloso e i Romani lo inseguirono in Asia Minore al comando di Lucio Cornelio Scipione, fratello dell’Africano, sconfiggendolo l’anno successivo a Magnesia – e Lucio ne trasse l’appellativo di Asiatico. Il successivo trattato di Apamea del 188 a.C. sancì l’abbandono da parte di Antioco di tutti i possedimenti anatolici. In tal modo Catone con la sua indomabile e coraggiosa tenacia rese possibile la definitiva sconfitta di uno dei più temibili nemici della storia di Roma appena dieci anni dopo quella di Annibale. Plutarco riferisce che Catone, ben consapevole dell’importanza oltre che dell’audacia dell’impresa, raccontava che Acilio lo abbracciò a lungo urlando per la gioia che né lui né il popolo romano avrebbero potuto ripagare abbastanza Catone per le sue azioni. Catone stesso fu mandato a Roma ad annunciare la vittoria delle Termopili.

Acquisita ormai fama e prestigio per il suo coraggio e le sue qualità morali, nel 184 a.C. il consolare Catone, nonostante l’ovvia vigorosa opposizione dei più noti e influenti esponenti del partito oligarchico, raggiunse il culmine del cursus honorum ricoprendo – di nuovo con l’amico Valerio Flacco – quella censura che doveva renderlo celebre nei secoli per l’integrità e la severità con le quali la interpretò e che gli fruttarono il soprannome di Censorius, il censore per antonomasia. Contro il lusso e la corruzione che, secondo l’incisiva frase di Nepote (supra), cominciavano a pullulare, lanciò infatti una vasta campagna di repressione probabilmente senza precedenti: con leggi sumptuariae impose pesanti tasse sugli abiti e sugli ornamenti troppo sfarzosi, specialmente femminili, nonché sulle spese voluttuarie con l’obiettivo di scoraggiare l’ostentazione della ricchezza e la ricerca di beni superflui; a sostegno della moralità pubblica cacciò gli esponenti ritenuti indegni dalle file senatorie – e tra questi per il proprio disordine morale fu il consolare Lucio Quinzio Flaminino, fratello di Tito vincitore a Cinoscefale contro Filippo di Macedonia nel 197 a.C. – ed equestri – tra i quali Lucio Scipione Asiatico, condannato per l’accusa di peculato mossagli con la cooperazione dello stesso Catone. Fu molto attivo anche come curatore delle opere pubbliche – responsabilità che faceva pure parte della censura -: promosse la riparazione e la pulizia di acquedotti e fognature; ordinò la rimozione delle condutture con le quali molti privati derivavano senza permesso acqua dagli acquedotti pubblici alle loro ville e la demolizione di edifici che ostruivano la pubblica via; rinegoziò il prezzo contrattuale delle opere pubbliche e aumentò la tassa di concessione della riscossione delle imposte ai pubblicani; fece costruire la prima basilica nel foro, la Basilica Porcia, creando un esempio poi seguito da alcuni tra i più grandi Romani (Plutarco, op.cit. 19).

La sua reazione contro la modernità è stata spesso vista come la prima e più celebre battaglia retrograda della storia contro l’avanzamento del progresso, una gretta resistenza di retroguardia contro il giusto desiderio del nuovo e del bello. Ma questo giudizio risente probabilmente della fissità dei luoghi comuni. L’integralismo nel difendere le rustiche abitudini tradizionali contro lo splendore dell’arte e della raffinatezza ellenistica appare eccessivo e poteva irritare i contemporanei più illuminati come certamente può far sorridere i moderni. Tuttavia, la difesa delle austere virtù e dei valori nazionali contro le molli seduzioni d’oriente appare con evidenza un merito di Catone, e forse – il che sarebbe anche più importante agli occhi della storia – la reazione consapevole di un personaggio particolarmente avvertito. Il mutamento del costume e del sentire nazionale, in uno stato come quello romano, che nell’arco di due o tre generazioni fagocitò l’intero ricco mar Mediterraneo, avveniva assai rapidamente; la ricchezza aveva improvvisamente cominciato ad affluire copiosa nel nuovo centro del mondo e la vita degli intraprendenti, onesti o meno, poteva cambiare in poco tempo; i vizi d’oriente – come dimostra, non unico esempio, la vicenda di Flaminino, il quale fece decapitare un condannato a morte nella sala in cui banchettava per compiacere il suo favorito – corrompevano gli uomini delle migliori famiglie di Roma. La cupidigia era sempre più spesso la ragione di una candidatura a una qualsiasi delle magistrature e i consoli che un tempo, espletato il loro incarico al solo servizio della res publica, tornavano alla loro fattoria e alla vita stentata della campagna – come Manio Curio Dentato, la cui terra, alla quale egli tornò dopo tre trionfi, era presso il podere di Catone – erano stati ormai sostituiti da rapaci sfruttatori delle province sempre più volti alla conquista personale del potere. Se per molti la corruzione dei costumi fu tra le cause essenziali dei ricorrenti episodi di declino dello stato romano fino al momento della caduta irreversibile, è un dato di fatto che un secolo dopo la morte del Censore, al termine della lunga campagna di enormi conquiste aperte dalla vittoria su Cartagine e dopo una lunga agonia politica fatta di incessanti lotte intestine e sanguinose guerre civili, finiva la repubblica e nasceva il principato.

La censura non fu che il culmine della lotta personale di Catone contro il lusso e la stravaganza, in favore della sobrietà e in difesa del severo costume nazionale romano, perché egli spese in questo tutta la sua vita, circiter annos octoginta, usque ad extremam aetatem ab adulescentia, non cessando e non preoccupandosi di procurarsi nemici – secondo Plutarco (op.cit. 15) Catone fu imputato in quasi cinquanta processi, l’ultimo a 85 anni di età. Il suo nemico personale, finché visse, fu certamente l’Africano, che egli fece diventare il bersaglio simbolo – talvolta, come si è visto, ricambiato – della sua lotta civile e politica in favore del mos maiorum e contro l’oligarchia ottimate. Non riuscì mai a colpirlo ottenendone infine solo l’autonomo ritiro nella villa di Liternum, ma sotto le sue unghie cadde l’Asiatico, il quale, condannato per peculato, grazie anche a lui, a una multa così pesante che non poté pagare nemmeno vendendo i beni di famiglia, si trovò sull’orlo della prigione, scongiurata solo per l’intercessione dei tribuni della plebe. Contribuì potentemente alla reciproca antipatia tra il Censore e gli Scipioni anche la diversità di visione sui valori culturali, dei quali entrambi valutavano correttamente l’importanza sociale: il paladino dei valori nazionali non poteva non vedere nel rinnovamento della cultura in favore dei modelli greci promosso dal Circolo degli Scipioni – Catone visse abbastanza da vedere sia il circolo sorto attorno all’Africano Maggiore che quello stretto attorno all’Africano Minore – un annacquamento e forse il definitivo cedimento della tradizione letteraria romana.

Anche nei trent’anni e più che separarono la morte dell’Africano (183 a.C.) dalla sua, avvenuta nel 149 a.C., Catone non cessò comunque di distinguersi per la sua tenace opposizione ai minacciosi venti di cambiamento della società romana. Già nel 186 a.C. aveva violentemente avversato l’introduzione del culto dei Baccanali, riti religiosi indubbiamente sfrenati oltre che completamente estranei alla religione romana, provocandone infine la messa al bando con il famoso senatusconsultum de Bacchanalibus. Altrettanto noto è l’episodio del 155 a. C. (Plutarco op.cit. 22) quando, essendo venuti a Roma quali ambasciatori tre celebri filosofi greci, l’accademico Carneade, lo stoico Diogene e il peripatetico Critolao, per ottenere il condono di una forte multa inflitta agli Atenisei e avendo essi e più degli altri Carneade suscitato grande entusiasmo col fascino della loro abile eloquenza guadagnandosi grandi platee soprattutto di giovani studiosi, Catone fece approvare dal senato la loro espulsione, nonostante l’immunità diplomatica, perché corrompevano la gioventù romana catturandone la mente e distogliendola dalle leggi patrie. La morte lo privò della soddisfazione di vedere realizzata la sua ultima battaglia politica, quella per la distruzione definitiva di Cartagine (che avvenne nel 146 a.C. ad opera di Scipione Emiliano): egli cominciò insistentemente a richiederla – concludendo ogni suo intervento in senato su qualunque argomento con le celebri parole ceterum censeo Carthaginem esse delendam, mentre ancora uno Scipione, il Nasica, gli fu avversario terminando ogni suo discorso coll’affermare che Cartagine dovesse essere risparmiata (Plutarco op.cit. 27) – dopo che, inviato nel 157 a.C. quale legato nella città punica per arbitrare una contesa tra Numidi e Cartaginesi, ebbe potuto constatare la prosperità che questi ultimi avevano saputo per la terza volta raggiungere e che egli considerò una minaccia per la sicurezza di Roma.

Può sorprendere la notizia, riportata tra gli altri da Cicerone nel Cato maior de senectute e da Plutarco (op.cit. 2), che Catone avesse studiato il greco, anche se solo in età avanzata: si è visto che in Catone l’ostilità verso la nobiltà si accompagnava a quella contro le nuove idee di stampo ellenistico incarnate dagli ideali del circolo scipionico. L’utilitarismo di Catone, che talora è vera grettezza contadina, si manifesta però nei riguardi della cultura greca nel suo aspetto migliore: in uno dei frammenti conservatici, ad esempio, Catone consiglia al figlio Marco di apprendere la letteratura greca ma di non farsene conquistare, esprimendo con ciò la convinzione che è utile ammirare quella splendida cultura e attingervi, come egli stesso fece, ma senza farsene contagiare al punto da rinunciare ai costumi e alle tradizioni romane, perché se nelle arti dai Greci si può imparare, nella virtù i Romani non hanno nulla da cercare all’esterno. Non a caso l’influsso dell’ellenismo sulla sua opera è evidente anche nelle non abbondanti reliquie e fa anzi comunemente ritenere (e l’ipotesi non era estranea nemmeno al passo di Plutarco) che il greco l’avesse imparato ben prima della vecchiaia. Certo è che i ripetuti soggiorni nei territori della Magna Grecia, negli anni della guerra punica, lo avevano messo a contatto fin da giovane con quella cultura greca che doveva avversare per il resto della sua vita.

Catone letterato fu essenzialmente prosatore ed è anzi l’autore della prima opera in prosa che conosciamo della letteratura latina, il De agri cultura. L’opera, fondata sull’esperienza dell’autore, nato contadino, è di stile assai diseguale, tanto che è stato ipotizzato variamente che noi ne possederemmo un rifacimento posteriore o che fosse originariamente una serie di appunti piuttosto che un’opera destinata alla pubblicazione o infine che non abbia ricevuto l’ultima mano. Catone si occupa di agricoltura con intento utilitaristico e programmatico, fedele alla sua indole e alla convinzione che i migliori tra i Romani venissero dal duro e onesto lavoro dei campi. Ne viene fuori un’opera tecnica rivolta a guidare il proprietario di un piccolo appezzamento di terreno dall’acquisto alla conduzione allo svolgimento di tutte le attività collaterali. In risalto sono le implicazioni morali della nobiltà del lavoro della terra: il guadagno legittimo perché sudato, l’onestà delle intenzioni e del comportamento, fino ad affermare che dal lavoro dei campi erano sempre venuti a Roma i soldati più forti e valorosi. A noi è rimasta solo la parte relativa alla vita dei campi, ma in origine il De agri cultura trattava anche di economia domestica, vita familiare, medicina, anticipando in questo gli interessi di altri eruditi che dopo di lui composero opere analoghe. L’esempio più illustre è Varrone e il paragone è istruttivo: anche Varrone è un difensore della tradizione, ma scrive della conduzione di una grande proprità terriera, non di un modesto appezzamento; esalta la modestia della vita in campagna, ma senza manifestare l’utilitarismo di Catone, espressione talvolta di sobria misura e spesso di grettezza; nei confronti degli schiavi manifesterà comprensione, là dove Catone è del tutto indifferente alla loro sorte senza riconoscerli degni di alcun legame o calore umano (Plutarco op.cit. 4-5).

Forse la maggiore opera di Catone furono le Origines, in sette libri, dei quali a noi però rimangono pochi frammenti. Il titolo gli derivava dal contenuto del secondo e terzo libro, nei quali era raccontata l’origine delle città italiche, ma si trattava più propriamente di un’opera storica che riassumeva le vicende di Roma e dei popoli italici dalle origini all’età contemporanea (Catone vi attese dal 168 a.C. fino alla morte). Nel genere storiografico presso i latini le Origines rappresentarono una novità di grande avvenire: per la prima volta, infatti, si parla di un’opera storica in senso moderno, nella quale cioè i fatti sono raccontati ma anche analizzati con un certo senso critico e profondità politica, non solo di una elencazione di eventi di maggiore o minore rilevanza storica secondo il criterio annalistico arcaico. Un curiosità significativa, riportata sia da Plinio il vecchio che da Cornelio Nepote, è che Catone non nominava i comandanti militari e i personaggi più importanti per nome ma solo attraverso il titolo e la carica che ricoprivano in quel momento (console, dittatore, ecc.). Segno da un lato della sua intransigente e feroce lotta contro gli ottimati e dall’altro espressione del convincimento che vero protagonista delle battaglie e dei successi di Roma fosse il popolo. E quando ricorda il nome del tribunus militum Quinto Cedicio, lo fa quasi per stabilire una compensazione annotando brevemente che le sue eroiche imprese gli fruttarono ben poca gloria.

Le opere erudite di Catone comprendono anche un De re militari, attribuitogli da Festo, del quale però non sappiamo altro. L’interesse per l’erudizione che tanta fortuna ebbe presso i Romani sembra peraltro non essere autonomo in Catone, ma piuttosto funzionale all’esigenza di insegnamento morale che, alla base della sua vita, fu anche la ragione delle sue opere. Il tono sentenzioso è la costante e più qualificante caratteristica letteraria, indipendentemente dall’argomento trattato, di un uomo che, ad esempio, volle educare personalmente il figlio – più esattamente, secondo Plutarco op.cit. 20, egli ne fu l’insegnante, il precettore e l’allenatore atletico – sottraendosi all’uso di delegare il compito a uno schiavo, e come parte del programma educativo gli dedicò esplicitamente o gli destinò implicitamente i suoi scritti. Non sorprende che ai fondamenti dell’istruzione, l’agricoltura e la pastorizia tradizionali fonti di sostentamento dei Romani dalle quali vengono per di più i migliori soldati, la storia patria, tradizionale alimento della virtù romana, e l’arte militare, tradizionale strumento della potenza romana, pose accanto alcune opere strettamente precettistiche: i Libri ad Marcum filium, raccolta di sentenze rivolta al figlio; il Carmen de moribus, regole di vita in versi delle quali Gellio ci ha conservato i soli tre frammenti che conosciamo; e gli Apophthegmata, una raccolta di motti arguti che fa mostra di un titolo greco non così sorprendente. Conviene annotare (Plutarco op.cit. 20) che il figlio Marco, pur assai più cagionevole di salute del padre, lo ripagò convenientemente scrivendo un’altra pagina di gloria della gens Porcia sotto Emilio Paolo a Pidna.

Pur con qualche riserva la estesa produzione oratoria di Catone ebbe un convinto ammiratore in Cicerone, secondo il quale il Censore scrisse più di 150 orazioni; a noi sono giunti un’ottantina di titoli e qualche centinaio di frammenti, nei quali rifulge una volta di più il tono franco, duro e sentenzioso per il quale la maggioranza dei frammenti sono stati conservati e la salace diffidenza nei confronti della nobiltà ottimate con la quale si confrontava in senato. A Catone risale la celebre definizione dell’oratore come vir bonus dicendi peritus, in una massima al figlio Marco; e alla definizione segue il saggio consiglio rem tene, verba sequentur, nel quale c’è tutta la praticità di Catone quale doveva apparire anche nell’eloquenza.

La figura dell’intransigente paladino della virtù rimase, anche grazie a Catone, uno stereotipo moralista assai caro ai Romani nel tempo – non a caso Nepote (supra) rimarca che Catone si procurò nemici lungo tutta la sua vita rei publicae causa – e favorì certamente la fortuna del Censore stesso nei secoli. Abbiamo già accennato all’ammirazione che Cicerone nutriva per Catone, tanto che gli dedicò una delle sue opere, il Cato maior seu de senectute, ed è forse da ritenersi sintomatico il fatto che il Catone ciceroniano sembra meno intransigente di quel che ci appare il Catone della tradizione. Sallustio, che non aveva certo difficoltà a condividerne la polemica antioligarchica, lo definì Romani generis disertissimus; Plinio il vecchio lo disse omnium bonarum artium magister. Probabilmente a partire dal II secolo d.C. cominciano ad essere formate raccolte dei motti e delle sentenze di Catone in versi che nel tempo subiscono successivi rimaneggiamenti: a noi sono giunte due sequenze, i cosiddetti Disticha Catonis e Monosticha Catonis, che risalgono forse al IV secolo d.C., che in gran parte però del Censore hanno probabilmente solo lo stile e il pensiero ma non trovavano in lui l’originario autore. Questi compendi hanno con ogni probabilità facilitato la progressiva scomparsa dell’opera catoniana, giunta fino a noi in troppo piccola parte.