Aurelius Ambrosius

Annoverato dalla Chiesa Cattolica e da altre Chiese cristiane tra i santi e tra i quattro massimi dottori della chiesa in occidente, Aurelio Ambrogio nacque intorno al 340 d.C. probabilmente nella città e sede imperiale di Augusta Treverorum, oggi Treviri in Germania, dove il padre svolgeva l’incarico di prefetto del pretorio. Compì a Roma, con il fratello Satiro, gli studi di grammatica e poi di retorica e diritto. Entrò nell’amministrazione imperiale e intorno al 370 d.C. fu designato governatore della Liguria e dell’Emilia, con sede a Milano.

L’eresia ariana, sostenuta dagli imperatori della metà del IV secolo d.C., era allora forte soprattutto nel nord Italia. Venuto meno il vescovo di Milano Aussenzio, ariani e cattolici si scontrarono sulla nomina del successore inscenando tumulti di piazza. Ambrogio intervenne per farli cessare, ma, oltre all’autorità del funzionario imperiale dovette manifestare peculiare autorevolezza personale, poiché ad esito del suo tentativo di composizione imprevedibilmente il popolo acclamò proprio Ambrogio quale successore di Aussenzio. Ratificata poi la scelta dal clero e dal consenso dell’imperatore, il neo vescovo dovette prima di tutto essere battezzato, poiché ancora non lo era, come poteva accadere a quel tempo. Al battesimo del 30 novembre del 374 d.C. seguì la consacrazione il successivo 7 dicembre. Non a caso Ambrogio confesserà poi di aver iniziato ad esercitare il ministero episcopale senza la necessaria preparazione.

La sua esperienza nell’amministrazione gli facilitò l’approccio con il potere imperiale, verso il quale non nutrì mai soggezione. Fu sua l’iniziativa di chiedere all’imperatore Graziano di rinunciare al titolo tradizionale di pontifex maximus, ora titolo del romano pontefice, e di rimuovere l’ara e la statua della dea Vittoria dall’edificio della Curia a Roma. Era il 382 d.C. e, nonostante il disastro di Adrianopoli fosse avvenuto solo quattro anni prima, Graziano acconsentì.

Nel 384 d.C. divenne praefectus Urbis Quinto Aurelio Simmaco, brillante oratore, autorevole membro del senato e zelante organizzatore della resistenza della religione pagana contro lo strapotere cristiano. Simmaco tentò di appoggiare la petizione del senato alla corte imperiale (dove era finito il centro del potere repubblicano dopo le riforme di Diocleziano!) scrivendo una relatio all’imperatore, che dopo la morte di Graziano era ora il giovanissimo Valentiniano II, tesa ad ottenere che la statua della Vittoria fosse rimessa nella Curia.

Il senato scelse con cura il momento adatto, quando, venuto meno Graziano, per la giovane età del successore si era creato un vuoto di potere di cui aveva approfittato l’usurpatore Massimo; quest’ultimo in quel momento non era in Italia ma a Treviri, dove si era recato pure il vescovo Ambrogio in missione ufficiale. Ma la reazione di Ambrogio, conservataci nelle due celebri epistole XVII e XVIII del suo epistolario nelle quali confuta vigorosamente gli argomenti di Simmaco, non si fece attendere e la sua fermezza riuscì ancora una volta vincitrice.

Oltre a scongiurare il ripristino del culto pagano della dea, Ambrogio riusciva così ad affermare un principio importante, quello della preminenza dell’autorità ecclesiastica cristiana in tutte le questioni di culto e quindi del Cristianesimo su tutte le altre religoni, in particolare quella pagana.

L’inflessibilità e lo zelo del vescovo Ambrogio gli valsero anche una importantissima vittoria contro l’arianesimo in Italia. Accadde che l’imperatrice Giustina, tutrice del giovanissimo figlio e imperatore Valentiniano II, di tendenza ariana, volesse favorire il clero ariano riservando al loro culto una delle basiliche milanesi, la basilica Porziana. La pretesa si inquadrava nella pressione, una sorta di persecuzione strisciante, cui l’imperatrice sottopose Ambrogio dopo la morte di Graziano. I fedeli, racconta sant’Agostino nelle Confessiones – il quale proprio in quegli anni a Milano viveva l’acme della sua crisi interiore e della conversione – avevano cominciato a vegliare la notte in chiesa con il loro vescovo, pronti a morire con lui.

L’opposizione di Ambrogio, che si manifestò inizialmente nel celebre Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis, che per l’aggressività oratoria è stato accostato alle Filippiche, arrivò fino a rinchiudersi con i fedeli nella basilica, che fu assediata dall’esercito per due mesi, dal febbraio all’aprile del 386 d.C. Anche questa volta il vescovo vinse la sua battaglia.

Ma la vittoria più importante la riportò sull’imperatore “cristianissimo” Teodosio. Quest’ultimo aveva risposto alla rivolta di Tessalonica ordinando la famosa strage; Ambrogio, rivednicando il potere di giudicare un imperatore e di assolverlo come un comune fedele, lo esortò a espiare il suo peccato con la penitenza pubblica, ricorrendo all’esempio del re David e minacciando la scomunica. L’imperatore, con una decisione senza precedenti, accettò la pubblica penitenza che gli era stata comminata e con questo di riconoscere la supremazia di un vescovo: fu escluso dalla Chiesa per qualche tempo e vi fu riammesso con la cerimonia usata da tutti i cristiani: l’imperatore entrò in chiesa vestito come un pubblico peccatore, si prostrò al suolo e strappandosi i capelli e piangendo implorò l’assoluzione.

Ambrogio morì nell’aprile del 397 d.C.

La maggior parte delle opere esegetiche di Ambrogio è riconducibile a omelie e predicazioni poi rielaborate in forma letteraria. Ci sono giunti: De paradiso, De Cain et Abel, De Noe et arca, De Abraham, De Isaac et anima, De Iacob et vita beata, De Ioseph, De patriarchis, Apologia prophetae David, De interpellatione Iob et David, De Helia et ieiunio, De Tobia, De Nabuthe, Explanatio in XII Psalmos Davidicos, Expositio in Psalmum CXVIII, Expositio Evangelii secundum Lucam, Hexameron.

Nelle opere ascetiche egli esaltò l’ideale della verginità (donde gli venne l’appellativo di Doctor virginitatis) in un nutrito gruppo di opere: De virginibus (377 d.C.), De vriginitate, De institutione virginis (391 d.C.), De viduis, Exhortatio virginitatis. Opere morali di altro argomento sono: De officiis ministrorum, De bono mortis, De fuga saeculi.

Opere dogmatiche: De fide incarnationis (composto nel 375 d.C. in occasione della morte del fratello Satiro), De fide (composto tra il 378 e il 380 d.C. su invito dell’imperatore Graziano), De Spiritu Sancto (381 d.C., sempre su invito dell’imperatore), De incarnationis Dominicae sacramento, De paenitentia (380 – 390 d.C.), De sacramentis, De mysteriis.

Esempio della sua oratoria ci sono forniti da: De excessu fratris Satyri (375 d.C., elogio funebre per la morte del fratello), De obitu Valentiniani (orazione funebre per la morte dell’imperatore Valentiniano II), De obitu Theodosii (orazione funebre per la morte dell’imperatore Teodosio), e il già citato Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis.

È giunto fino a noi un epistolario di 91 lettere, per lo più dirette agli interlocutori della sua attività episcopale, Papi, imperatori, vescovi e clero, tra le quali le due lettere sopra ricordate contro gli argomenti di Simmaco sul ripristino della statua e del culto della Vittoria in Roma. Ma sono conservate anche lettere personali, dirette ad amici e familiari.

Ambrogio è infine da considerare il fondatore, almeno in occidente, di un filone letterario affine alla poesia cristiana, quello dell’innologia. L’oriente cristiano possedeva già da tempo una fiorente e fervente produzione di inni cantati nelle celebrazioni liturgiche con intento didattico, eucaristico, dossologico, commemorativo e così via. In occidente, l’innografia era stata inizialmente portata dai fautori delle eresie, i quali spesso provenivano dall’oriente e comunque ne apprezzarono la capacità di propagandare i dogmi di fede (in questo caso eretici) mettendoli alla portata di tutti i fedeli. Anche l’ortodossia dottrinale – ad esempio sant’Ilario di Poitiers, il quale compose secondo san Girolamo un Liber hymnorum del quale possediamo frammenti di tre inni – aveva tentato di servirsene con gli stessi scopi e per contrastare le eresie, ma senza incontrare grande successo.

La testimonianza nientemeno che di sant’Agostino, nelle sue Confessiones, ci racconta le drammatiche circostanze, ancora una volta nella lotta contro l’eresia, nelle quali il canto degli inni si affermò ed ebbe la più ampia diffusione in occidente. Era il momento più difficile della lotta tra Ambrogio e l’imperatrice Giustina, decisa a favorire il clero ariano, forse la fine del 385 d.C., e, racconta sant’Agostino, fu allora che si incominciò a cantare inni e salmi nella liturgia secondo l’uso orientale per evitare i guasti della noia e della mestizia. E, annota il santo, l’innovazione fu imitata da molti altri, tanto che presto si diffuse in ogni parte del mondo.

Il successo degli inni di Ambrogio rispetto a quelli di Ilario va cercata probabilmente nella maggiore orecchiabilità e agilità di metro e di lingua, oltre che nella drammaticità della circostanza che dovette disporre più favorevolmente l’animo dei fedeli. Il successo ha assicurato agli inni ambrosiani lunga vita fino a noi, tuttavia proprio per il successo e l’imitazione che hanno avuto nuocciono alla loro autenticità. Solo nove sono gli inni certamente, o quasi, ambrosiani: quattro inni sono citati come ambrosiani da sant’Agostino (Deus creator omnium, Aeterne rerum conditor, Iam surgit hora tertia, Intende, qui regis Israel) e di cinque altri si riconosce pressocché unanimemente la paternità di Ambrogio (Grates tibi Iesu novas, Splendor paternae gloriae, Aeterna Christi munera, Victor Nabor Felix pii, His est dies verus dei). Sono tutti in strofe tetrastiche di dimetri giambici, metro adatto, facile e gradito al gusto popolare.