Sulla vita e l’opera di Publio Terenzio Afro, il grande commediografo, una fonte privilegiata è la biografia premessa da Elio Donato ai suoi Commenta delle commedie terenziane, che è comunemente identificata con quella che era inclusa nel De viris illustribus di Suetonio. Le rimarchevoli annotazioni contenute in altri autori permettono di integrare talvolta il racconto di Suetonio.
Secondo questa biografia, Terenzio nacque a Cartagine in Africa, ma non è riportato l’anno. Può parer strano allo spirito moderno, secondo il quale il compleanno, gli anniversari e la carta d’identità hanno la loro importanza, ma le biografie antiche raramente sono prodighe di date, e spesso anche quelle essenziali, come quella di nascita o di morte, devono essere desunte a partire dai riferimenti ad altra data certa (perché identificata o semplicemente riportata come tale) relativa ad un evento della maturità. Nel caso di Terenzio, Suetonio precisa che egli, dopo aver pubblicato le sue commedie, non avendo ancora compiuto venticinque anni, partì da Roma. L’ultima commedia, gli Adelphoe, è ritenuta del 160 a.C., quindi, ipotizzando che sia partito quello stesso anno (perché sarebbe morto nel viaggio di ritorno l’anno seguente), si otterrebbe come anno di nascita il 185 a.C.
Questa data ben si collegherebbe a quella della morte di Plauto, che, secondo la testimonianza di Cicerone, sarebbe avvenuta nel 184 a.C., il che potrebbe richiamare quello schema caro agli antichi che faceva coincidere la nascita del successore con la morte del predecessore come una sorta di passaggio del testimonio, in questo caso tra commediografi, anche a costo di ricorrere a notizie incerte o date artefatte. Peraltro, in alcuni codici si legge quintum atque trigesimum in luogo di quintum atque vicesimum, riferito all’età di Terenzio al momento della partenza da Roma, il che sposterebbe la nascita di dieci anni indietro, al 195 a.C. circa. Sul piano della pura congettura, vale la pena di aggiungere che il fatto che Terenzio avrebbe scritto solo sei commedie a 35 anni di età (a Plauto, per confronto, si arrivò ad attribuirne l’inverosimile numero di 130 nell’intera carriera, delle quali comunque almeno 21 furono da Varrone giudicate certamente plautine, oltre a 19 incerte), pur non facendo necessariamente preferire la data del 185 a.C., certo non vi si oppone; né sembra necessariamente troppo giovane un ventenne per far rappresentare la sua prima commedia. Va da sé che la validità di queste considerazioni rimane affidata alla sensibilità personale.
Tornando ai dati traditi, Suetonio aggiunge che Terenzio venne a Roma, probabilmente in giovane età, come schiavo del senatore Terenzio Lucano, il quale lo fece educare con ogni cura e del quale prese il nomen quando fu da lui affrancato in ammirazione della sua intelligenza (mentre il cognomen si riferisce evidentemente alle sue origini africane).
Il giovane liberto, dice ancora Suetonio, compose sei commedie, e proprio sei ne sono giunte fino a noi. La cronologia delle commedie terenziane, frutto del lavoro filologico e delle ricerche erudite dei grammatici antichi, è attestata con precisione nelle didascalie anteposte, nei manoscritti, alle singole commedie (benché si debba ricordare che gli studiosi moderni hanno variamente contestato la cronologia tradizionale, senza però giungere ad un accordo su quando effettivamente sarebbero state scritte e rappresentate). Secondo le didascalie, nel 166 a.C. Terenzio si presentò agli edili con la sua prima commedia, l’Andria (cioè “La donna (originaria) di Andros”, tratta dall’omonima commedia di Menandro con la contaminazione della Perinthia, cioè “La donna di Perinto”, pure menandrea, come è affermato nel prologo), e gli fu da questi ordinato di sottoporsi al giudizio di Cecilio Stazio. Si racconta che, essendosi presentato da Cecilio mentre questi pranzava, vestito di umili panni, iniziò a leggere seduto su uno sgabello accanto al divano dove si trovava Cecilio, ma dopo aver letto pochi versi fu invitato a tavola e pranzò con il suo ospite, dopo di che lesse il resto della commedia che riscosse altrettanta ammirazione da parte dell’illustre poeta comico. Questo aneddoto, peraltro, pare proprio inserirsi nella già menzionata abitudine di creare ponti tra autori appartenenti a due generazioni diverse; a questo proposito, si deve anche considerare che Cecilio sarebbe morto, sembra, nel 168 a.C., due anni prima di quando sarebbe avvenuto questo episodio.
Ben poca fortuna ebbe la sua seconda commedia, l’Hecyra (cioè “La suocera”, del 165 a.C., tratto da una commedia di Apollodoro di Caristo con la contaminazione degli Epitrèpontes di Menandro), che per due volte vide il pubblico abbandonare il teatro prima del termine della rappresentazione, mentre un terzo tentativo ebbe maggiore successo. Vengono poi nell’ordine: l’Heautontimorumenos (ovvero “Il punitore di se stesso”, del 163 a.C., dall’omonima opera di Menandro), l’Eunuchus (“L’eunuco”, del 161 a.C., da un doppio modello ancora di Menandro), che fu certamente il suo lavoro più fortunato e divenne la commedia più pagata fino ad allora, il Phormio (dal nome del parassita che regge l’azione, anch’essa del 161 a.C., ispirata all’Epidikazòmenos, “Il pretendente”, di Apollodoro di Caristo), e infine gli Adelphoe (“I fratelli”, del 160 a.C., dall’omonima opera di Menandro con l’aggiunta di una scena dei Sunapothnèskontes di Difilo). Come si accennava, le commedie, tutte e sei rappresentate a Roma, ci sono giunte tutte integre.
Se liquidiamo l’apprezzamento di Cecilio per l’Andria come figlio di una tradizione non degna di fede e se consideriamo che l’Hecyra fu così poco apprezzata che solo al terzo tentativo la rappresentazione potè finalmente arrivare alla conclusione, sembra che il successo per Terenzio arrivò soltanto con l’Eunuchus. Stando a Suetonio, infatti, questo lavoro riscosse un vero trionfo, il pubblico chiese a gran voce il bis e la commedia dovette perciò essere rappresentata due volte nello stesso giorno. Suetonio aggiunge che l’Eunuchus fu pagata 8.000 sesterzi, quanto nessuna altra commedia prima d’allora, e per questo al titolo fu aggiunta menzione della somma. Da allora, il successo non deve averlo più abbandonato, tanto che alla fine riuscì, ad esempio, a far trangugiare al pubblico anche l’Hecyra, nonostante il pubblico dovesse con ogni probabilità ben ricordarne i trascorsi. Tuttavia, sembra chiaro che Terenzio non fu mai autore popolare, né nel senso della fama presso il grande pubblico, né nel senso di un suo interesse nel ricercare l’affetto degli strati più popolari dell’uditorio, quanto invece lo fu, ad esempio, Plauto, con il quale Terenzio è peraltro in contrasto stridente, come vedremo più in dettaglio, sotto molti riguardi.
Al contrario di Plauto, infatti, Terenzio fu autore essenzialmente raffinato in ogni aspetto dell’arte sua: un’arte fatta di comicità contenuta, disciplinata, sofisticata, di sfumature, tocchi rapidi e leggeri, della stretta osservanza del verisimile, e che rifugge invece dagli effetti comici grossolani o volgari come dall’eccessiva carica di pàthos, dalle forzature e dagli eccessi, nell’intreccio e nella rappresentazione dei personaggi, come dalla banalità e dalla frivolezza. Egli personifica l’ideale scipionico dello ‘stile piano’, già proprio, peraltro, di parte almeno della Commedia Nuova attica. Infatti, Terenzio fece parte del circolo scipionico e fu amico di Scipione Emiliano e Gaio Lelio.
L’invidia, forse, per questo straniero che ebbe grande fortuna a Roma nella sua breve carriera, meritando la protezione dei potenti, fece sorgere l’accusa di essere aiutato nella composizione delle sue commedie dai nobili amici, diceria che, a quanto pare, egli non volle mai smentire decisamente. Riferisce Suetonio che Terenzio tentò solo una debole difesa per non dispiacere i suoi amici, perché sapeva che tale voce non era sgradita a Scipione e a Lelio, e aggiunge che questa maldicenza fu il motivo che lo fece partire da Roma, nel 160 a.C. o poco dopo, per dirigersi in Grecia. Nei prologhi dell’Heautontimorumenos e soprattutto degli Adelphoe, in effetti, possiamo ancor oggi constatare come egli cerchi di difendersi con garbo e misura da quella calunnia che doveva apparirgli invero particolarmente odiosa, e questa circostanza tende ad attribuire un qualche valore tanto all’ipotesi che sia voluto sfuggire alle dicerie quanto alla congettura che sia partito immediatamente dopo la rappresentazione della sua ultima commedia, gli Adelphoe appunto.
In Grecia – è ancora Suetonio che parla – Terenzio volle andare per meglio documentarsi sui modelli e sull’ambientazione greca, sempre più richiesti dal pubblico e che egli voleva meglio descrivere nelle successive commedie, magari – aggiungiamo noi – allontanando da sè le calunnie con questa prova di serietà professionale.
Ma non fece mai ritorno a Roma: la maggior parte degli autori, dice Suetonio, tramanda che in Grecia morì, a Stinfalo d’Arcadia o a Leucadia, sotto il consolato di Gneo Cornelio Dolabella e Marco Fulvio Nobiliore, cioè nel 159 a.C., forse a causa di una malattia o, secondo altri, per il dolore della perdita dei propri bagagli che aveva spedito per nave e tra i quali figuravano i suoi appunti per le nuove commedie. Il solo Quinto Cosconio, prosegue Suetonio, afferma che il naufragio non colpì solo le sue nuove opere ma anche lui stesso, di ritorno dalla Grecia. Secondo lo schema tipico delle sue biografie, Suetonio tramanda infine curiosità di contorno su Terenzio: che, ad esempio, fu di statura media, gracile nel fisico e di pelle molto scura; che ebbe una figlia che sposò poi un cavaliere; che lasciò una tenuta di venti iugeri sulla via Appia presso il tempio di Marte.
La difesa dell’autore in prima persona, presente nel prologo degli Adelphoe in merito alla polemica sull’effettiva paternità delle commedie, non è isolata. Con Terenzio si assiste, infatti, ad una originale riutilizzazione dei prologhi, diversa dall’uso plautino e, per quello che si può giudicare, anche da quello della Commedia Nuova greca. Il prologo terenziano non serve ad illuminare lo spettatore sugli antefatti della scena nè a dare informazioni sulla rappresentazione che sta per aver luogo (Plauto talvolta affida al prologo financo anticipazioni sulla conclusione, se servono a far pregustare al pubblico una sonora risata), elementi di cui in Terenzio non v’è traccia, bensì per dare voce all’autore e alle sue considerazioni personali, di norma polemiche, su colleghi, avversari e detrattori.
L’autore affida così il patrocinio della sua causa e la difesa delle sue ragioni al dominus gregis o capocomico, il quale talvolta può arrivare per questo a salire sul palcoscenico vestito come personificazione del Prologo. Il capocomico agisce di norma in nome e per conto dell’autore, ma talvolta può parlare anche in prima persona, perché egli era di norma contemporaneamente impresario, regista e primo attore, quindi cointeressato ad entrare nelle polemiche di attualità, a difendere l’autore del quale rappresentava l’opera e a contribuire al suo successo, che era il proprio.
Il celebre capocomico e attore Ambivio Turpione, che aveva già lavorato con Cecilio Stazio sostenendolo all’inizio della sua attività e arrivando con lui al successo – e che era perciò ormai vecchio all’epoca di Terenzio – credette anche nel giovane liberto, tanto da mettere in scena tutte e sei le sue commedie. E il suo attaccamento al nuovo autore fu tale che, non appena il favore del pubblico, dopo il clamoroso trionfo dell’Eunuchus, gli sembrò probabilmente ormai conquistato, con gli Adelphoe volle riportare sulle scene anche l’Hecyra, che aveva incontrato difficoltà alla prima rappresentazione cinque anni prima, quando il pubblico aveva lasciato il teatro a metà dello spettacolo preferendogli il circo; e accettò di difendere vigorosamente, parlando in prima persona, l’arte del suo autore nel prologo, arrivando a mettere in gioco la propria reputazione e a ricordare al pubblico i suoi successi con Cecilio. E poiché, nonostante ciò, andò incontro a un secondo insuccesso, Turpione la fece andare in scena una terza volta, da sola, nello stesso 160 a.C., quando finalmente la commedia poté essere conclusa con successo.
Oltre ad usarlo nei rapporti con il pubblico, Terenzio sfrutta il prologo in tutte le occasioni in cui deve difendersi da varie accuse che gli vengono lanciate dai suoi rivali e principalmente da un non meglio precisato malevolus poeta, che fu identificato da Donato con Luscio Lanuvino, il commediografo per noi perduto cui il canone di Volcacio Sedigito assegna il nono posto tra i comici – il sesto era stato assegnato a Terenzio. Infatti, l’accusa di essere poco più di un prestanome di Scipione non è l’unica polemica presente nei prologhi terenziani, che vedono la difesa, spesso ripetuta, dell’autore da altri tentativi di denigrazione. Nei prologhi dell’Heautontimorumenos e finanche dell’Andria, la sua prima commedia, Terenzio contesta l’accusa di aver contaminato (cioè aver inserito nel canovaccio principale scene tratte da altre commedie) ricordando al pubblico che Nevio, Ennio e Plauto, suoi predecessori molto popolari, avevano fatto largo uso della contaminatio. E dall’accusa che con la contaminazione egli non avrebbe ricavato lavori originali (ovvero, nella mentalità romana, di aver rappresentato commedie troppo simili ad altre già portate in scena da altri in latino, poiché anche una pedissequa traduzione di una commedia greca in latino non sarebbe sembrata plagio, se nessun altro avesse già tradotto la medesima commedia) Terenzio si difende nel prologo dell’Eunuchus asserendo di aver sì, nella commedia, inserito due personaggi tolti da un lavoro di Menandro già portato in latino (il Kòlax), ma di averlo fatto involontariamente, riportandosi direttamente al modello greco e ignorando i precedenti latini.
Dal più distaccato punto di vista moderno, si deve riconoscere che la tecnica della contaminazione in Terenzio era ben più perfezionata che non in passato: raramente si avvertono incongruenze dovute ad una non perfetta fusione delle scene. Al contrario di quel che accade ad esempio a Plauto, il quale tende spesso a non preoccuparsi molto della coerenza della trama e a lanciarsi in intrecci che potevano divenire rapidamente ingarbugliati e inverosimili, laddove Terenzio predilige intrecci meno complessi perché più gestibili e soprattutto più realistici.
Plauto è l’unico altro commediografo latino del periodo arcaico di cui ci sia pervenuta una parte della sua opera sufficiente a sviscerarne l’arte e lo stile, e questo ne fa anche l’unico autore che si possa paragonare a Terenzio con cognizione di causa. E il confronto, in questo caso, è particolarmente avvincente per le profonde differenze che corrono tra i due. Il tema del realismo è una di queste differenze, tanto più innegabile in quanto si può riscontrare in tutte le corde dello stile e dell’arte. Oltre che negli intrecci, si può ad esempio riscontrare nell’uso della lingua, che in bocca ai personaggi di Terenzio è sempre immediatamente riconducibile al sermo cotidianus, alla lingua ordinaria parlata nella vita di tutti i giorni, la quale, appena fissata in forma letteraria per divenire materia da teatro, mantiene piena di forza la sua naturalezza e la sua purezza così lodata dagli antichi, senza quell’ossessione di forzature e giochi di parole per far ridere a ogni costo, ma anche senza quell’uso di ogni sfumatura e ogni varietà, dal sermo vulgaris alla lingua dotta, a seconda dei personaggi e delle circostanze, che è uno dei pilastri dell’espressività plautina.
Altro elemento che differenzia Terenzio da Plauto è il limitato ricorso alla polimetria, che si accompagna alla drastica riduzione dei cantica, le scene cantate che di molti metri diversi facevano largo uso, a favore di quelle recitate, o diverbia, tanto che la commedia plautina è spesso definita motoria in contrapposizione alla commedia stataria terenziana. Anche questo aspetto conferma l’aspirazione di Terenzio al realismo del dramma, alla rappresentazione semplice e vera degli avvenimenti, anche quando questo va a scapito della carica umoristica. Evidente è il contrasto con la frizzante giocosità plautina, che infatti, esaurito il fragore della risata provacata dai lazzi senza sosta, si rivela forzatamente un po’ irreale.
Ma, al di là dei tratti più tecnici dell’arte terenziana, il realismo che più di ogni altro gli è proprio, tanto da costituire evidentemente il suo precipuo interesse, risiede nello studio dei caratteri sulla scena. L’approfondimento dei sentimenti e della psicologia dei personaggi, che è così assente in Plauto, è invece un’esigenza in Terenzio che nasce dall’ideale, anche questo scipionico, dell’humanitas, dalla consapevolezza di essere tutti appartenenti alla medesima razza umana, incatenata dai propri limiti e riscattata dal proprio dolore, magnificata dalla propria generosità. Il concetto di humanitas, sviluppato dal filosofo stoico greco Panezio di Rodi all’interno del circolo degli Scipioni, è talvolta limitativamente ricondotto a quello della filanthropìa greca, con la quale – e in parte anche con il termine italiano ‘filantropia’ – condivide l’apertura ai rapporti umani, ma dalla quale se ne differenzia per una ben maggiore ampiezza di respiro, come è ben sintetizzato proprio in una meritatamente celeberrima affermazione di Terenzio, quasi un manifesto programmatico, presente in Heautontimorumenos, 77:
homo sum: humani nihil a me alienum puto
che è, oggi come allora, la più pura espressione dell’humanitas. Ma la frase ad effetto è solo la punta emergente dalle acque dei testi terenziani: benché in modo meno immediato, tutta l’arte sua è permeata del concetto di humanitas, come si può constatare nella sua singolare tendenza a soffermarsi sui lati inaspettati dei suoi caratteri, ad esempio per cogliere l’umanissimo dolore di un personaggio altrimenti noto al pubblico solo come “cattivo” di turno. Perché è umano osservare che la vera natura dell’uomo non è fissata in canoni, come quelli di un genere letterario che vogliono ricondurre con superficiale astrazione ogni personaggio al suo stereotipo; come i canoni di Plauto, che fanno ogni sua maschera prigioniera di uno schema ben noto al pubblico, peraltro sfruttato con maestria per generare instancabilmente comicità.
Naturalmente, una impostazione artistica così ricca, profonda e raffinata, così aliena dalla tradizione, così anticipatrice, ad esempio degli ideali dell’età augustea, richiedeva una ben maggiore disponibilità del pubblico alla comprensione delle scene e degli avvenimenti e all’approfondimento dei personaggi che non, concludendo il confronto che ci siamo imposti, l’arte plautina. Quest’ultima, tentando un paragone moderno con i suoi limiti e la sua approssimazione, in rapporto all’arte terenziana può essere quello che è oggi il cinema cosidetto d’evasione nei confronti del cinema ritenuto impegnato.
Qui, certamente, è da ricercarsi l’origine dei contrasti con il pubblico, di cui è giunta fino a noi la convinta eco trasportata dagli aneddoti incentrati sull’argomento e confermata dal contenuto dei prologhi; e qui è da ricercarsi l’origine dell’ultimo filone di accuse mossegli da Luscio Lanuvino, da cui ancora nei prologhi Terenzio cerca difesa, che le sue commedie fossero blandamente comiche e poco interessanti e lo stile troppo composto e insipido. Terenzio sa che il genere di commedie rumoroso e scoppiettante è il preferito dal pubblico, come lo sapeva Luscio, e che questa critica coglie, da un lato, nel segno (fatto che, forse, la rendeva più malevola e odiosa). Si affida allora all’età di Turpione, al quale, nei prologhi dell’Heautontimorumenos e del Phormio, mette in bocca una polemica contro quegli autori che fanno gridare e correre i propri attori da un lato all’altro della scena. Ma se Terenzio non affronta il pubblico con una difesa aperta dei suoi ideali artistici, non si può fargliene una colpa: il pubblico in teatro è altra cosa da un consesso d’accademia e la sua indagine critica si fonda su altri canoni. Ecco allora che, da questo punto di vista, egli ricorre, come fece anche contro l’accusa di contaminazione e plagio, all’arma dei suoi avversari, il pubblico stesso e il suo desiderio di divertimento, con ragioni ad esso comprensibili.
Ma le caratteristiche dell’arte terenziana non hanno certo impedito – e forse hanno favorito – che la sua opera venisse convenientemente apprezzata, letta, studiata e imitata, come avvenne già presso i suoi immediati successori. Afranio, il più grande autore di togatae secondo Quintiliano, e che Orazio giudicò pari a Menandro, utilizzò largamente Terenzio, di cui Orazio stesso, così severo verso Plauto e verso tutto ciò che è arcaico, loda l’ars. Varrone Reatino diceva che Cecilio Stazio era il migliore in argumentis, Plauto in sermonibus e Terenzio in ethesin, cioè nell’approfondimento dei personaggi. Cicerone e Cesare sono concordi nell’apprezzarne la purezza della lingua, anche se il secondo gli rimprovera la debolezza della vis comica e lo chiama dimidiate Menander. Notevole simpatia gli manifestarono anche gli scrittori cristiani, soprattutto per l’impostazione morale, incentrata su quell’humanitas di cui tutta l’opera terenziana è imbevuta. Manifestatosi, con il quarto secolo, il bisogno di recuperare i testi originali corrotti da secoli di uso ininterrotto, che divenne di lì a poco esigenza di salvare l’epopea culturale classica dal barbaro che avanzava, il grammatico Elio Donato compì l’opera dell’esegeta e del commentatore, contribuendo forse più di ogni altro all’immortalità di Terenzio.
Inizia così nell’antichità una fortuna, figlia dell’apprezzamento e madre dell’imitazione, che attraverso il Medioevo e il Rinascimento – come è attestato dalla messe di manoscritti che ci tramandano integralmente o in parte le commedie terenziane e come è confermato dalla loro inclusione nei corsi di studi di ogni tempo – si è estesa fino a noi. Una fortuna che ha però visto le sue opere lette e studiate con costanza immutabile, ma altrettanto immutabilmente poco rappresentate, segno forse che, non sempre immeritatamente, l’arte asservita all’evasione ha in ogni tempo maggior successo di quella impegnata.