Gaius Iulius Caesar

Gaio Giulio Cesare, forse il personaggio più rappresentativo della storia romana, il cui nome è passato ad indicare in molte lingue il concetto di comandante e di monarca, nasce a Roma due giorni prima delle idi del mese Quintilis (più tardi ribattezzato Iulius in suo onore), cioè il 13 luglio, dell’anno 100 a.C. La sua schiatta, la gens Iulia, è di antica nobiltà – si vantava di discendere nientemeno che da Venere e da Enea – ma decaduta economicamente.

Figure molto influenti sul giovane Cesare e anche sulle sue scelte politiche sono la zia Giulia e la madre Aurelia. Giulia era moglie di Gaio Mario, dal quale il nipote Cesare eredita l’orientamento politico. Mario, che proprio negli anni dopo il 100 a.C. raggiunge l’apice della sua potenza, è un homo novus. Certo anche per questo la sua politica è spiccatamente democratica e popolare: si vantava di non avere immagini di antenati nell’atrio di casa. Da Mario forse Cesare prese anche la tenacia, l’ambizione e l’abilità nell’acquisire la devozione degli eserciti; ma di Mario già da giovane il nipote appare più realista. La consapevolezza delle proprie aspirazioni appare chiara nella biografia tracciata da Suetonio (De vita XII Caesarum Divus Iulius, 6) nell’orazione funebre pronunciata per la zia Giulia, quando (era il 69 a.C., l’anno della sua questura) Cesare ricorda orgogliosamente che ella era discendente di re e di dei:

[6] Quaestor Iuliam amitam uxoremque Corneliam defunctas laudavit e more pro rostris. Et in amitae quidem laudatione de eius ac patris sui utraque origine sic refert: ‘Amitae meae Iuliae maternum genus ab regibus ortum, paternum cum diis inmortalibus coniunctum est. Nam ab Anco Marcio sunt Marcii Reges, quo nomine fuit mater; a Venere Iulii, cuius gentis familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum, qui plurimum inter homines pollent, et caerimonia deorum, quorum ipsi in potestate sunt reges.’ […]

La madre Aurelia rimane prematuramente vedova del marito Lucio Giulio Cesare e, caso piuttosto raro nell’aristocrazia dell’epoca, tale da farla paragonare alla virtuosa Cornelia madre dei Gracchi, non si risposa, preferendo dedicarsi al figlio e alla figlia Giulia. Quest’ultima fu poi madre di Azia e quindi nonna di Ottaviano Augusto.

La giovinezza

Le non eccelse disponibilità economiche non dissuasero Aurelia dall’offrire al giovane Cesare la migliore educazione. Egli compì gli studi regolari sotto il famoso retore Marco Antonio Gnifone, originario della Gallia, che lo preparò per una carriera forense che si annunciava brillante. In seguito, nel 75 a.C., Cesare si recò a Rodi a perfezionare la sua tecnica e la padronanza del greco sotto la guida di Apollonio Molone, uno dei più celebri retori dell’epoca, maestro, come lo stesso Gnifone, anche di Cicerone. La riuscita di Cesare negli studi di retorica è testimoniata dalla sua attività di avvocato e dalle insistenti attestazioni di ammirazione per la sua eloquenza, anche da parte di avversari non solo politici ma pure di scuola letteraria come appunto Cicerone (Suetonio, ad esempio, in De vita XII Caesarum Divus Iulius, 55 riporta che certe Cicero ad Brutum oratores enumerans negat se videre, cui debeat Caesar cedere, aitque eum elegantem, splendidam quoque atque etiam magnificam et generosam quodam modo rationem dicendi tenere).

Il secolo precedente era stato per Roma, sull’onda della grande vittoria nella seconda guerra punica e dell’età degli Scipioni, un secolo di grandi espansioni verso le ricche e colte regioni orientali del Mediterraneo, dalle quali profluivano a Roma lusso, sfarzo ed opulenta eleganza tanto quanto tesori artistici e con essi un nuovo amore per l’arte. Cesare si lancia nella vita brillante e dispendiosa, dissipa fortune in un alto tenore di vita, ostenta uno spirito raffinato e financo frivolo. Non sembra riuscire, peraltro, a nascondere il suo carattere ambizioso, se è vero, come tramanda la tradizione, che Silla ammoniva di guardarsi da quel giovane dall’apparenza effeminata perchè in lui si nascondevano molti Marii. Forse per mantenere il suo tenore di vita, sposa in prime nozze Cossuzia, di ricchissima famiglia equestre, ma la lascia dopo brevissimo tempo, a soli sedici anni, su pressione della madre e della zia, per sposare Cornelia, la figlia di Cornelio Cinna, che era divenuto capo dei populares alla morte di Mario nell’86 a.C. Da Cornelia, alla quale rimane fedele fino alla di lei morte, ha quattro figli, tra i quali l’adorata Giulia. Alla morte di Cornelia sposa poi Pompea, figlia di Quinto Pompeo, che poi ripudia, sospettandola di adulterio con Publio Clodio, per convolare una quarta volta a nozze con Calpurnia, figlia di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino.

Il matrimonio con Cornelia serviva a rinsaldare i vincoli di amicizia tra le famiglie più in vista dei populares, e nello stesso tempo, poichè Cornelia, a differenza di Cossuzia, era patrizia, permetteva a Cesare di accedere, forse nell’84 a.C., alla carica di flamen Dialis, cioè sacerdote di Giove. La carica aveva una sacralità particolare che rendeva chi la portava una ‘statua vivente’ del dio e perciò, oltre a essere riservata ai patrizi che avessero contratto matrimonio con donne patrizie e a garantire l’inviolabilità della persona, comportava tutta una serie di vincoli e limitazioni, tra i quali l’impossibilità di allontanarsi da Roma e l’impossibilità di contemplare eserciti in armi e dunque di assumere cariche militari, che di fatto impedivano la carriera pubblica. Era per questo poco appetita dai giovani ambiziosi della tarda repubblica, i quali temevano di compromettere il proprio cursus honorum. Tuttavia, nel caso di Cesare l’intoccabilità della carica servì a difenderlo dalle spaventose epurazioni e dalle vendette, lui così strettamente legato al partito popolare benché ancora molto giovane, della guerra civile che si scatenò al ritorno di Silla dall’oriente. In una mossa così provvidenziale non è possibile escludere la volontà previdente di Giulia e Aurelia: il fatto è che Silla, tornato nell’83 a.C. in Italia, dopo aver sbaragliato i seguaci di Mario e Cinna e aver inaugurato le temutissime proscrizioni, si accontentò l’anno seguente di privare il giovanissimo Cesare della sua carica. In aggiunta, gli impose anche il divorzio dalla moglie, e il rifiuto stava per costare a Cesare il peggio, quando la famiglia di Aurelia intercedette per lui e anche le Vestali intervennero per colui che era stato sacerdote di Giove. Anche nel rifiuto a rinunciare a Cornelia in un momento così delicato, a costo magari della vita o dell’esilio, si è voluto vedere il precoce manifestarsi nel giovane Cesare dell’audacia e del calcolo politico per il quale si distinguerà nella maturità: Cesare non avrebbe voluto screditarsi agendo timidamente, in aperto contrasto con l’austera e composta sopportazione del temporale sillano da parte della fazione democratica, mentre l’opposizione a un rischio grave, che però non sarebbe stato molto probabile, gli avrebbe attirato merito e simpatia. Ma, anche ammettendo questa interpretazione, non sembra necessario scinderla dal desiderio di manifestare la propria lealtà nei confronti della moglie – di fatto, Cornelia fu l’unica delle sue mogli che tenne fino alla fine – magari per quella fierezza incosciente che caratterizza la gioventù. Al pari dell’audacia anche queste virtù, fierezza e lealtà, non gli vennero mai meno; secondo la tradizione se ne accorse subito anche Silla, che avvertiva di guardarsi da Cesare perché in lui erano molti Marii (De vita XII Caesarum Divus Iulius, 1):

[1] Annum agens sextum decimum patrem amisit; sequentibusque consulibus flamen Dialis destinatus dimissa Cossutia, quae familia equestri sed admodum dives praetextato desponsata fuerat, Corneliam Cinnae quater consulis filiam duxit uxorem, ex qua illi mox Iulia nata est; neque ut repudiaret compelli a dictatore Sulla ullo modo potuit. Quare et sacerdotio et uxoris dote et gentilicis hereditatibus multatus diversarum partium habebatur, ut etiam discedere e medio et quamquam morbo quartanae adgravante prope per singulas noctes commutare latebras cogeretur seque ab inquisitoribus pecunia redimeret, donec per virgines Vestales perque Mamercum Aemilium et Aurelium Cottam propinquos et adfines suos veniam impetravit. Satis constat Sullam, cum deprecantibus amicissimis et ornatissimis viris aliquamdiu denegasset atque illi pertinaciter contenderent, expugnatum tandem proclamasse sive divinitus sive aliqua coniectura: vincerent ac sibi haberent, dum modo scirent eum, quem incolumem tanto opere cuperent, quandoque optimatium partibus, quas secum simul defendissent, exitio futurum; nam Caesari multos Marios inesse.

In ogni caso, dopo il rumore prodotto da una simile mossa era certamente prudente allontanarsi da Roma, e Cesare si recò in Asia per iniziare la sua carriera militare prestando servizio agli ordini del sillano governatore della provincia, il propretore Marco Minucio Termo. Val la pena osservare che Cesare potè allontanarsi dall’Italia e prestare servizio militare grazie alla decisione di Silla di privarlo dell’investitura di flamen Dialis. Fu quindi Silla, il primo a detenere il potere assoluto e senza limiti di tempo a Roma dalla cacciata dei re e nello stesso tempo il retrivo e senatoriale restauratore della repubblica, ad aprire la carriera a colui che avrebbe sconfitto il sistema repubblicano e imposto l’autocrazia a Roma. In Asia, Cesare partecipa all’assedio di Mitilene, dove meritò una corona civica. Secondo voci giunte fino a noi, fu assiduo dell’alcova di Nicomede, re di Bitinia. Poi fu in Cilicia agli ordini di un altro sillano, Servilio Isaurico. Tornò a Roma solo alla notizia della morte di Silla (78 d.C.).

A Roma, venuto meno Silla, l’esponente popolare Marco Emilio Lepido tentava una nuova guerra civile anti-sillana, ma Cesare, trovandola avventurosa e velleitaria, se ne tenne alla larga. Lepido venne definitivamente sconfitto nel 77 a.C. dall’alleanza tra Pompeo e Catulo, e fu allora che Cesare, dando nuovamente prova di audacia e di fierezza a poco più di vent’anni, si segnalò al pubblico accusando il sillano e consolare Cornelio Dolabella di malversazione nel suo operato come governatore della Macedonia; e l’anno dopo trascinò in giudizio anche Gaio Antonio Ibrida per le spoliazioni cui aveva sottoposto i Greci. In tribunale non gli andò bene, perchè fu sconfitto in entrambi i processi, ma e il suo coraggio e la sua oratoria gli diedero grande fama: secondo Suetonio (De vita XII Caesarum Divus Iulius, 55) post accusationem Dolabellae haud dubie principibus patronis adnumeratus est. Ancora una volta, per evitare ritorsioni, lasciò prontamente Roma, nonostante la stagione invernale tradizionalmente ostile alla navigazione, per recarsi a Rodi, dove seguì le lezioni di Apollonio Molone clarissimus dicendi magister. Ma nel viaggio di andata la nave fu attaccata dai pirati e Cesare fu fatto prigioniero e liberato solo dopo quaranta giorni dietro pagamento di un riscatto di ben cinquanta talenti; sembra che egli stesso convinse i pirati a chiedere un riscatto altissimo, ancora una volta con lo scopo di aumentare il prestigio della sua immagine a Roma. Giunto a destinazione, dopo un anno trascorso a Rodi immerso negli studi di filosofia, colse l’occasione della guerra tra Roma e Mitridate e, all’inizio del 74 a.C., passò in Asia, dove arruolò truppe e sconfisse il prefetto del re del Ponto.

L’ascesa politica

Rientrato a Roma, approfittando del nuovo clima politico creatosi con l’aministia per i seguaci di Lepido, decretata dal senato nel 72 a.C., e il pieno ristabilimento dei poteri dei tribuni della plebe, ratificato con la lex Pompeia Licinia dai consoli Pompeo e Licinio Crasso, Cesare iniziò una rapida carriera politica che nell’arco di pochi anni lo consacrò capo indiscusso del partito popolare. Dopo essere stato tribuno militare nel 73 a.C., nel 69 fu eletto questore nella Spagna Ulteriore. Si racconta che, mentre raggiungeva la provincia, fermatosi davanti alla statua di Alessandro Magno presso il tempio di Ercole a Cadice, abbia pianto consapevole di non aver compiuto nulla di memorabile all’età in cui Alessandro aveva già sottomesso il mondo. Nello stesso anno 69 a.C. Cesare fu colpito da due gravi lutti: morirono la zia Giulia e la moglie Cornelia, e per entrambe Cesare compose e pronunciò la laudatio funebre. Consci dell’importanza delle scelte matrimoniali ai fini degli equilibri politici, Cesare e la madre Aurelia scelsero la nuova moglie in una famiglia sillana nella persona di Pompea, figlia di Quinto Pompeo e addirittura nipote di Silla. Nel 65 a.C. Cesare fu fatto edile curule insieme a Marco Calpurnio Bibulo, carica che gli permise di catturare le simpatie della plebe romana con la magnificienza dei giochi da lui organizzati e soprattutto con lo spettacolo di gladiatori offerto da Cesare per i Mani di suo padre al termine dei ludi magni in onore di Giove Capitolino, in settembre. Il senato reagisce alla dispendiosa spettacolarità di Cesare e all’elevato numero di gladiatori presenti in città limitando per decreto il numero dei combattenti nei giochi, ma nulla può quando Cesare restaura i trofei di Mario nel foro e la sua statua in Campidoglio, che Silla aveva abbattuto. Con l’esporre la statua dello statista beniamino della plebe e grande generale che, con le vittorie sui Cimbri e i Teutoni, aveva liberato l’Italia dal timore della catastrofe, oltre ad attirarsi il favore popolare, Cesare si proponeva sempre più chiaramente come erede di Mario e nuovo capo carismatico dei populares. E l’appoggio della plebe garantì che, nonostante le proteste di Catulo in senato, i trofei rimanessero al loro posto.

Il 65 a.C. è anche l’anno della cosiddetta prima congiura di Catilina. Era accaduto che, mentre Cesare era stato eletto edile e Crasso censore con l’aristocratico Catulo, onnipresente figura nelle magistrature di quegli anni, al consolato erano stati scelti Publio Cornelio Silla, che ad onta del nome era un democratico, e Publio Autronio Peto. Ma questi ultimi furono accusati di corruzione elettorale da Lucio Manlio Torquato e Lucio Aurelio Cotta, i quali riuscirono a farli condannare e a farsi eleggere al loro posto. Sembra che per reazione – tanto erano sensibili i nervi in quegli anni tormentati e tanto modesti i pretesti di chi aspirava al potere – un folto gruppo di congiurati, primi fra tutti Catilina, Crasso, i consoli deposti e Cesare stesso, avesse messo a punto un piano che prevedeva l’irruzione in senato e l’uccisione dei nuovi consoli e dei senatori che fossero accorsi in loro difesa; i disordini che ne sarebbero seguiti sarebbero stati pilotati al fine di far eleggere Crasso dittatore, il quale avrebbe scelto Cesare come magister equitum; poi si sarebbe visto. Cesare, cui era stato dato l’importante incarico di dare il segnale per l’inizio della trappola, dovette però giudicare il piano per quale era, incerto, avventato e dall’esito improbabile, se, riferiscono, dimenticò prudentemente di farlo. Così il piano sfumò nel nulla. Non è facile stabilire fino a che punto si tratti di notizie degne di fede, tuttavia questa versione dell’episodio è in accordo con i dati essenziali: di certo Cesare non poteva ancora permettersi di agire in autonomia o peggio in difformità dagli altri esponenti di rilievo della sua fazione; tuttavia, a Cesare non facevano certo difetto l’accortezza e il buonsenso e, se non poteva opporsi, sembra naturale o quasi che abbia scelto il modo più indolore per condurre il piano quietamente al fallimento. Del resto la bontà del suo agire gli deve essere stato riconosciuto anche dagli altri congiurati se, sempre stando alle voci, Crasso e Catilina, lungi dall’adontarsi per il tradimento, gli mantennereo la propria amicizia e per di più lo coinvolsero ancora nella seconda e più famosa congiura di Catilina, quella del 63 a.C. sventata da Cicerone. Evitata l’avventura di un piano scombinato senza essersi inimicati gli amici potenti, Cesare godeva ancora più che mai del favore della plebe, favore che egli poté ben valutare proprio nel 63 a.C. quando, candidatosi alla carica di pontefice massimo, si impose con un margine schiacciante sui due candidati aristocratici, più anziani e prestigiosi, il principe del senato Lutazio Catulo e Publio Servilio Vatia. Del resto, oltre che frutto della sua popolarità, i voti di Cesare furono frutto, come d’abitudine a Roma, anche delle somme spese nella campagna elettorale, che dovettero essere particolarmente ingenti se si narra che la mattina del voto un Cesare scoraggiato confessasse alla madre che, pieno di debiti, se non avesse vinto non gli sarebbe rimasta altra via che l’esilio.

La congiura di Catilina

Il nuovo pontefice massimo dovette immediatamente assistere alla scoperta un nuovo torbido insurrezionale, la (seconda) congiura di Catilina. Lucio Sergio Catilina, di famiglia antica e nobile ma decaduta economicamente, aveva avviato la propria carriera politica sotto gli auspici di Pompeo Strabone, il padre di Pompeo Magno, divenendo questore nel 78 a.C. ed edile nel 71. Il suo fare spregiudicato unito all’ambizione e alla cronica mancanza di denaro – è sempre inseguito dai creditori proprio come Cesare e come tutti coloro che sulla tumultuosa scena della fine della repubblica vogliono coronare di successo le loro ambizioni politiche senza gli ingenti mezzi richiesti dal sistema istituzionale – lo fanno implicare nei maggiori scandali di quegli anni e lo pongono come avversario dell’oligarchia senatoria; il suo programma politico di stampo demagogico, basato sulla cancellazione dei debiti e sull’assegnazione di nuove terre alla plebe, è molto pericoloso per la saldezza dello stato in un periodo nel quale grazie alle conquiste in oriente, che aprono la via agli appalti e ai commerci, i ricchi ottimati divengono sempre più ricchi e i cavalieri ammassano fortune ancora più colossali, mentre la plebe per sopravvivere tra una distribuzione gratuita di frumento e l’altra deve contrarre debiti che non potrà assolvere. Battuto due volte alle elezioni – l’ultima proprio da Cicerone per il consolato del 63 – si ripresenta per la terza volta nell’autunno di quell’anno e, questa volta, fa affluire a Roma i suoi clienti. Il senato, accogliendo la proposta del console Cicerone, reagisce al maldestro tentativo di condizionare le elezioni rinviandole; in tal modo i clienti di Catilina, contadini e pastori, non potendo trattenersi a lungo a Roma, devono far ritorno alle proprie case. Catilina è bocciato per la terza volta nonostante l’appoggio di Crasso e Cesare; organizza allora un colpo di mano clamorosamente scoperto: facendo leva sul malcontento dei poveri oppressi dai debiti, dei nobili lasciati ai margini e dei sillani delusi, ingrossa in Etruria un esercito privato al comandi Manlio, un giovane nobile squattrinato, pronto a suscitare una rivolta armata da portare a Roma. Il console Cicerone non ha difficoltà a venire a conoscenza del piano, ancora una volta troppo avventuristico, che egli può denunziare in senato l’8 novembre. L’azione di Cicerone è pronta, ma l’ora è grave e si temono scontri sanguinosi: tuttavia Catilina si elimina da solo raggiungendo il proprio esercito in Etruria, mentre in Roma si catturano rapidamente i congiurati rimasti in città, che sono condannati a morte e giustiziati senza appello per inziativa di Cicerone. Catilina cadrà poi in battaglia alla testa delle proprie milizie al principio dell’anno seguente.

Non è dato discernere dalle voci giunte fino a noi come andarono esattamente le cose. Infatti, non solo il tentativo non fu mai posto in atto grazie all’intervento di Cicerone, ma sembra che la tempestività del grande oratore fu tale che nemmeno ci si andò vicini. In queste condizioni, una analisi critica delle reali intenzioni e possibilità dei congiurati si impone allo storico. I fatti come sono presentati nelle celebri Catilinarie con le quali Cicerone denunciò il pericolo per lo stato non possono non risentire dell’abilità e della parzialità del grande oratore. Non va sottovalutato che Cicerone – che oltre tutto, da vero ottimate, vedeva i popolari come il fumo negli occhi – non chiedeva di meglio alla vita che nel suo consolato accadesse qualche evento memorabile e infatti non trascurerà con lo scritto di immortalare il suo operato al servizio dello stato con qualche eccesso di autocelebrazione dal sapore fanciullesco. Certo è che Catilina e gli altri della partita erano tutti personaggi ambiziosi, pronti all’intrigo e bramosi di disordini, tutte caratteristiche che ben si accompagnano a un tentativo di insurrezione. Ma Catilina era probabilmente solo un ladrone che in un periodo di continua incertezza politica, di lotte e di debolezza del senato cercò di impadronirsi del potere per sè. La stessa aspirazione la nutriva probabilmente lo stesso Cesare, il quale era dotato però di ben altro talento. Non si sa con certezza quale parte abbia avuto Cesare nella congiura. Può essere che ne fosse informato e addirittura abbia concesso il proprio tacito appoggio a Catilina, come qualcuno ha supposto in base al suo successivo comportamento, ma sembra difficile che l’ambizione e l’accortezza di Cesare vedessero di buon occhio o più ancora che dessero il proprio consenso a quel che ancora una volta era un tentativo male organizzato e avventato. Quel che è certo, invece, è che la voce autorevole di Cesare si levò per prima in senato, nella seduta del 5 dicembre, nel tentativo di difendere i congiurati rimasti a Roma e scoperti e denunciati ancora da Cicerone il 3 dicembre. Cesare invocò una sentenza misurata, opponendo alla ventilata richiesta di pena di morte per i prigionieri, tra i quali figuravano membri delle più importanti famiglie di Roma, l’intelligente applicazione della legge, con la confisca dei beni e il confino, e il rispetto dei diritti degli accusati, tra i quali la provocatio, cioè l’appello al popolo contro la sentenza. Cicerone, invece, senza chiedere esplicitamente la pena di morte sostenne la necessità di colpire attentati così gravi alla salvezza dello stato con una punizione esemplare spingendosi fino a chiedere di assumere per sé la responsabilità della scelta. Il senato gliela concesse con un senatus consultum ultimum, il decreto del senato che concedeva pieni poteri ai consoli, e i congiurati furono giustiziati quella sera stessa.

Per essersi esposto apertamente nella vicenda, Cesare correva nuovamente pericolo di vita, minacciato dai giovani cavalieri aizzati dall’eloquio di Cicerone, ed evitò con la solita prudenza di farsi rivedere in senato per qualche tempo. Tuttavia, anche in questo caso egli era riuscito a mantenere una posizione inattaccabile di fronte alle accuse di complotto da parte dell’aristocrazia senza inimicarsi il suo partito. La sua coerente lucidità nel perseguire le sue ambizioni farà di lui quello che, dopo molti anni e mercè i notevolissimi successi militari, riuscirà realmente a impadronirsi del potere assoluto. Peraltro le accuse non ostacolano il cursus honorum di Cesare, che oltre alla carica di pontefice massimo nel 63, ottiene quella di pretore nel 62 e l’anno successivo di propretore con sede designata nella Spagna Ulteriore. Cesare è ben consapevole di come si ottengano i voti, soprattutto ai suoi tempi, e ancora una volta al termine delle elezioni è in bolletta e i suoi creditori, temendo l’insolvenza, vogliono impedirgli di partire. Interviene il ricchissimo Crasso concedendogli un avallo personale e Cesare può partire; del resto, per un aristocratico romano, l’unico modo per onorare i debiti era spesso il governo di una provincia, e Cesare dovette dar prova di capacità non comuni se riuscì a pagare i debiti e nello stesso tempo a essere lodato per il suo buon governo. Ma la situazione politica rimane difficile, Cesare è nell’occhio del ciclone e reagisce attaccando con giudizio. Appena entrato in carica, il primo gennaio stesso, cita in giudizio Catulo per i ritardi nella costruzione del nuovo tempio in Campidoglio, proponendo che il suo nome sia sostituito da quello di Pompeo nell’iscrizione dedicatoria. E due soli giorni dopo appoggia la proposta del tribuno della plebe Metello Nepote di richiamare immediatamente a Roma Pompeo dall’oriente, dove si sta coprendo di gloria, per ristabilire l’ordine. Alla dura opposizione del senato seguono tumulti di piazza e gli ottimati ne approfittano immediatamente per deporre Cesare e Metello dalle loro magistrature. Si tratta di un atto illecito senza precedenti e, mentre Metello lascia Roma gridando che Pompeo al suo ritorno avrebbe rimesso le cose a posto, Cesare si chiude in casa e viene reintegrato nella carica dopo pochi giorni.

Nel 62 a.C. Cesare ripudia la moglie Pompea accusandola di adulterio con Publio Clodio, figura emergente tra i populares soprattutto per i suoi intrighi e la capacità di generare torbidi. Secondo l’accusa, nella quale Cicerone fu tra i testi a carico, Clodio si era introdotto di nascosto in casa di Cesare per intrattenersi con Pompea e questo durante la celebrazione dei misteri della Bona Dea, riti riservati esclusivamente alle donne che si svolgevano ogni anno nella casa del pontefice massimo alla presenza di sua moglie. Clodio fu assolto, probabilmente dopo aver corrotto la giuria, ma Cesare divorziò egualmente da Pompea asserendo che la moglie di Cesare, anche se innocente, non doveva essere oggetto neppure di sospetti. Però, si guardò bene dall’interrompere i propri rapporti con Clodio, personaggio corrotto, sfrontato e pronto a tutto la cui fedeltà gli tornerà in seguito molto utile e sarà tra le cause indirette della guerra civile. Quanto alla moglia, sposerà in quarte nozze Calpurnia, figlia di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino.

Il primo triumvirato

In quel 62 a.C. il ritorno di Pompeo dalla straordinaria guerra contro Mitridate VI re del Ponto, nella quale egli aveva sconfitto non solo quest’ultimo, ma anche Tigrane il Grande re dell’Armenia e Antioco XIII di Siria per arrivare fino alla conquista di Gerusalemme, era atteso da tutti a Roma – e da alcuni non senza timore, ricordando assai da vicino il ritorno di Silla vent’anni prima – e fu trionfale come pochi altri in precedenza. Gneo Pompeo Magno, di famiglia provinciale molto ricca, si era fatto strada all’ombra di Silla e da vent’anni era la scelta obbligata ogniqualvolta una situazione difficile richiedeva un grande comandante e un grande organizzatore. Era stato incaricato prima da Silla di recuperare la Sicilia e la sua produzione di frumento (82-81 a.C.) allora in mano ai partigiani di Mario – ed egli inseguì gli avversari sino in Africa, sterminandoli, e manifestò così grande talento da essere acclamato Magnus dalle sue truppe, nome che sembra Silla confermasse -; poi dal senato di riprendere la Spagna (76-71 a.C.), ancora in mano al generale mariano Sertorio; di aiutare Crasso, il quale non riusciva a piegare Spartaco, nella rivolta servile (fine 71 a.C.) – e questo episodio scavò tra i due la profonda inimicizia che più tardi giovò a Cesare il ricomporre -; di sgombrare il Mediterraneo, ormai Mare Nostrum, dai pirati – lavoro che fu sbrigato in tre mesi tra il 67 e il 66 a.C. -; e infine di condurre la guerra contro Mitridate cui si è accennato (65-62 a.C.) e che si concluse con grandi conquiste territoriali stabili – ivi incluse la creazione di una nuova frontiera, con la stipula di trattati di buon vicinato con stati-cuscinetto, e l’organizzazione delle nuove provincie – e l’afflusso a Roma di immense ricchezze. All’arrivo dall’oriente, dunque, Pompeo Magno era il generale più vittorioso, il comandante più amato e l’uomo più potente di Roma. Ma non era nelle grazie degli ottimati – i quali gli rimproveravano l’origine provinciale, egli era originario del Piceno, aggravata dal fatto che la sua famiglia aveva ottenuto per la prima volta il consolato appena 25 anni prima con il padre, Gneo Pompeo Strabone, generale durante la guerra sociale – e che, se sulle prime non vedevano di buon occhio la sua ascesa, videro poi come il fumo negli occhi il suo strapotere. Fu per questo che il senato operò contro di lui una tattica ostruzionistica e dilatoria che aveva lo scopo di guastarne il nome e il successo e ridurne il potere: i suoi cospicui atti in oriente tardavano ad essere ratificati e la distribuzione di terre pubbliche promesse come d’uso ai veterani non arrivava. Del resto Pompeo aveva certamente già capito l’antifona quando, durante il viaggio di ritorno a Roma nel dicembre del 62 a.C., desiderando ottenere il trionfo e anche candidarsi alle elezioni al consolato per il 61, ma non potendo per legge entrare nel pomerium senza perdere il diritto al trionfo e d’altra parte non essendo consentito per legge partecipare alle elezioni se non di persona, alla sua richiesta di posporre l’elezione al trionfo era stato opposto dal senato un fermo rifiuto. In accordo con il carattere ligio allo stato di Pompeo, non ci furono proteste ed egli scelse il trionfo; ma fece eleggere con ogni mezzo il proprio candidato al consolato, Afranio. Il trionfo fu poi celebrato soltanto l’anno seguente, il 29 settembre del 61 a.C.

Nel comune senso di frustrazione delle proprie ambizioni e in ciò che ognuno poteva portare in dote agli altri per rimediare alla situazione va certamente ricercata l’origine dell’accordo che Cesare, Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso strinsero nel 60 a.C. Licinio Crasso, anche lui sillano in gioventù, di ricchissima famiglia equestre, era inviso a Pompeo, ricambiato, per vecchi dispetti legati a questioni di prestigio – ad uno di essi si è accennato in precedenza in relazione alla guerra servile. Sembra certo che sia Cesare, il più spregiudicato nel perseguire i propri disegni e forse quello che ha più bisogno di alleati, ad agire da tramite. Egli lavora per superare le antipatie e le incomprensioni tra i due avversari, li fa incontrare e alfine sancisce con loro l’accordo detto in seguito ‘primo triumvirato’. Si tratta di un accordo di non belligeranza e di mutuo soccorso: i tre promettono di non ostacolarsi a vicenda, mentre ognuno dei tre può chiedere aiuto agli altri due. Tutti e tre hanno un nome e clientele fedelissime; in aggiunta, Pompeo porta in dote il peso dei veterani, Crasso l’incomparabile ricchezza e la fiducia dell’ordine equestre, Cesare l’appoggio della plebe. Con armi così totali e credenziali politiche così solide a disposizione di qualsivoglia di essi, qualsiasi magistratura, qualsiasi legge è alla loro portata, con l’unico vincolo che non scontenti uno dei tre o più facilmente che debba essere trovata la debita compensazione. Il primo triumvirato sancisce di fatto il tentativo di spartire il potere pubblico tra tre privati cittadini, non a caso i più in vista della repubblica; come tale, a differenza del secondo triumvirato che sarà portato sulla scena da Ottaviano, rimane strettamente riservato ed è protetto dalla sua stessa incredibile inammissibilità nella romana res publica, se è vero che Cicerone, quando fu raggiunto dalle prime indiscrezioni, non volle credervi.

Si è discusso, senza poter raggiungere la certezza, su cosa esattamente abbia fatto leva Cesare per convincere i due nemici a stringere un’alleanza seppur temporanea con lui e tra loro. Certo l’atteggiamento del senato doveva aver deluso Pompeo in modo bruciante. Il senato non voleva un altro Silla, cioè un’altra abdicazione dal proprio potere, anche se temporanea e in favore di un proprio rappresentante che per di più era riuscito come nessun altro nello scopo di rafforzare la cittadella aristocratica. Ma Pompeo non voleva essere Silla e la sua intenzione non era incrinare la saldezza dello stato ma ottenere la gloria e il posto di prestigio che si era conquistato e riteneva di aver meritato; che alla gloria e al prestigio si associassero la preminenza e la primazia era nell’ordine delle cose. In verità lo era da sempre e peraltro altrettanto puntuale era stata l’opposizione del senato ai personaggi troppo popolari: anche Scipione Africano, ad esempio, aveva dovuto fare i conti col sospetto della sua stessa fazione. Ma il sospetto, dopo un secolo di varie lotte civili, è più acuto, senza contare che Pompeo è sempre un provinciale. Con l’accordo, Crasso e lo stesso Cesare sottraevano di fatto all’aristocrazia il suo capo naturale per farne un prezioso alleato proprio per spezzare dell’aristocrazia l’egemonia, quella dignitas che gli otimati difendevano con le unghie e con i denti, e con indubbio successo, già da un secolo, tanto che la difesa delle proprie prerogative era diventata quasi l’unica loro inattaccabile preoccupazione. E la coesione dell’aristocrazia senatoria era tanto forte da esigere l’unione delle forze ad essa contrapposte. La vera natura del patto è infatti antioligarchica: il primo triumvirato nasce per controbilanciare il cartello non scritto e non dichiarato ma ferreo tra gli esponenti dell’oligarchia ottimate senatoria, i quali, valendosi del numero e degli antichi privilegi anche legali, dispongono dello stato e vogliono continuare a farlo; non intendono fare alcuna concessione ad alcuno. Il fatto che i tempi siano cambiati e che i cambiamenti siano iniziati ormai da un secolo, in un progresso irresistibile, non turba la granitica convinzione degli ottimati di poter mantenere lo statu quo. Questa miopia porterà ad altri decenni di sanguinosa guerra civile, senza peraltro che il nuovo ordine costituito seguito alla sostanziale sconfitta del senato, quello imperiale, sia stato in grado di far fronte al problema più grave dello stato romano in tutta la sua storia, quello della gestione della lotta per il potere.

Gli effetti dell’alleanza si vedono nello stesso anno, quando l’appoggio di Pompeo e Crasso consente a Cesare di essere eletto console per il 59 a.C. assieme a Marco Calpurnio Bibulo, già suo collega nell’edilità curule. E subito Cesare, riprendendo la riforma agraria presentata nel 63 a.C. dal tribuno della plebe Servilio Rullo, che era stata aspramente e vittoriosamente avversata dal console Cicerone, presenta una proposta di legge che assegna ai veterani di Pompeo l’ager Campanus, uno dei terreni più fertili in Italia, e una colonia nelle vicinanze di Capua. La legge così lungamente rimandata viene ora approvata senza contrasti e Pompeo risolve il primo dei suoi più pressanti problemi; il secondo non deve attendere molto, perché subito dopo, con la lex Iulia de actis Pompei, arriva anche la ratifica dell’operato in oriente. Nel frattempo, per rafforzare l’alleanza Cesare concede in sposa al quarantasettenne Pompeo la sua unica figlia, Giulia, avuta da Cornelia. Ma il senato non intende subire passivamente e fin dall’elezione di Cesare scatena la rappresaglia: al console è assegnata come provincia la giurisdizione su silvae callesque, i boschi e i monti, cioè le regioni prive di importanza e lontane dalla città e quindi dall’esercizio della politica. Subito il tribuno della plebe Vatinio, uomo di Cesare propone un plebiscito, la lex Vatinia de provincia Caesaris, che muta l’assegnazione in quella del governo della Gallia Cisalpina e dell’Illirico con l’aggiunta del comando proconsolare nellle stesse province per cinque anni a partire dall’anno seguente, con tre legioni e la facoltà di scegliere i propri legati e di fondare colonie. Col pronto sostegno di Pompeo e Crasso, il plebiscito passa agevolmente e poco dopo alla giurisdizione di Cesare viene aggiunta anche la Gallia Narbonense con una quarta legione. Forse, Pompeo e Crasso appoggiano addirittura con favore l’iniziativa dell’alleato perchè, così facendo, Cesare si allontana comunque dall’agone politico. Il triumvirato continua a funzionare a meraviglia anche negli anni seguenti e le leggi d’interesse dell’uno o dell’altro dei triumviri si susseguono senza sosta: tra le più notevoli la lex Iulia de publicanis e la lex de pecuniis repetundis, sui reati di esazione delle imposte e di concussione, vecchi cavalli di battaglia dei populares, la lex de actis senatus et populi Romani, che mirava a riequilibrare i rapporti tra ottimati e plebe, e la lex Iulia de Ptolomaeo Aulete per legittimare Tolomeo XII detto Aulete (cioè ‘suonatore di flauto’) sul trono d’Egitto – in questo caso per l’interesse era di Pompeo, il quale fece inserire il nome di Tolomeo nella lista degli amici et socii populi Romani nel 60 a.C. e poi nel nel 55 a.C. l’appoggiò nella riconquista del trono.

La conquista della Gallia

Tra la fine dell’anno del consolato di Cesare e l’inizio del seguente 58 a.C. in Gallia avviene un episodio altrimenti insignificante, che però l’ambizione e il genio di Cesare trasformano in un evento che cambia la storia. Gli Elvezi, popolazione celtica stanziata nella regione tra il massiccio del Giura, il Reno, il lago di Costanza e il Rodano – approssimativamente coincidente quindi con l’odierna Svizzera – sotto la pressione delle tribù germaniche provenienti dall’altra riva del Reno e per consiglio di uno dei personaggi più ricchi e influenti tra loro, Orgetorige, decidono di migrare verso le regioni occidentali della Gallia. Per farlo, chiedono ai Romani il passaggio attraverso la Gallia Narbonense, ma Cesare, accorso prontamente e giunto sul posto scelto dagli Elvezi per la loro assemblea plenaria il 2 aprile del 58, dopo aver preso tempo per prepararsi, rifiuta il permesso diffidandoli per di più dal lasciare le loro terre. Gli Elvezi, che hanno bruciato case e campi per rendere definitiva la loro decisione e che orgogliosamente non vogliono accettare l’imposizione romana, dopo aver tentato invano di forzare il blocco predisposto da Cesare trattano con i confinanti Sequani e gli Edui il passaggio per il settentrione, ma nell’attraversare le terre degli Edui si abbandonano alle devastazioni. Gli Edui, che erano tra le tribù galliche più filo-romane e da Roma avevano ricevuto lo stato di popolo amico e alleato, vedendosi assaliti chiedono aiuto a Cesare, il quale si trova così tra le mani il casus belli che forse cercava col rifiuto opposto agli Elvezi: la chiamata degli Edui gli dà infatti titolo per intervenire anche al di fuori dei domini romani. Dopo un paio di scontri non conclusivi, l’esercito romano sconfigge duramente gli Elvezi presso la capitale degli Edui Bibracte (che è stata identificata con l’odierna località di Mont Beuvray): di 100.000 uomini atti alle armi, secondo il racconto di Cesare ne sopravvissero solo 11.000. Agli Elvezi fu ordinato di ritornare ai luoghi di partenza, sia per sottolineare l’inutilità dei loro sforzi, sia per impedire che il vuoto da loro lasciato fosse riempito dalle popolazioni germaniche, più bellicose e rozze dei Celti, che in quel periodo premevano sul Reno.

Il fenomeno della migrazione di popoli germanici verso la Gallia era in atto già da molto tempo: cinquant’anni prima i Romani stessi si erano scontrati con alcuni di essi, in prevalenza Cimbri e Teutoni, e solo Gaio Mario ne aveva avuto ragione in due battaglie dopo le sconfitte inizialmente subite dall’esercito romano. E nemmeno lo stabilirsi dei Romani in Gallia e la costituzione di lì a poco del limes renano furono capace di fermarle: le lotte costanti dei secoli seguenti sono a dimostrarlo, dal tentativo di annessione della Germania da parte di Augusto, passando per la crisi del III secolo d.C. fino agli eventi che portarono alla caduta dell’impero. Fu forse per questo, perché si aspettava che le cose non fossero finite con la sconfitta degli Elvezi, che Cesare decise di svernare con le legioni nei territori degli Edui e dei Sequani. Furono ancora una volta gli Edui a fornire al Romano il motivo per restare. Essi, infatti, pensarono di servirsi dei Romani, visto che erano già lì, per porre fine alla grave minaccia che da alcuni anni pendeva su di loro, rappresentata dal capo germanico Ariovisto. A partire dal 65 a.C. Ariovisto, alla testa di mercenari svevi, aveva cominciato una politica di conquista in Gallia che gli aveva fruttato in breve la regione corrispondente all’odierna Alsazia. Solo di fronte alle proposte di conciliazione dei Romani – anche in quell’occasione chiamati dagli alleati Edui – egli si fermò: le offerte di amicizia dei Romani, come quelle che in ogni tempo sono accompagnate dalla forza deterrente di un temibile strumento militare, erano sempre degne di considerazione. Tuttavia, considerando probabilmente la questione elvetica il diversivo che egli cercava per distogliere l’attenzione dei Romani, nel 58 Ariovisto aveva ripreso le sue guerre di espansione. Eliminati gli Elvezi dai loro territori, gli Edui si rivolsero perciò contro Ariovisto: convocarono un’assemblea delle tribù galliche – e per farlo chiesero l’assenso di Cesare – che deliberò di chiedere l’aiuto dei Romani contro gli Svevi. Trattandosi di un amico del popolo romano che aveva ricevuto il titolo di re dal senato, Cesare sperimentò inizialmente la via della trattativa. Quando il Germano rispose sprezzantemente che Roma avrebbe dovuto astenersi da intromissioni negli affari della Gallia e intere tribù germaniche cominciarono a varcare il Reno per unirsi a lui, Cesare mosse l’esercito e massacrò il nemico ai piedi dei Vosgi; lo stesso Ariovisto scampò a stento alla morte riuscendo ad attraversare il Reno con pochi superstiti.

A questo punto, Cesare poté lasciare le legioni nei quartieri d’inverno già individuati nelle terre degli Edui e dei Sequani. Ma questa volta la permanenza, che in assenza di motivi cogenti era giustificata solo dalla generica necessità di controllare l’effettiva pacificazione della regione, aveva di certo un preciso significato: la Gallia acquisiva di fatto lo stato, peraltro indefinito perché non codificato, di protettorato di Roma. Nulla disse Cesare per sostenere il diritto dei Romani a rimanere nella regione, diritto conquistato sul campo che i Galli non avevano calcato a fianco dei Romani e insieme diritto del più forte, né a quanto si sa alcuno lo contestò apertamente. A muovere guerra a Cesare furono invece i Belgi, che pur non essendo ancora sottomessi sentivano ora i Romani troppo vicini. Quasi tutte le tribù dei Belgi si riunirono e mossero con l’arrivo della buona stagione del 57 a.C. contro l’esercito romano sotto la guida del re dei Suessioni Galba. I Belgi sconfitti in campo aperto presso il fiume Aisne si ritirarono fortificandosi nella capitale dei Suessioni Noviodunum (identificata con l’odierna Pommiers presso Soissons). Dopo che Cesare ebbe espugnato la città, le tribù belghe e poi tutte le altre tribù delle regioni settentrionali, tra le quali i i Remi, i Nervi e gli Eburoni, si arresero una dopo l’altra, mentre una parte dell’esercito al comando del legato Publio Crasso sottometteva le popolazioni della costa atlantica fino alla Garonna, tra le quali i Veneti, i Pittoni e i Santoni, con l’eccezione a nord dell’Aremorica. Le popolazioni atlantiche furono le prime a ribellarsi l’anno seguente (il 56 a.C.). L’occasione furono le prime requisizioni per approvvigionare l’esercito occupante: i Veneti, popolo stanziato nella odierna Bretagna, diedero fuoco alla miccia facendo prigionieri gli ufficiali romani inviati allo scopo da Publio Crasso; in breve tutte le popolazioni della costa si unirono a loro. Cesare reagì con la fulminea prontezza per cui andava famoso: inviò il legato Tito Labieno nella Gallia Belgica per bloccare l’afflusso di rinforzi dalla Germania, Publio Crasso a sottomettere l’Aquitania (la regione tra la Garonna e i Pirenei che era rimasta l’unica parte indipendente della Gallia) e Decimo Bruto in Bretagna con una flotta approntata sulla Loira, ma capace di tenere il mare, per bloccare i rinforzi dalla Britannia e appoggiare la sua azione; egli partì per la costa atlantica con il gorsso dell’esercito. Le operazioni militari furono ancora una volta coronate da successo: Cesare sconfisse i ribelli e sottomise l’Aremorica, mentre l’Aquitania cadeva sotto l’attacco di Crasso e Labieno teneva a freno Belgi e Germani; solo nelle regioni paludose degli odierni Paesi Bassi i Romani furono trattenuti dalla guerriglia messa in atto dagli abitanti, i Morini, che seppero sfruttare efficacemente il terreno favorevole. Nonostante si fossero arresi, i Veneti furono puniti duramente, massacrati, i superstiti ridotti in schiavitù, come orrido esempio per chi avesse tentato la via della rivolta.

Con queste azioni, la conquista della Gallia poteva dirsi di fatto completa; l’impresa aveva richiesto meno di tre anni, anche se ne occorsero ancora non meno di quattro per soffocare i tentativi di rivolta che seguirono. È probabile che Cesare avesse intuito le potenzialità della Gallia come terra di conquista, e quindi come fonte di gloria, denaro e prestigio personali, almeno fin da quando se la fece assegnare come provincia: sebbene la sua politica imperialista sia stata consentita da fatti contingenti e favorita dalle circostanze, appare condivisibile l’opinione che di cosciente politica di gloria e di conquista si sia trattato fin dal principio. Numerosi popoli si dividevano quel suolo, sempre litigiosi fra loro, senza che nessuno avesse la possibilità di imporre la propria supremazia. Tutti quei popoli erano poi oggetto delle continue scorribande dei popoli germani stanziati al di là del Reno, ma nomadi e inclini alla guerra, oltre che attirati dalla crescente ricchezza delle Gallie, frutto dei continui contatti dlle popolazioni celtiche con i popoli mediterranei. Unendo queste considerazioni alla proverbiale sicurezza e alla consapevolezza della soverchiante superiorità tecnologica dei Romani nell’arte della guerra, non doveva essere aliena da Cesare la possibilità di realizzare un piano di invasione e di conquista. I confini di un simile piano non doevano occupare eccessivamente la mente di Cesare, che dimostrò di essere uomo pratico e volto alla soluzione dei problemi presenti senza preoccuparsi del domani se non per togliere limiti alla propria ambizione. È comunque assai probabile che l’esito, il più favorevole possibile, sia andato al di là degli stessi sogni di Cesare.

Gli accordi di Lucca e la pacificazione della Gallia

Nel frattempo, gli eventi a Roma sono particolarmente agitati, preludio nel complesso assai triste del tragico periodo delle guerre civili. Nel dirigersi verso le Gallie con in animo la conquista Cesare, nonostante abbandonasse l’infuocato agone politico, si sentiva probabilmente tranquillo: oltre alle sicurezze offerte dall’accordo con Pompeo e Crasso, uno dei consoli per il 58 a.C. era suo suocero, Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, e nell’Urbe rimanevano i suoi fedelissimi, tra cui quel Clodio che con le sue bande armate stava per prendere possesso della città. In queste condizioni, il fatto di allontanarsi per qualche tempo da quel clima incandescente poteva addirittura essere vantaggioso, e come si è visto nel suo caso lo fu. Publio Clodio Pulcro, il più giovane dei sei figli del console del 79 a.C. Appio Claudio Pulcro – era fratello della Clodia amata da Catullo e sembra sia stato il primo membro della gens Claudia a usare la forma chiusa del nomen -, aveva iniziato la carriera con Pompeo in oriente durante la guerra mitridatica. Appena tornato, si era subito segnalato (62 a.C.) per quell’ambizioso anarchico arruffapopolo che era con il già richiamato scandalo della Bona Dea, quello che, in carattere con gli eccessi del personaggio, fu in realtà un doppio scandalo: perché dopo essere stato sorpreso in flagrante adulterio con la moglie di Cesare, era stato clamorosamente assolto con un caso di palese corruzione – secondo quanto si diceva a Roma, quando i giudici che l’assolsero chiesero una scorta, gli fu domandato se temessero di vedersi rubati i soldi delle bustarelle. In quell’occasione, come sappiamo, Cesare rinunciò facilmente alla moglie e si tenne l’amicizia di Clodio, il quale per parte sua giurò odio e vendetta eterni a Cicerone, che si era scagliato veemente contro lo scandalo. Attraverso Cesare, Clodio si legò al triumvirato e nemmeno la costante opposizione del grande oratore riuscì a fermarne la rapida ascesa in quegli anni tormentati. Dopo una breve e necessaria sparizione dalla scena, Clodio riuscì, lui patrizio, a farsi eleggere tribuno della plebe per il 58 a.C. grazie all’approvazione di Cesare e all’assenso di Pompeo. Non si trattava solo di una questione formale e si risolse in un nuovo scandalo. Per poter accedere alla carica riservata ai plebei, Clodio era ricorso ad uno sfrontato trucco giuridico: si era fatto adottare da un plebeo, tale Publio Fonteio, appena ventenne; ma l’adozione avrebbe dovuto essere ratificata dai comizi curiati, che era prevedibile non l’avrebbero concessa; dopo un tentativo di modificare la legge, Clodio ottenne da Cesare che, in qualità di pontefice massimo, la facesse votare dai comizi. Entrato in carica, si vide lo scopo di tutte quelle macchinazioni: già in febbraio propose e fece approvare la lex Clodia che condannava all’esilio il magistrato che avesse condannato a morte cittadini romani senza applicare le garanzie previste dalla legge. Per Cicerone, che da console aveva condannato i complici di Catilina senza concedere la provocatio ad populum fu l’esilio immediato, la confisca dei beni, la distruzione della nuovissima e magnificente casa sul Palatino. La benevolenza di Pompeo, assente in queste vicende, si manifestò solo l’anno seguente, quando attraverso la lex Cornelia presentata dal console Publio Cornelio Lentulo, pose fine alla permanenza di Cicerone in Grecia, durata quasi un anno e mezzo.

Consumata la sua vendetta, Clodio – sfruttando anche l’assenza di Cesare, forse l’unico che avrebbe potuto limitarne l’azione, che era partito ormai per le Gallie e la gloria – con distribuzioni gratuite di grano al popolo e la proposta di leggi demagogiche miranti a sovvertire il potere degli ottimati si forma una serie di clientele strettissime: molti nella plebe sono pronti a qualunque cosa ad un suo comando. L’azione intimidatoria di squadre di briganti, resi ciechi dall’odio politico e sociale, si diffonde rapidamente in tutta l’Urbe. Gli ottimati reagiscono opponendo a Clodio i propri sgherri, egualmente pronti a tutto, al comando di Milone. Tito Annio Milone, tribuno della plebe nel 57 a.C. e pretore nel 55, fu in quegli anni il baluardo aristocratico contro le azioni di disordine e di sovversione dello stato; ma, come sempre avviene quando si oppone l’odio all’odio, la violenza alla violenza, l’effetto fu ancora più tragico: i diritti e la sicurezza delle personalità dell’una e dell’altra parte erano ogni giorno alla mercè di ribaldi e assassini in una spirale sanguinaria e destabilizzante che l’ordine costituito non sembrava – e non fu – in grado di spezzare. Questi avvenimenti provocano in Pompeo gravi ripensamenti. Egli, che per natura non amava le insicurezze e che aveva, tra i pochi in quel contrastato periodo, sinceri scrupoli costituzionali, preoccupato della grave ingovernabilità della situazione a così breve tempo dalla partenza di Cesare, comincia a rimeditare la sua politica e a riavvicinarsi quasi fatalmente all’aristocrazia, che dal canto suo era ben disposta dalla gravità della situazione sociale e politica e dai successi di Cesare a perdonare le ‘scappatelle’ di Pompeo con i suoi nemici. Così già nel 56 a.C. Cesare, Crasso e Pompeo devono riincontrarsi per verificare i loro accordi. Il convegno avviene a Lucca, piccola cittadina al confine tra l’Italia e la Gallia Cisalpina (ancora per poco, poichè a breve Cesare porterà i confini d’Italia fino alle Alpi). La sostanza del nuovo patto, oltre ad alcune novità procedurali riguardanti le magistrature, risiedette nella prima spartizione di fatto dell’impero romano: Crasso e Pompeo si impegnavano a non prendere provvedimenti sulle Gallie prima del primo marzo del 50 a.C., lasciando la responsabilità delle nuove province a Cesare; in cambio essi ottenevano quali zone d’influenza, pure per i seguenti cinque anni, rispettivamente l’oriente e le due Spagne (Citerior e Ulterior). Avendo trovato tra le proprie aspirazioni nuovi punti di reciproco aiuto, i triumviri ricostituirono la saldezza dell’alleanza; tuttavia la spartizione del mondo romano, al pari di quella che seguì, ormai con la consapevolezza dell’esperienza, in occasione del secondo triumvirato, si rivelò una delle cause e assieme il primo dei prodromi della guerra civile. Le decisioni di Lucca furono prontamente ratificate anche legalmente l’anno seguente, il 55 a.C., quando Pompeo e Crasso furono allo scopo eletti consoli e presentarono rispettivamente la lex Pompeia de provinciis ordinandis, che stabiliva che l’assegnazione delle province ai magistrati dovesse essere fatta prima dell’elezione (in precedenza le province venivano estratte a sorte dopo l’elezione) e che le province consolari e pretorie dovessero essere assegnate mediante estrazione a sorte ai consoli e pretori usciti di carica cinque anni prima (e non l’anno prima come prescriveva la legge in precedenza), e la lex Licinia de provinciis C. Iulii Caesaris prorogandis, che prorogava il comando proconsolare di Cesare in Gallia. Anche Pompeo, avendo ottenuto come previsto il comando proconsolare della Spagna, sarebbe dovuto partire, ma decise di governare la provincia per mezzo di legati – la Spagna, già piegata nel secolo precedente, non richiedeva un controllo stretto – e riuscì a non recarvisi; cominciò invece a consolidare la supremazia in Roma e a riprendere i legami con gli ottimati. Crasso, invece, partì effettivamente per la Siria, dove ai confini dell’impero si affacciava un nuovo nemico secolare, il Parto, con il quale forse sperava di guadagnare quella gloria militare che ora solo a lui mancava nell’alleanza. Invece trovò la morte nel 53 a.C. nella disastrosa battaglia di Carre (oggi Harran in Turchia), dove furono perse anche le insegne delle legioni (poi recuperate con la diplomazia militare da Augusto più di trent’anni dopo). Venuto meno il cuscinetto, Pompeo ritenne che fosse arrivato il momento giusto per sganciarsi da Cesare e il triumvirato si estinse naturalmente.

Intanto la pressione dei Germani sulla Gallia non si attenua: dispersi i mercenari svevi di Ariovisto, altri sono pronti a prendere il loro posto nel tentare di stabilirsi al di qua del Reno. Nel 55 a.C. Usipeti e Tencteri attraversano il fiume a nord di Coblenza, la Confluentes che prendeva il nome dalla confluenza della Mosella nel Reno; subito intercettati dall’esercito romano, chiedono a Giulio Cesare il permesso di stanziarsi nella regione. Con intento forse luciferino, il comandante romano rifiuta il permesso e gli consiglia di recarsi nel territorio dei Morini, unico popolo indipendente in Gallia, e trattare con essi la propria permanenza tra loro; accorda una tregua allo scopo di permettere ai legati il passaggio nel territorio romano. L’orgogliosa imprudenza germanica fu però fatale alle tribù in marcia: quello stesso giorno i germani si scontrarono con uno squadrone di cavalleria romana, probabilmente senza reale motivo, causando qualche perdita e mettendolo in fuga; Cesare fu lesto a considerare l’incidente una infrazione della tregua e ad arrogarsi il diritto di imprigionare gli ambasciatori germanici, convenuti per fornire giustificazioni, e piombare sul campo avversario massacrando i nemici impreparati. Con azione altrettanto fulminea decise poi di dare una dimostrazione della preparazione, della disciplina e dell’efficienza dell’esercito romano: ordinò la costruzione di un ponte sul Reno, operazione che, coi mezzi dell’epoca e nonostante la larghezza del fiume e la rapidità della corrente, fu terminata in dieci giorni; trasportato l’esercito al di là del fiume, dopo aver devastato per due settimane o poco più il territorio nemico, tornò in Gallia e distrusse il ponte. Fu una impressionante dimostrazione di superiorità militare e tecnologica; distruggendo il ponte, Cesare intendeva fissare il confine sul Reno abbandonando simbolicamente in modo definitivo quella terra inospitale la cui conquista, però, avrebbe forse reso il futuro impero romano inattaccabile.

Ma l’estate, e con essa la stagione della guerra, non era ancora terminata: senza por tempo in mezzo, Cesare progettò allora un’altra impresa memorabile volta a consolidare il dominio romano in Gallia e forse con l’intento di porre le basi di una ulteriore espansione. Partendo dalla constatazione che da un lato gli aiuti alle ribellioni dei Galli erano venuti principalmente dai popoli, anch’essi di stirpe celtica, della Britannia, isola che ora rappresentava per i Galli la libertà e nello stesso tempo l’istigazione alla liberazione, e che d’altro canto nulla riuscivano a sapere i Romani riguardo l’isola, che i Galli non avevano mai visitato e della quale anche i mercanti conoscevano a mala pena i porti sulla Manica, Cesare stabilì di avviare una prudente ma decisa campagna di conoscenza e avvicinamento del territorio e dei popoli che abitavano il futuro Regno Unito. Se le sue speranze, se non i propositi, accarezzavano la possibilità di una conquista rapida e indolore come lo era stata quella della Gallia, esse furono deluse perché i Britanni si dimostrarono subito ben più bellicosi, uniti e gelosi della propria indipendenza di quello che erano stati i Galli. Nondimeno, l’azione di Cesare ebbe il merito di portare nell’orbita dei Romani e più in generale europea l’isola, che prima era ignota come si è detto agli stessi Galli, e rimane alla base della conquista che sarà condotta, comunque molto più tardi e in modo parziale per l’esaurirsi della spinta espansionistica romana, con un primo tentativo di Claudio e la successiva felice impresa di Giulio Agricola. Andando verso l’ignoto, ed essendo sul finire della stagione, la prudenza consigliò Cesare di inviare in avanscoperta Gaio Voluseno con una sola nave mentre egli, recatosi nel territorio dei Morini, prese a riattare la flotta già utilizzata contro i Veneti. L’impresa sembrò subito avere il vento in poppa, poiché i Britanni, essendo giunte alle loro orecchie le intenzioni dei Romani, annunciarono per tramite di ambasciatori il loro desiderio di mantenere buone relazioni con il nuovo potente vicino, Voluseno tornò con informazioni preziose e infine i Morini, ultimi resistenti della Gallia, si sottomisero all’autorità romana. Il vento cambiò non appena la flotta salpò. Cesare aveva diviso la fanteria, di cui aveva preso il comando, dalla cavelleria, facendole partire da porti diversi, ma dopo la breve traversata della Manica, la fanteria trovò ad attenderla i nemici, che evidentemente vigilavano efficacemente, schierati lungo tutta la costa dell’isola con l’appoggio dei cavalieri, che ai Romani appunto mancavano; solo dopo una lunga ricerca Cesare trovò un punto non presidiato e favorevole all’approdo, ma appena sbarcato l’esercito romano non poté comunque evitare lo scontro. La battaglia fu dura, ma il valore del Romano ebbe la meglio nonostante la situazione sfavorevole per la traversata, la scarsa conoscenza del luogo e l’assenza della cavalleria; tuttavia, i Romani, stremati, non poterono inseguire i nemici in fuga. Nel frattempo, il trasporto della cavalleria era dovuto ritornare sulla costa gallica accusando per di più qualche perdita; a questa notizia i Britanni, che avevano mandato legati a trattare, li richiamarono per prepararsi a una nuova battaglia, dalla quale uscirono però ancora sconfitti.

Il primo contatto con i Britanni, nonostante lo sfavore della sorte e grazie alla tenuta dell’esercito, si concluse in modo non svantaggioso per i Romani, i quali poterono ritornare in Gallia avendo lasciato una temibile impressione e con la promessa di ricevere ostaggi in pegno di amicizia e buona fede. Tuttavia, Cesare si rendeva ben conto che l’assetto del 55 a.C. era precario – non a caso solo due dei popoli vincolati dagli accordi inviarono ostaggi – e dedicò la prima parte dell’anno seguente, alla ripresa delle operazioni militari, a renderlo più stabile. Forte dell’esperienza conseguita, preparata una spedizione ancora più munita della prima, Cesare sbarcò nel medesimo luogo dell’anno precedente e inflisse subito una sonora sconfitta ai Britanni. Questi, consci delle difficoltà, si riorganizzarono stringendosi sotto la guida di Cassivellauno, re delle terre a nord del Tamigi, e iniziarono una lotta strenua. Una serie di scaramucce non decisive portarono i Romani a incalzare il nemico al di là del Tamigi, dove, nel cuore dei suoi domini, Cassivellauno fu sconfitto. Tuttavia, la coriacea unità dei Britanni gli fece ottenere condizioni di pace accettabili: i loro obblighi si riducevano al pagamento di un tributo e all’invio di ostaggi. I Romani rafforzavano così la propria presenza in Britannia, sia col mostrare la forza del proprio strumento militare sia coll’iniziare la rete dei contatti commerciali e diplomatici che spezzarono per sempre lo ‘splendido isolamento’ della Britannia portandola nell’orbita di Roma e dell’Europa; ma non fecero nessuna conquista.

E forse fu un bene, perché in Gallia si preparava la rivolta generale. I prodromi si ebbero con l’arrivo dell’autunno: mentre Cesare stanziava le legioni negli accampamenti invernali, piuttosto distanti per la difficoltà di ottenere i necessari approvvigionamenti dopo un anno di magro raccolto, i Carnuti – la cui capitale, Autricum, corrispondeva all’odierna Chartres, che dei Carnuti prende il nome – uccisero il re che Cesare aveva dato loro; di lì a poco le truppe romane stanziate presso gli Eburoni, nell’attuale regione delle Ardenne, furono attaccate negli accampamenti e Ambiorige, re degli Eburoni, dopo aver convinto i Romani ad uscire per cercare luoghi più sicuri, li attaccò a tradimento; poi, con Nervi e Atuatuci, si volse contro gli accampamenti dove erano alloggiate le truppe agli ordini di Quinto Cicerone, fratello del più celebre Marco, il quale si salvò solo perché riuscì ad avvertire tempestivamente Cesare che intervenne con le truppe a sua disposizione. Mossosi Cesare, i Treviri ne approfittarono per attaccare il campo di Tito Labieno, poi i Senoni si unirono ai Carbuti e via via si ribellarono tutti gli altri con la rapidità con la quale si diffondevano queste notizie; solo i Remi e naturalmente gli Edui rimasero fedeli ai Romani. Cesare stabilì necessario fare nuove leve e con l’arrivo della buona stagione del 53 a.C. l’esercito poté contare su dieci legioni, con le quali furono sconfitti nell’ordine i Nervi, i Carnuti e i Senoni, i Treviri, i Menapi e infine gli Eburoni; quest’ultima impresa richiese la costruzione di un secondo ponte sul Reno per poter occupare l’altra sponda e bloccare l’invio di rinforzi dalla Germania. Nella battaglia decisiva alla fine dell’estate gli Eburoni furono annientati, ma Ambiorige riuscì a fuggire; non toccò quindi a lui, come altrimenti sarebbe forse accaduto, essere giustiziato quale monito per chi avesse osato tradire i Romani e tentare la via della rivolta: davanti alle delegazioni di tutti i popoli gallici riunite a Reims, come oggi si chiama l’antica capitale dei Remi, di cui prende il nome, fu Accone, sobillatore di Carnuti e Senoni, ad essere flagellato e infine decapitato.

Ma la brace della rivolta era stata solo coperta da un velo di cenere. Sorse il re degli Arverni, Vercingetorige, e riunì attorno a sé tutti i popoli della Gallia per combattere l’ultima e più grande battaglia per la libertà. Vercingetorige si dimostrò temibile non solo per le sue qualità di comandante ma soprattutto per l’abilità della sua diplomazia che giunse a guadagnare persino gli Edui alla sua causa. Inoltre egli, che aveva servito i Romani nella cavalleria ausiliaria, conosceva bene le tecniche di addestramento e le tattiche dei suoi avversari: non solo poté a lungo a contrastarle efficacemente, ma riuscì anche a imporre al proprio esercito una disciplina di stampo romano; esercito che infine era ben più numeroso di quello romano, benché composito. Furono nuovamente i Carnuti ad aprire le danze nel pieno inverno del 53 a.C. Cesare, nonostante la neve abbondante, come d’abitudine intervenne fulmineamente e dopo aver distrutto la capitale dei Carnuti si diresse a sud della Loira per assediare Avaricum, capitale dei Biturigi di cui prende il nome l’odierna Bourges. Vercingetorige intervenne in loro aiuto applicando con successo una tattica di guerriglia che rifiutava lo scontro in campo aperto e bloccava invece i rifornimenti ai Romani con piccole ma continue scaramucce. Bourges finì per capitolare, ma il massacro della popolazione soffiò sul fuoco della ribellione: mentre Cesare si dirigeva verso Gergovia, capitale degli Arverni (presso l’odierna Clermont-Ferrand) e l’assediava, la fazione anti-romana prendeva il soprravvento tra gli Edui. La notizia della defezione degli Edui costrinse Cesare a recarsi immediatamente presso di loro per recuperarne l’alleanza: fu forse uno dei pochi errori strategici di Cesare. Egli pensava probabilmente che, data la lunga amicizia con i Romani, sarebbe stata impresa facile e il vantaggio tale da compensare la momentanea interruzione della lotta contro Vercingetorige, ma si sbagliava: riguadagnati gli Edui in apparenza, li perse definitivamente quando, dopo essere tornato a Gergovia, che si era potuta riorganizzare ed era adesso molto più munita, subì gravi perdite e dovette infine desistere dall’assedio. A questo punto, in una conferenza di tutti i popoli gallici a Bibracte, capitale degli Edui, Vercingetorige si fece assegnare il comando supremo della lotta per la libertà; alla politica di non intervento, alla quale si erano appena sottratti gli Edui, con i Remi e i Lingoni aderirono solo i Treviri. Presso i Lingoni riparò Cesare, che aveva bisogno di rinforzi e arruolò uno squadrone di cavalieri mercenari germanici. Riorganizzato rapidamente l’esercito, mentre si riportava a sud fu attaccato dalle truppe ribelli; ma i Romani, grazie anche all’apporto del nuovo contingente germanico, respinsero gli attaccanti con grave perdite. Vercingetorige decise di riparare ad Alesia: fu un errore decisivo e Alesia si trasformò in una trappola mortale. Rapidissimo, Cesare intuì la situazione favorevole e strinse Alesia d’assedio. Subito cominciò a prepararsi un grande esercito gallo di liberazione, e Cesare rispose chiudendosi le spalle con un altro vallo; tra i due anelli dispose gli accampamenti e l’esercito. I liberatori giunsero dopo circa un mese; priodo che era stato durissimo per gli assediati, privi di qualunque possibilità di sortita, ma anche per gli assedianti, stretti nelle loro stesse fortificazioni. Dopo quattro giorni di accaniti combattimenti, con i Romani impegnati contemporaneamente sia sul fronte interno che sul fronte esterno, i ribelli sembrarono avere il sopravvento quando una breccia fu aperta nell’anello esterno; l’entusiasmo dei Galli durò poco, perché l’azione congiunta di Labieno, che ricacciò gli assedianti fuori dal campo romano, e di Cesare, che guidò personalmente la carica della cavalleria e delle truppe di riserva alle spalle dei nemici, segnò il capovolgimento delle sorti della battaglia e la rovinosa sconfitta dei Galli e della loro libertà.

Vercingetorige si arrese il giorno seguente; tenuto in vita fino al trionfo in Roma, fu allogiato nell’antico carcere Mamertino, ove poi morì in circostanze poco chiare. Il triste memoriale che troneggia oggi nel sito dell’antica Alesia è un monumento alla sfortuna dell’uomo. Poche scaramucce segnarono la definitiva pacificazione della Gallia piegata. Già nell’inverno tra il 51 e il 50 a.C. Cesare poté proclamare provincia le regioni conquistate. Qundo di lì a poco ne avrà bisogno per la guerra civile, potrà ritirare la maggior parte delle legioni dalla Gallia.

Antefatto della guerra civile

Mentre gravi cose si preparano in Gallia, nel 54 a.C. Cesare è colpito da due gravissimi lutti: muoiono la madre Aurelia e, di parto, la diletta figlia Giulia. Quest’ultima era anche il principale legame tra Cesare e Pompeo e sembra che fosse anche molto sentito, non solo perché i legami di sangue avevano grande importanza a Roma, ma soprattutto perché Pompeo amava sinceramente la giovane moglie quanto profondo era l’affetto di Cesare per la figlia. Ma la vita continua e Pompeo, libero di utilizzare ancora il vincolo matrimoniale a scopo politico, conduce in sposa la figlia di Quinto Cecilio Metello, uno dei membri ottimati più conservatori del senato. Nel 53 a.C., la morte di Crasso in Siria espone i due contendenti alla certezza dello scontro inevitabile. Pompeo, che vede superate le sue glorie militari, ormai sbiadite, dalle imprese dell’alleato e rivale, più recenti e più impressionanti, sa che Cesare ha il favore del popolo, mentre a lui non rimane implicitamente che l’aristocrazia: anche se l’ha abbandonato con gli accordi del triumvirato, il senato è ben disposto a perdonarglielo pur di averlo amico contro Cesare, divenuto troppo popolare e ora a capo di un esercito potente e cementato dalle operazioni sul campo. Ma la causa scatenante della guerra civile è probabilmente il disordine dello stato. L’anarchia regna ormai sovrana in Roma senza che la si possa contrastare: bande di disperati pronti a tutto al soldo di sovversivi come Clodio, per la fazione popolare, e Milone, per quella aristocratica, si scontrano ogni giorno nel sangue per le strade dell’Urbe; squadre armate possono girare indisturbate per l’Urbe in pieno giorno, mentre le personalità politiche non possono più uscire di casa, e spesso stare semplicemente in casa, senza la protezione di guardie del corpo. L’apice si raggiunge alla fine del 53 a.C. quando, per la prima volta nella storia di Roma, risulta impossibile indire i comizi ed eleggere i magistrati per l’anno successivo. Il 18 gennaio del 52 a.C. Clodio muore ucciso dalla banda di Milone in un agguato vicino Roma. Milone, difeso con poca convinzione e minor successo da Cicerone – l’orazione Pro Milone che possediamo è una rivisitazione in vista della pubblicazione: un aneddoto vuole che Milone, letta la seconda versione, abbia esclamato che, se Cicerone avesse parlato così, egli non sarebbe stato condannato -, deve abbandonare Roma e si stabilisce a Marsiglia; tornerà poi per organizzare una ribellione contro il dominio di Cesare, ma finirà condannato a morte nel 48 a.C. Pompeo, che era di temperamento incerto in politica tanto quanto era deciso in battaglia, aveva fino ad allora pencolato tra le sicurezze del triumvirato e le incognite dello scontro per il potere assoluto; ma ora, spaventato dall’ingovernabilità della repubblica, capisce che è arrivato il momento della lotta e l’unico partito che gli rimane è anche quello per lui più congeniale, quello aristocratico, con il quale si lega sempre più strettamente. Vista l’impossibilità di far svolgere regolari elezioni per il 52 a.C. il senato con un senatus consultum ultimum elegge Pompeo consul sine collega per far fronte ai disordini. Questa aberrazione giuridica – l’ordinamento romano già prevedeva una carica straordinaria, la dittatura, che aveva però durata semestrale – oltre a testimoniare la ingovernabilità in cui era caduta la res publica, era anche il mezzo con cui il senato sanciva l’avvicinamento con Pompeo. Il quale peraltro si dimostra ancora una volta abile e capace e riesce a ristabilire la pace civile.

Tra l’altro, Pompeo approfitta della carica per presentare e far approvare la Lex Pompeia de iure magistratuum, che obbligava a presentare di persona al senato in Roma la propria candidatura. Era accaduto che un plebiscito indetto quello stesso 52 a.C. aveva chiarito che pur in assenza da Roma si poteva presentare la candidatura al consolato. Il plebiscito favoriva chi era impegnato nel comando militare e civile di province lontane: Cesare, ad esempio, il quale avrebbe potuto lecitamente candidarsi al consolato per il 49 a.C. (cioè dieci anni dopo il suo precedente consolato, come prescriveva la legge) restando nel contempo a capo delle legioni in Gallia. Pompeo sconfessa il plebiscito e istituisce la norma contraria, tuttavia aggiunge l’articolo transitorio che come privilegium concesso dal popolo romano sarebbe stato permesso presentarsi alle elezioni consolari del 49 a.C. senza intervenire di persona se impegnati nell’amministrazione della provincia. Se Cesare è pronto a sfruttare ogni situazione per coronare le sue ambizioni, non intende forzare la mano. Egli è forte degli accordi di Lucca, ratificati poi in legge, che gli concedono l’imperium e carta bianca in Gallia fino al 50 a.C. Tuttavia, non è sordo alle evidenze di resa dei conti che arrivano da Roma, e gli è immediatamente chiaro che l’elezione a consul sine collega di Pompeo nel 52 a.C. trasforma di fatto il rivale in un dictator con mandato annuale. Quando nel 51 a.C. in senato Marco Claudio Marcello, console quell’anno con Servio Sulpicio Rufo, torna con insistenza a chiedere che Cesare rassegni il comando e torni inerme in patria, Cesare avvia una serie di trattative col senato e con gli esponenti politici di rilievo, nel tentativo di trovare un accordo che scongiurasse la guerra civile e potesse garantire a lui un futuro politico, ma che in realtà si perdono nel dipanare il fitto groviglio dei cavilli giuridici e della argomentazioni di parte. Perciò, la soluzione della questione politica, attesa ormai da tutti dopo la fine della guerra gallica con la resa di Alesia, si trascina tra lo spirare di forti venti di guerra civile.

All’inizio del 50 a.C., consoli Lucio Emilio Paolo e Caio Claudio Marcello, cugino del console dell’anno precedente e non meno avverso a Cesare, in senato si pose la questione del comando di Cesare, che gli accordi di Lucca avevano rimandato al primo marzo di quell’anno. Lontano Cesare, a Roma di fatto solo i tribuni della plebe si schierarono dalla sua parte. Il tribuno Caio Scribonio Curione si adoperò affinchè la questione del comando di Cesare non venisse discussa e invece si tentasse di dirimere la contesa indebolendo entrambi i contendenti. Il senato deliberò allora di togliere a Cesare e Pompeo ogni potere straordinario e di alienare una legione ad entrambi, da destinare alla nuova guerra partica. In base alla delibera, Cesare restituì una legione, ma Pompeo, nello scegliere la sua, rimandò quella che in passato aveva dato in prestito a Cesare per la campagna gallica. Aggirando in questo modo il decreto del senato, Pompeo costrinse il solo Cesare a privarsi di forza militare, e in misura doppia rispetto a quanto previsto dal senato. Cesare, pur tradito e beffato, obbedì ma reagì arruolando due nuove legioni. In questo modo l’obiettivo del disarmo bilaterale presente nella delibera senatoria si traduce in un aumento delle forze in campo. Forse allora anche la parte più moderata e favorevole all’accordo in senato, che era fino ad allora faticosamente maggioritaria, si sgretola. Entrambi i contendenti, Cesare e il senato, studiano le proprie mosse, finchè Cesare decide, nel 50 a.C. allo scadere del suo mandato proconsolare nelle Gallie e nell’Illirico, di avanzare la propria candidatura a console per l’anno seguente. Il senato risponde dichiarando inammissibile la sua candidatura, poichè egli era assente da Roma, e ordinando a Cesare di abbandonare immediatamente, prima dello scadere effettivo del proconsolato, il governo delle province a lui assegnate e il comando delle sue legioni, e di rientrare in Italia da privato cittadino. In effetti si è visto che la presenza fisica nell’Urbe era condizione indispensabile per l’esercizio dell’elettorato attivo; inoltre, se la richiesta di rientro di Cesare già avanzata in senato quando si era nel mezzo delle campagne della guerra gallica era un malcelato attacco alle fortune cesariane, non lo era più adesso che la guerra era terminata con pieno successo, le ribellioni domate, la pacificazione assicurata. Tuttavia, la clausola inserita alla fine della Lex Pompeia del 52 a.C. consentiva a Cesare di presentare la propria candidatura anche se assente, mentre la risposta del senato, oltre a privarlo di questa possibilità, lo obbligava a lasciare il comando prima del tempo. D’altronde, a Pompeo non era neppur messo in dubbio il comando delle sue legioni, quindi Cesare, ottemperando alle richieste del senato, si sarebbe messo in una situazione ben difficile con timore, prima che per la sua carriera politica, per la sua incolumità personale, dei suoi cari, dei suoi amici e dei suoi beni. Invece a Cesare si imponeva un sopruso immeritato, che di fatto attentava alla sua dignitas – tema così caro agli esponenti politici del tempo – e questo immediatamente dopo la rocambolesca sottrazione delle due legioni con il pretesto della guerra partica. Sembra che la mossa di chiedere la candidatura al consolato sia stata studiata proprio per provocare la reazione intransigente del senato: reazione che infatti ci fu, più scomposta che intransigente.

La guerra civile

Alla fine del 50 a.C. Cesare, lasciato il grosso dell’esercito negli accampamenti invernali, si portò con la XIII legione (una di quelle che aveva arruolato dopo il decreto del senato e la restituzione delle due legioni) nella Gallia Cisalpina, più esattamente a Ravenna, nei pressi del confine con quella che allora era l’Italia. Dal lato del mare Adriatico, il confine tra l’estrema provincia assegnata a Cesare e l’Italia era segnato dal torrente Rubicone, poco a nord di Ariminum (oggi Rimini): un magistrato non poteva entrare in Italia con il proprio esercito e presentarsi a Roma in armi senza essere considerato aggressore della res publica. Cesare si fermò oltre il confine, ma il più vicino possibile per controllare efficacemente l’operato del senato e poter prendere e porre in essere rapide decisioni. Nel frattempo vennero eletti per il 49 a.C. ancora due consoli avversi a Cesare, Caio Claudio Marcello, figlio del console di due anni prima, e Lucio Cornelio Lentulo Crure, che era oppresso dai debiti e sperava secondo tradizione di ripianare le finanze col governo di una provincia. A Ravenna il 26 dicembre del 50 a.C. Cesare scrisse e inviò al senato una lettera nella quale sostenne di essere pronto a lasciare il comando del suo esercito se Pompeo avesse fatto altrettanto. La proposta equivaleva all’accettazione della delibera fatta approvare quello stesso anno in senato dal tribuno della plebe (uscente di carica) Scribonio Curione. Secondo Cicerone, invece, la lettera di Cesare era ultimativa. Latore della missiva fu lo stesso Curione, ancora alla disperata ricerca di un accordo dell’ultimo minuto; la consegnò ai consoli il giorno in cui i magistrati entravano in carica, il primo gennaio del 49 a.C. in occasione della seduta d’apertura dell’anno in senato. I consoli però non vollero discutere la lettere in senato, e i nuovi tribuni della plebe Marco Antonio e Quinto Cassio Longino ottennero solo che la lettera venisse letta. Subito Scipione Metello, emissario di Pompeo, il quale non era a Roma perchè investito di imperium ma era comunque acquartierato vicino all’Urbe, assicura che Pompeo è intenzionato a difendere la res publica, se il senato lo asseconda, ma minaccia di non concedere più il suo aiuto se il senato tarda ad accoglierlo. Alcuni senatori, invece, presentano mozioni tese a prendere tempo, e Marco Calidio propone che Pompeo torni nella propria provincia per allontanare il ricorso alle armi. I consoli, e soprattutto Lentulo, si scagliano violentemente contro queste proposte, impediscono che vengano messe ai voti, trascinano la maggioranza del senato ad approvare la proposta di Scipione, che cioè Cesare lasci l’esercito entro pochi giorni, se non lo fa sia considerato nemico pubblico. I tribuni della plebe cercano di opporre il veto ai decreti del senato, come era garantito loro dallo ius intercedendi, ma ne vengono impediti.

Nei giorni seguenti il senato si riunisce ogni giorno (ad eccezione del 3 e del 4 gennaio, che erano dies comitiales o giorni riservati ai comizi popolari), anche fuori Roma, affinchè potesse prendere parte alle sedute anche Pompeo. Il 7 gennaio, il senato ricorre al senatus consultum ultimum con il quale dichiara la patria in pericolo e affida ai consoli il tradizionale incarico di provvedere ne quid res publica detrimenti capiat. Delibera inoltre di nominare Pomepo supremo difensore della res publica e di concedergli perciò pieni poteri sia militari che finanziari, in particolare il potere di fare nuove leve e di accedere all’erario pubblico. I tribuni della plebe fuggono da Roma e raggiungono Cesare a Ravenna, che attende, ignaro di tutto e forse curioso, la risposta alla propria proposta. Dai Commentarii (I, 5) la incisiva descrizione di quel giorno convulso e decisivo per le future sorti dell’Urbe:

[5] His de causis aguntur omnia raptim atque turbate. Nec docendi Caesaris propinquis eius spatium datur, nec tribunis plebis sui periculi deprecandi neque etiam extremi iuris intercessione retinendi, quod L. Sulla reliquerat, facultas tribuitur, sed de sua salute septimo die cogitare coguntur, quod illi turbulentissimi superioribus temporibus tribuni plebis octavo denique mense suarum actionum respicere ac timere consuerant. Decurritur ad illud extremum atque ultimum senatus consultum, quo nisi paene in ipso urbis incendio atque in desperatione omnium salutis latorum audacia numquam ante descensum est: dent operam consules, praetores, tribuni plebis, quique pro consulibus sunt ad urbem, ne quid res publica detrimenti capiat. Haec senatus consulto perscribuntur a. d. VII Id. Ian. Itaque V primis diebus quibus haberi senatus potuit, qua ex die consulatum iniit Lentulus, biduo excepto comitiali, et de imperio Caesaris et de amplissimis viris, tribunis plebis, gravissime acerbissimeque decernitur. Profugiunt statim ex urbe tribuni plebis seseque ad Caesarem conferunt. Is eo tempore erat Ravennae expectabatque suis lenissimis postulatis responsa, si qua hominum aequitate res ad otium deduci posset.

Nel racconto e nella propaganda cesariana solo del senato, della parte più riottosa e mossa da interessi personali, è la responsabilità della sanguinosa guerra civile, che egli non voleva e aveva cercato di scongiurare in ogni modo. E la sua condotta deve essere considerata una difesa contro la gravissima offesa alla sua dignitas e a quella di magistrati ragguardevoli, i tribuni della plebe.

Cesare sa che non è il momento di perdere tempo, richiama le altre legioni e il 12 gennaio del 49 a.C. decide che il dado è tratto e varca con la XIII legione il Rubicone per fermarsi a Rimini: con questo semplice atto la guerra civile è iniziata (è da notare che il nome Rubicone non compare nemmeno nei Commentarii: citarlo esplicitamente avrebbe ricordato con evidenza al lettore l’illiceità del suo operato). Mentre Cesare, nella sua rapida marcia di avvicinamento a Roma, occupa l’Italia centrale, Pompeo lascia subito Roma dirigendo a Brindisi, mentre i consoli e gli altri magistrati riparano a Capua. Il piano di Pompeo è di non incontrare Cesare sul suolo italico, che non può difendere, ma di portarlo in Grecia, poichè a Cesare manca una flotta; in Grecia egli può organizzarsi, mentre Cesare deve costruire una flotta in Italia, e può cercare di stringerlo nella morsa tra la Grecia e la Spagna, dove dispone di altre legioni al suo comando. Nonostante il fulmineo tenativo di Cesare di intercettarlo a Brindisi, Pompeo riesce a passare in Grecia con le truppe al suo seguito. Cesare completa invece la conquista dell’Italia, si assicura provviste, combatte i pompeiani in Africa, nelle isole, in Spagna. Nel frattempo fa votare la lex Roscia con la quale concede la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi della Gallia Cisalpina, gli unici sul suolo italico che ancora non l’avessero. In questo modo porta i Cisalpini dalla sua parte e li rende fonte di reclutamento legionario. È questo l’atto di nascita dell’Italia romana dalle Alpi allo stretto di Messina – l’atto di nascita dell’unità d’Italia avverrà un quarantennio più tardi, nel 6 a.C., quando Augusto porterà i confini della regione Italica ad ovest fino al fiume Varo, presso Nizza, e ad est fino al fiume Arsia, che sbocca nel golfo del Quarnaro: e Dante avrebbe confermato che l’Arsia ‘Italia chiude e i suoi termini bagna’. Il 31 marzo Cesare è ancora a Roma, dove tenta nuovamente la strada della negoziazione con i pochi senatori rimasti; trova un accordo ma non ambasciatori per presentare la proposta a Pompeo. Dirige allora in Gallia per affrontare il grosso dell’esercito pompeiano proveniente dalla Spagna, ben sette legioni, stringe d’assedio Marsiglia e batte i pompeiani a Ilerda. Tornato a Roma prima della fine dell’anno, viene nominato dittatore comitiorum habendorum causa. Indice quinid le nuove elezioni e viene eletto console per l’anno successivo: è il suo secondo consolato dopo quello del 59 a.C. Solo un anno prima cercava di partecipare alle elezioni. Ma la crisi economica conseguenza della guerra rischia di tramutarsi in crisi sociale: la fame è endemica e si teme la cancellazione dei debiti. Cesare procede a una distribuzione di frumento, promette una distribuzione di denaro e alla cancellazione dei debiti preferisce renderne più agevole il pagamento. Dopo solo undici giorni di amministrazione civile, rimette secondo le leggi il potere dittatoriale ed è di nuovo a Brindisi, ove trova il suo esercito, sette legioni, lì radunato, e lo traghetta in Epiro.

Siamo ormai nel 48 a.C. I due avversari si studiano e punzecchiano in varie battaglie e scaramucce, spesso favorevoli a Pompeo, finchè nella piana di Farsalo in Tessaglia si ha lo scontro decisivo. È il 9 agosto del 48 a.C. e segna la vittoria di Cesare. Secondo Asinio Pollione, che aveva partecipato agli eventi dalla parte di Cesare, sembra che egli, di fronte ai morti sul campo di Farsalo, abbia esclamato che l’avevano voluto loro, esprimendo con questo il proprio rammarico per una guerra civile che egli avrebbe voluto evitare. Pompeo, spinto dagli obblighi di riconoscenza che a lui legavano il faraone Tolomeo XII Aulete, riesce a fuggire in Egitto dove però regna il figlio di Tolomeo XII, Tolomeo XIII Dionisio (tramite la reggenza, a causa della sua giovane età, di Potino), assieme alla sorella maggiore Cleopatra VII. La consanguineità non impediva a Tolomeo e Cleopatra di tramare l’uno contro l’altra per tenere il trono tutto per sé. Poco prima dell’arrivo di Pompeo, nella primavera del 48, Tolomeo e Potino avevano infine tentato di deporre Cleopatra con la forza; ella però aveva reagito mettendo insieme un grande esercito e ingaggiando battaglia; ad aggravare la guerra civile si erano aggiunte le pretese al trono di un’altra sorella finora esclusa dal potere, Arsinoe IV. Fu quello il confuso momento nel quale Pompeo arrivò in Egitto cercando scampo e alleati per riprendere la lotta contro Cesare. Tolomeo finse buona disposizione verso le proposte di Pompeo, ma comandò a Potino di ucciderlo per ingraziarsi il potente vincitore Romano; l’assassinio fu eseguito a tradimento il 28 o il 29 settembre del 48 a.C. Contro le attese di Tolomeo, quando in ottobre arrivò e si vide offrire la testa e l’anello di Pompeo in dono Cesare inorridito e scandalizzato dall’affronto fatto a un eminente cittadino romano e a Roma stessa fece giustiziare Potino; le ceneri e l’anello di Pompeo furono riconsegnate alla moglie Cornelia. Citando il giudizio di Catone, Plutarco (De vita Caesaris) dirà che la tragedia di Pompeo non era nella sconfitta ad opera di Cesare, ma nell’essere stato di Cesare troppo a lungo amico; dalla loro amicizia originava la guerra civile.

Vedendo lo stato di debolezza dell’Egitto, la cui monarchia ellenistica era peraltro già da tempo nell’orbita romana, Cesare si fermò a sistemare la confusa situazione politica locale a vantaggio dello stato romano. L’Egitto divenne una sorta di protettorato di Roma sotto i sovrani legittimi Cleopatra e Tolomeo, che Cesare, secondo l’uso delle dinastie egiziane, fece sposare tra loro. Cleopatra era nel frattempo riuscita a entrare nelle grazie di Cesare e a divenire la sua amante – da essa Cesare ebbe un figlio, Cesarione, poi fatto giustiziare da Ottaviano. La permanenza di Cesare in Egitto si prolungò anche per le trame inesauste di Tolomeo, il quale, alleatosi con Arsinoe, trovò facile presentare agli Egizi i Romani come conquistatori – lo erano – e Cleopatra come traditrice asservita ai Romani. Nel dicembre del 48 a.C. gli abitanti di Alessandria si ribellarono, l’esercito egiziano di Tolomeo e Arsinoe si gettò nella città ad ingaggiare battaglia; nei tumulti e nella lotta molti edifici furono danneggiati e anche la celebre e magnifica Biblioteca fu data alle fiamme. Gli Egiziani occupano rapidamente parte della città; Cesare e Cleopatra, asserragliati nel palazzo reale, riescono a fuggire, ma sono stretti d’assedio nell’isola di Faro, dove attendono rinforzi dall’Asia. Quando finalmente da Pergamo giunsero i rinforzi, la vittoria fu di Cesare e quindi di Cleopatra. Tolomeo e Arsinoe furono costretti all’esilio, mentre Cleopatra associava al trono il giovanissimo fratello Tolomeo XIV; pochi giorni dopo, il 13 gennaio del 47 a.C., Tolomeo morì annegato mentre attraversava il Nilo. Spegnere la rivolta egiziana impegnò poi Cesare fino al marzo del 47. Forse è grazie all’influenza di Cleopatra che Cesare concepisce il progetto di una nuova monarchia di stampo ellenistico, almeno nella concezione divina della sovranità. Questi concetti dovevano peraltro essere già ben presenti a Cesare e del resto furono rielaborati profondamente da Augusto e dai suoi successori, i quali fecero della divinizzazione dei sovrani essenzialmente il mezzo per sfruttare la diffusissima superstizione del popolo, mentre non ebbero una vera e propria corte di stampo e sfarzo orientali se non forse all’epoca del declino dell’impero.

Dopo la morte di Pompeo, le sorti della guerra civile sono virtualmente decise, ma i pompeiani non si danno ancora per vinti: Cesare impiegherà ancora due anni per piegarne la resistenza. Ma prima di poter rimettere piede a Roma deve ancora sbrigare una faccenda: in Asia minore Farnace, figlio di Mitridate Eupatore e re del Bosforo, si ribella. Cesare passa in Asia e con un’altra campagna fulminea con la vittoriosa battaglia di Zela, nell’agosto del 47 a.C., doma anche questa ribellione. Cesare è di fatto il centro del potere a Roma: nel 47 a.C. viene nuovamente nominato dictator, questa volta per un anno. Libero finalmente di agire, organizza nel 46 a.C. una campagna contro i fedelissimi di Pompeo in Africa; in aprile li affronta a Tapso e vince di nuovo. Approfittando della sua presenza lì, annette alla repubblica anche il regno di Numidia. Infine, l’anno seguente, nel marzo del 45 a.C., sconfigge a Munda, in Spagna, l’ultima resistenza guidata da Tito Labieno, che era stato suo legato in Gallia, e dagli stessi figli di Pompeo. Sesto Pompeo, scampato a Munda, combatterà peraltro ancora per un decennio fino alla battaglia di Nauloco. A Cesare non rimane che ricevere onori: nell’agosto e nel settembre del 46 a.C. celebra quattro trionfi, per le vittorie su Gallia, Egitto, Bosforo e Africa; un quinto lo aggiunge nell’ottobre del 45 a.C. dopo la vittoria di Munda. Ma gli onori militari impallidiscono in confronto agli onori civili che egli accumula in pochissimo tempo, incredibili nel tradizionale stato romano, comprensibili per il primo a ergersi a dominatore assoluto della res publica.

Le idi di marzo

Già nel 47 a.C., quando ancora non si erano spenti gli ultimi focolai di resistenza pompeiana ma era ormai chiaro chi fosse il padrone, Cesare è nominato dictator per un anno. La carica gli viene prorogata nel 46 a.C. per altri dieci anni rei gerendae causa. Nel 44 a.C. sarà infine nominato, con un senatus consultum, dictator perpetuus. In pochi anni si era passati dalla dittatura semestrale, usata in casi eccezionali di particolare pericolo, a quella annuale di Pompeo, rivestita delle apparenze del consolato, per la gravità della situazione generale, a quella annuale di Cesare del 47 ancora per motivi particolari, alla dittatura decennale e poi a vita semplicemente per governare. Viene nominato console ancora con durata decennale, gli viene conferito a vita il titolo di imperator, cioè comandante, e quello di parens patriae, ottiene i privilegi regali – che a Roma non è mai stato di alcuno prima di lui – di far coniare la sua immagine sulle monete e quello di giurare fedeltà in suo nome.

Va dato atto a Cesare che usò il potere non solo per consolidare la sua posizione e il suo prestigio, ma anche per provvedimenti di carattere pubblico e sociale. Gli anni della guerra civile furono anni difficili non solo per la repubblica e il senato, ma anche per il popolo che aveva spesso sofferto la fame. Marco Antonio nel 47 a.C. dovette ricorrere all’esercito per domare i tumulti. Cesare, padrone assoluto del campo, per prima cosa si riconcilia il favore della plebe urbana con distribuzioni straordinarie, nei tempi e nella quantità, di frumento. Nello stesso tempo, però, scoglie le associazioni popolari che così spesso negli ultimi decenni erano state strumento di mobilitazione della masse popolari e di disordini civili. Vara un grande programma di opere pubbliche e in particolare inizia quella ristrutturazione dell’Urbe che, portata a termine da Agrippa sotto Augusto, la farà diventare la degna capitale di un regno (verso la fine della sua vita Augusto si glorierà con ragione di aver trovato una città di mattoni e di averla lasciata di marmo); in particolare, costruisce il primo grande foro monumentale di Roma, il forum Iulium o forum Caesaris. Consolida l’espansione romana applicando il metodo romano già collaudato dei rapporti di amicizia con re e popoli vicini ai confini, e preparando per Roma il ruolo di centro di una monarchia universale. Attua riforme di un respiro immortale, come quella del calendario che prenderà appunto il nome di calendario giuliano e durerà inalterato per sedici secoli e, con limitate modifiche, fino ai giorni nostri (ed è ancora in uso presso la chiesa ortodossa). Attende al rapido aggiornamento delle istituzioni repubblicane alla nuova forma istituzionale che va introducendo. Apre a molti homines novi i ranghi senatori – uomini suoi, certo – provenienti dai provinciali, dalla borghesia e addirittura dal popolino. È ad esempio il caso di Ventidio Basso, uomo di umili origini che era stato mulattiere e che sarà poi console nel 43 a.C. e trionferà poi sui Parti nell’ultima spedizione progettata da Cesare.

Proprio questo processo di trasformazione indolore, almeno in rapporto alle sanguinose guerre civili, della repubblica in monarchia, portato avanti rapidamente e indefessamente, tanto che sembra non doversi arrestare mai, rende risoluti i cuori dei non pochi che vedono nella fine delle istituzioni repubblicane la fine della libertas e arma le mani di un gruppo di congiurati che, in un certo senso giustamente, vede nella fine delle istituzioni repubblicane la fine di un mondo. Anche l’organizzazione della campagna partica, che procede fulminea, contribuisce probabilmente a far precipitare gli eventi: i congiurati non vogliono attendere impotenti il verificarsi di un altro successo che consolidi la posizione del dittatore. Cesare non ebbe il tempo di esercitare il potere assoluto che si era conquistato poichè morì, trafitto da venticinque pugnalate mentre si recava a una seduta del senato all’ingresso della curia del teatro di Pompeo in Campo Marzio, alle idi di marzo, cioè il quindicesimo giorno, del 44 a.C. per opera della congiura ordita da Marco Giunio Bruto, probabilmente figlio naturale di Cesare, e Gaio Cassio Longino. È rimasta famosa la circostanza, tramandata da Appiano, che i segni degli dei fossero sfavorevoli alla sua apparizione nella curia di Pompeo, ove avvenne il fatto, ma Cesare li avesse trascurati, come aveva trascurato i consigli dei molti che lo scongiuravano di non andare ad una seduta che sembrava un pretesto. Certo è che la assoluta fedeltà dei veterani e delle legioni e l’appoggio incontrastato di cui sembrava godere da parte del popolo e persino dal senato, sconfitto e annientato, contribuivano a dare a tutti, e forse allo stesso Cesare, l’idea di una sorta di inviolabile sacralità personale. Non a caso, quando il 14 febbraio del 44 a.C. gli avevano consegnato il senatoconsulto con la nomina a dittatore a vita, egli aveva promulgato immediatamente tre provvedimenti assai significativi che decretavano un’amnistia generale (ancora una manifestazione di clementia), licenziavano la sua guardia del corpo e affidavano la sicurezza della sua persona al solo rispetto dei giuramenti di fedeltà.

Si discute su quali fossero i suoi progetti, quale fosse il tipo di monarchia che avesse in mente, posto che la monarchia fosse la sua vera aspirazione. Si sa che il 15 febbraio del 44 a.C., il giorno dopo aver ricevuto la dittura a vita, rifiutò per tre volte la corona regale che Antonio cercò di imporgli sul capo mentre assisteva ai Lupercalia. D’altra parte, raccontano, giudicò Silla un analfabeta perchè aveva rifiutato la dittatura, che egli aveva accettato. Certo è che egli pose le basi di quella monarchia che poi Augusto codificò genialmente inquadrandola nella costituzione tradizionale romana . Il senato piegato gli aveva tributato onori regali e aveva decretato per la sua persona uno statuto così eccezionale che era forse già statuto divino, ed egli non li aveva rifiutati. Inoltre, aveva cercato un successore, come fanno i re, e l’aveva trovato nella persona di un suo pronipote, Gaio Ottavio, figlio di Azia, a sua volta figlia di sua sorella Giulia. L’aveva adottato ma non gliel’aveva comunicato: Ottavio aveva solo diciannove anni quando apprese della morte del prozio e di essere stato adottato e nominato suo erede universale. Ma Cesare aveva evidentemente visto giusto, poiché queste sole labili credenziali bastarono al giovinetto per decidere di entrare nell’agone politico dominato da navigati di lunga esperienza, raggiungere i veterani di Cesare per farsi accogliere come suo successore e porsi come rivale del nuovo padrone di Roma, Marco Antonio.

Che Cesare stesse preparando la campagna contro i Parti, la sua nuova impresa, sembra certo: sedici legioni erano concentrate allo scopo in Epiro e Macedonia. Così come sembra probabile che proprio per evitare le conseguenze attese dalla vittoria, nuovi onori e forse la temuta tirannide, i congiurati agirono per impedirgliela: si dice che la partenza per la campagna partica fosse fissata per il 18 marzo. E forse, pensando al pericolo costante che l’impero persiano avrebbe rappresentato per il mondo romano, se Cesare avesse potuto sconfiggere definitivamente e soggiogare i Parti il destino del nascente impero romano sarebbe stato diverso. Quel che è certo è che invece i congiurati e i semplici sostenitori della libertas non avevano alcun disegno da opporre o sostituire a quello di Cesare. Il loro unico obiettivo era la restaurazione, e s’illudevano che bastasse uccidere il tiranno per ricondurre ridare vita alla ormai spenta repubblica. I tanti anni di guerre e disordini civili, i più recenti e quelli che risalivano a Mario e Silla e anche più in là, non stimolavano in loro alcuna prospettiva storica. Quel che può sorprendere è che la loro azione terminasse con l’eliminazione di Cesare, non che partisse da lì. Dopo le pugnalate non c’è nemmeno il tentativo della sognata restaurazione. Lo stesso Cicerone s’illuse brevemente che Antonio, il nuovo primo attore, potesse ambire solo alla pace e al rinnovo del prestigio della res publica. La via del principato era in realtà divenuta vieppiù inevitabile. Solo un diverso ordinamento dello stato che tenesse comunque conto delle mutate condizioni storiche avrebbe forse potuto contendere al principato la palma del successo nell’operare il destino della repubblica. Ma i congiurati mancavano di questa nuova proposta. Se forse il loro gesto ritardò di qualche anno l’instaurazione di una nuova forma di governo, a prezzo però di una nuova e lunga guerra civile, certamente non fece che renderne ancora più certo e ineludibile l’avvento. La morte di Cesare aprì un’altra gravissima crisi civile: solo dopo tredici anni ancora Roma potrà godere, sotto il nuovo imperator Augusto, di un lungo periodo di pace.

Il Corpus Caesarianum e le altre opere

Cesare fu uomo di grande cultura e straordinarie qualità di oratore e prosatore: Suetonio (De vita XII Caesarum Divus Iulius, 55) afferma che [Caesar] eloquentia militarique re aut aequavit praestantissimorum gloriam aut excessit. Il fatto che egli le abbia asservite alle proprie ambizioni politiche non diminuisce lo straordinario valore della sua opera letteraria. Il suo nome di scrittore è legato fin dall’antichità soprattutto ai commentari storici riuniti nel cosiddetto Corpus Caesarianum: il De bello Gallico, in otto libri, il De bello Civili, in tre libri, il Bellum Alexandrinum, il Bellum Africum e il Bellum Hispaniense, tutti in un solo libro. Gli antichi potevano leggere anche qualcosa della sua celebrata produzione oratoria e delle operette di argomento vario, composte fin dalla giovinezza nei momenti lasciati liberi dall’attività politica e militare. Un rapido compendio dell’attività letteraria di Cesare e della considerazione in cui essa era tenuta ci è giunto da Suetonio (De vita XII Caesarum Divus Iulius, 55-56):

[55] Eloquentia militarique re aut aequavit praestantissimorum gloriam aut excessit. Post accusationem Dolabellae haud dubie principibus patronis adnumeratus est. Certe Cicero ad Brutum oratores enumerans negat se videre, cui debeat Caesar cedere, aitque eum elegantem, splendidam quoque atque etiam magnificam et generosam quodam modo rationem dicendi tenere; et ad Cornelium Nepotem de eodem ita scripsit: ‘Quid? oratorem quem huic antepones eorum, qui nihil aliud egerunt? quis sententiis aut acutior aut crebrior? quis verbis aut ornatior aut elegantior?’ Genus eloquentiae dum taxat adulescens adhuc Strabonis Caesaris secutus videtur, cuius etiam ex oratione, quae inscribitur Pro Sardis, ad verbum nonnulla transtulit in divinationem suam. Pronuntiasse autem dicitur voce acuta, ardenti motu gestuque, non sine venustate. Orationes aliquas reliquit, inter quas temere quaedam feruntur. Pro Quinto Metello non immerito Augustus existimat magis ab actuaris exceptam male subsequentibus verba dicentis, quam ab ipso editam; nam in quibusdam exemplaribus invenio ne inscriptam quidem Pro Metello, sed ‘quam scripsit Metello’, cum ex persona Caesaris sermo sit Metellum seque adversus communium obtrectatorum criminationes purgantis. ‘apud milites’ quoque ‘in Hispania’ idem Augustus uix ipsius putat, quae tamen duplex fertur: una Quasi priore habita proelio, altera posteriore, quo Asinius Pollio ne tempus quidem contionandi habuisse eum dicit subita hostium incursione.

[56] Reliquit et rerum suarum commentarios Gallici civilisque belli Pompeiani. Nam Alexandrini Africique et Hispaniensis incertus auctor est: alii Oppium putant, alii Hirtium, qui etiam Gallici belli nouissimum imperfectumque librum suppleverit. De commentariis Caesaris Cicero in eodem Bruto sic refert: ‘Commentarios scripsit valde quidem probandos: nudi sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracta; sed dum voluit alios habere parata, unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui illa volent calamistris inurere, sanos quidem homines a scribendo deterruit.’ De isdem commentariis Hirtius ita praedicat: ‘Adeo probantur omnium iudicio, ut praerepta, non praebita facultas scriptoribus videatur. [Cuius tamen rei maior nostra quam reliquorum est admiratio; ceteri enim, quam bene atque emendate,] nos etiam, quam facile atque celeriter eos perscripserit, scimus.’ Pollio Asinius parum diligenter parumque integra veritate compositos putat, cum Caesar pleraque et quae per alios erant gesta temere crediderit et quae per se, vel consulto vel etiam memoria lapsus perperam ediderit; existimatque rescripturum et correcturum fuisse. Reliquit et De analogia duos libros et Anticatones totidem ac praeterea poema quod inscribitur Iter. Quorum librorum primos in transitu Alpium, cum ex citeriore Gallia conventibus peractis ad exercitum rediret, sequentes sub tempus Mundensis proelii fecit; novissimum, dum ab urbe in Hispaniam ulteriorem quarto et vicensimo die pervenit. Epistulae quoque eius ad senatum extant, quas primum videtur ad paginas et formam memorialis libelli convertisse, cum antea consules et duces non nisi transversa charta scriptas mitterent. Extant et ad Ciceronem, item ad familiares domesticis de rebus, in quibus, si qua occultius perferenda erant, per notas scripsit, id est sic structo litterarum ordine, ut nullum verbum effici posset: quae si qui investigare et persequi velit, quartam elementorum litteram, id est D pro A et perinde reliquas commutet. Feruntur [a puero et] ab adulescentulo quaedam scripta, ut Laudes Herculis, tragoedia Oedipus, item Dicta collectanea: quos omnis libellos vetuit Augustus publicari in epistula, quam brevem admodum ac simplicem ad Pompeium Macrum, cui ordinandas bibliothecas delegaverat, misit.

La conquista della Gallia è narrata nei Commentarii de bello Gallico, l’unico documento rimasto, in effetti, delle campagne militari. Poco si sa della genesi e composizione dell’opera, che in otto libri copre, secondo il metodo annalistico varato dai primi storiografi romani e raramente abbandonato in seguito, tutto lo svolgimento della guerra dal 58 a.C. al 51, un anno per libro. Il nucleo dei primi sette capitoli sono con ogni probabilità le epistulae ad senatum, citate anche da Suetonio, cioè i rapporti militari che il proconsole inviava a Roma per descrivere la situazione e comunicare le novità e i progressi. Oltre che della straordinaria chiarezza espositiva di Cesare, la linearità sintattica e la sobrietà di linguaggio del De bello Gallico beneficiano anche della prosa asciutta e burocratica di questi rapporti sostanzialmente militari. Tuttavia, l’opera come noi la leggiamo oggi è complessivamente omogenea, non mancano rimandi a eventi successivi, il che rende obbligatorio postulare una rielaborazione letteraria a posteriori se non proprio una ricomposizione basata sugli appunti delle annate di guerra, non sapremo mai se fatta durante gli anni o in unica soluzione dopo gli avvenimenti. L’ultimo libro è stato aggiunto successivamente, composto forse da Aulo Irzio, luogotenente e uomo di fidicia di Cesare, probabilmente nel 43 a.C., quando, dopo la morte di Cesare, si temeva che gli avversari politici si stessero riorganizzando e la lotta politica si avviava a una nuova stagione di guerre civili. È infatti preceduto da una lettera indirizzata a Cornelio Balbo, altro cesariano, che probabilmente voleva avvalersi, dopo la morte di Cesare, della prosa concisa e chiara di Cesare a fini propagandistici. Il libro, che peraltro ci è giunto incompleto, contiene una narrazione veloce degli eventi degli anni 51 e 50 a.C., privi di avvenimenti importanti dal punto di vista militare poiché corrispondevano al periodo di formale annessione della Gallia, nei quali si anticipava la guerra civile; il libro permetteva così di raccordare i Commentarii de bello Gallico ai Commentarii de bello civili in un unico corpus. Irzio espone dal punto di vista cesariano i soprusi patiti dal senato, presentandoli come causa della guerra civile, e la moderazione dell’atteggiamento di Cesare. Vengono presentati uomini, ad esempio Marco Claudio Marcello, il console del 51 a.C. che propose che Cesare congedasse l’esercito e restituisse l’imperium, che avranno un peso decisivo nei fatti dell’inizio del 49 a.C.

Già gli antichi, e per tutti, secondo Svetonio, addirittura uno dei suoi legati, Asinio Pollione, denunciavano che Cesare non riportava correttamente o completamente lo svolgimento dei fatti e che troppo spesso accettava senza controllo i rapporti dei suoi subalterni. Non sapremo mai se e quanto questo sia vero, e se lo sia per volontà o per debolezza di memoria, certo è che le scarne notizie che si trovano in altri autori rivelano talvolta lacune nella narrazione di Cesare e ne evidenziano l’alterazione di fatti e le incongruenze, soprattutto nella sua evidente tendenza a giustificare in ogni modo il suo operato come nell’interesse della res publica, a rendersi inattaccabile attraverso elementi propagandistici. La sua propaganda lancia quattro parole d’ordine che saranno ancora più decisive nel De bello civili: Fortuna, Clementia, Iustitia, Celeritas. Tuttavia, il valore storico del De bello Gallico è incontestabile e, se non completamente oggettivo, seppure gli insuccessi vi sono taciuti e i successi esaltati, è un documento attendibile dello svolgimento della guerra in Gallia e prezioso per comprendere quei popoli, quegli eventi, i Romani stessi: dalla descrizione e magnificazione della superiore tecnologia romana – con particolari divertenti, come quando gli Elvezi impiegano venti gioni per guadare il fiume Saona, mentre i Romani costruiscono un ponte in un solo giorno; oppure quando gli Atuatuci deridono i Romani, vedendoli costruire una torre d’assedio a una certa distanza, ma poi atterriscono e si arrendono, convinti che i Romani siano assistiti dagli dei, quando la torre viene accostata alle mura – alla descrizione etnografica delle popolazioni galliche – a Cesare, per primo tra i Romani, è dovuta la distinzione tra Celti e Germani, che erano prima considerati una sola etnia – che vengono in questo modo anche smitizzate – i Romani avevano una paura atavica dei Galli, che risale almeno al sacco di Roma del 390 a.C.; non è fuor di luogo ricordare che l’unico sacrificio umano testimoniato presso i Romani è la sepoltura di una coppia di Galli vivi – alla testimonianza della religione celtica e dei druidi, alla descrizione dei luoghi. È un documento prezioso anche letterariamente, poichè lo stile di Cesare, nitido, l’abbiamo detto, e nello stesso tempo vivace, fece scuola; non va dimenticato che Cesare fu il capofila della corrente cosiddetta analogista, che rifiutava la benchè minima deviazione dalle regole grammaticali e sintattiche. Era diviso anche in questo da Cicerone, che invece fu attivo esponente della corrente anomalista e misurava il valore letterario e l’effetto delle eccezioni, dei termini poco usati, e anche degli arcaismi, peraltro insoliti nell’Arpinate.

I Commentarii de bello civili iniziano ex abrupto con la drammatica seduta di apertura d’anno del fatidico 1° gennaio del 49 a.C. e narrano in tre libri gli avvenimenti convulsi dei due anni della guerra civile attraverso la battaglia di Farsalo e l’inseguimento di Pompeo in Egitto fino alla rivolta di Alessandria. È stato detto con ragione che i presunti protagonisti, Cesare e Pompeo, scompaiono in realtà spesso e volentieri dalla scena, a favore del vero protagonista che è l’esercito, soprattutto quello di Cesare. Fatto, questo, già vero nel De bello Gallico, ove era giustificato dal desiderio di Cesare di concedere spazio a quelli che facevano le sue fortune, e qui forse acuito dal desiderio di non esaltare la sua figura, cosa cui avrebbero povveduto gli altri da ora in poi, e di sminuire la figura di Pompeo. La narrazione inizia in medias res, come è stato notato, conferendo immediatezza e drammaticità a momenti convulsi. Si tratta di momenti particolarmente importanti nella storia di Roma, diremmo decisivi, eppure sono forse così giudicati e ricordati proprio per il racconto cesariano. Di particolare interesse nel De bello civili è il lessico, uniformato certo ai principi di analogia di cui era paladino, ma più preciso, più complesso in riferimento a quello del De bello Gallico, soprattutto, e la cosa sorprende, il linguaggio militare. Più evidente è qui, rispetto al De bello Gallico, l’esigenza di propaganda, tuttavia la narrazione è sostanzialmente corrispondente a quella a noi nota per altre vie e, se si prescinde da omissioni o alterazioni quasi obbligate, come quella del passaggio del Rubicone, quel che si nota è soprattutto la misura e l’equilibrio, già nella scelta dei vocaboli, anche quando si tratta di protestare contro i sorpusi subiti. Vieppiù costanti e centrali diventano le parole d’ordine della propaganda cesariana, soprattutto la iustitia e la clementia, e in modo tanto convincente che non a torto è stato detto che, se Cesare avesse fatto le sue vendette, alle idi di marzo non sarebbero state alzate così tante mani contro di lui. Caratteristici di Cesare, del resto in comune con il De bello Gallico, sono sempre l’oratio obliqua e l’uso esteso del presente storico. Cio nonostante, il racconto è spesso arricchito di orationes rectae, ad esempio quando Cesare e Pompeo arringano i propri soldati.

Completano il Corpus Caesarianum, oltre all’ottavo capitolo del De bello Gallico, altri tre libelli che riassumono gli ultimi eventi della guerra civile: nel Bellum Alexandrinum sono narrati gli eventi del 47 a.C., la guerra in Egitto e la spedizione contro Farnace, quelli del 46 a.C.; la guerra in Africa fino alla battaglia di Tapso, è raccontata nel Bellum Africum; gli eventi del 45 a.C. e la guerra in Spagna fino alla battaglia di Munda nel Bellum Hispaniense. Nessuna di queste tre opere è di mano cesariana; probabilmente sono di numerose mani diverse, forse di suoi stretti collaboratori; tutte risentono della scarsa abilità dell’autore evidente nel linguaggio e in cadute di tono e di stile, Comunque, ci sono rimaste tutte e tre, e da alcune analisi lessicali sembra che il Bellum Alexandrinum possa essere attribuito ancora ad Aulo Irzio, ma non c’è certezza. Probabilmente sono dovute al fermento degli anni che seguono la morte di Cesare, nei quali i suoi seguaci tentano di imporsi al rigurgito rivoluzionario (che questa volta era stato dei reazionari, come sarebbero chiamati oggi) anche raccogliendo in un documento unico, se non unitario, l’intero periodo storico del quale Cesare era stato protagonista indiscusso.

Cesare in gioventù pare si dedicasse alla produzione poetica, della quale sono rimasti null’altro che due titoli di opere, peraltro non pubblicate, Oedipus, una tragedia sullo sperimentato argomento della vita dell’infelice re di Tebe, e il poema Laudes Herculis. Forse l’opera più importante, ma ce ne sono giunti pochi frammenti, è il De analogia, dedicato a Cicerone, nel quale si polemizzava con l’impostazione anomalista. In realtà Cicerone fu un anomalista moderato, non amava certo gli arcaismi e i termini insoliti, dei quali eprò ammetteva l’uso con funzioni estetiche ed eufoniche al bisogno. L’opera, in due libri, esponeva i dettami della più rigorosa analogia, e costituì uno spartiacque nella grammatica dell’epoca, contribuendo in modo certamente significativo alla purificazione del sistema linguistico latino. Cesare, saldamente ancorato ai dettami di uniformità, razionalità, chiarezza della scuola alessandrina, estendeva il principio dell’analogia a tutti gli aspetti della lingua, non solo a quello semplicemente lessicale e morfologico, ma anche agli ambiti grammaticale e sintattico. Tanquam scopulum sic fugias inauditum atque insolens verbum, ci dice in un famoso frammento, da confrontare ad esempio con l’amore della corrente asiana per le antiquità letterarie e i preziosismi. Ma spingeva il principio d’analogia ad estremi inaccettabili, come quello di scrivere Pompeiii con tre “i”. Cicerone accettava invece, in nome della concinnitas, l’armonica disposizione delle parole nella frase, e della tradizione, l’uso di termini che aumentavano l’effetto e l’equilibrio della frase e le possibilità dello scrittore, oppure che semplicemente avessero un significato radicato nell’uso, come il ben noto pater familias invece del regolare pater familiae.

Pochissimi sono i resti della produzione oratoria, che pure fu estesamente lodata da Cicerone, Tacito e molti altri. Oltre che delle orazioni funebri per la zia Giulia e per la moglie Cornelia, abbiamo notizia di interventi di Cesare in tribunale storicamente importanti, come quello contro Dolabella e quello in difesa dei catilinari, ma non più che qualche frammento (una trasposizione dell’intervento in senato in favore dei congiurati di Catilina ci è tramandato da Sallustio). Perduto, tranne pochi frammenti, è anche l’Anticato. L’opera, in due libri, è ancora una volta scritta in confutazione delle tesi di Cicerone, che nel Cato aveva idealizzato la figura di Marco Porcio Catone Uticense, l’acerrimo nemico di Cesare che si era suicidato nel 46 a.C. ad Utica, quando con la sconfitta dell’aristocrazia e di Pompeo e la vittoria di Cesare aveva visto perduta ogni speranza di libertà. Cicerone ne aveva esaltato la dirittura morale decisa fino alla morte, conforme al mos maiorum, Cesare ne distrugge impietosamente il ricordo. Anche perdute sono andate le raccolte dei Dicta collectanea, il trattato astronomico De astris e l’Iter Hispanicum, un libello che il titolo riconduce al genere itirerante, da alcuni attribuito al periodo giovanile, o forse riferito al viaggio per una delle sue frequenti magistrature in Spagna, mentre secondo altri conteneva la descrizione del viaggio in ventisette giorni da Roma a Munda per l’ultima battaglia contro i pompeiani, e va quindi riferito agli ultimissimi anni di vita. Neppure ci rimane la raccolta delle Epistulae, pure così celebrate nell’antichità.

La fortuna

Come il riconoscimento del rilievo storico, unanime è anche il giudizio degli antichi sulla prosa cesariana, da Cicerone (Brutus, 261-262):

[261] Caesar autem rationem adhibens consuetudinem vitiosam et corruptam pura et incorrupta consuetudine emendat. Itaque cum ad hanc elegantiam verborum Latinorum – quae, etiam si orator non sis et sis ingenuus civis Romanus, tamen necessaria est – adiungit illa oratoria ornamenta dicendi, tum videtur tamquam tabulas bene pictas collocare in bono lumine. Hanc cum habeat praecipuam laudem in communibus, non video cui debeat cedere. Splendidam quamdam minimeque veteratoriam rationem dicendi tenet, voce, motu, forma etiam magnificam et generosam quodam modo.

[262] Tum Brutus: Orationes quidemeius mihi vehementer probantur. Complures autem legi atque etiam commentarios, quos idem scripsit rerum suarum. Valde quidem, inquam, probandos; nudi enim sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracta. Sed dum voluit alios habere parata, unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui volent illa calamistris inurere: sanos quidem homines a scribendo deterruit; nihil est enim in historia pura et illustri brevitate dulcius. Sed ad eos, si placet, qui vita excesserunt, revertamur.

al conciso Tacito, sulla sua abilità e di storico e di oratore in Germania, 28:

[28] Validiores olim Gallorum res fuisse summus auctorum divus Iulius tradit; […]

e in Annales XIII, 3:

[3] […] nam dictator Caesar summis oratoribus aemulus […]

a Quintiliano (Institutio oratoria X, 1, 114):

[114] C. Caesar si foro tantum vacasset, non alius ex nostris contra Ciceronem nominaretur. Tanta in eo vis est, id acumen, ea concitatio, ut illum eodem animo dixisse quo bellavit appareat; exornat tamen haec omnia mira sermonis, cuius proprie studiosus fuit, elegantia.

Singolare tuttavia è il fatto che già alla fine dell’evo antico si perda la attribuzione della paternità del Corpus, situazione forse favorita dalla circostanza che sono scritti in terza persona. Nel V secolo lo scrittore cristiano Orosio nelle sue Historiae contra paganos attribuisce i Commentarii a Suetonio. Successivamente vengono attribuiti ad un revisore del De bello Gallico, tale Giulio Celso Costantino, errore di cui rimane vittima anche Petrarca. Tuttavia, siamo ormai all’Umanesimo e l’umanista toscano Coluccio Salutati restituisce la paternità dell’opera a Cesare.