La struttura del calendario romano

Indice degli argomenti trattati
  1. Fas e ius alla radice del calendario romano
  2. Dies festi, feriae
  3. Dies profesti
  4. Dies fasti, nefasti, intercisi; dies comitiales
  5. Dies religiosi, dies atri
  6. Kalendae, Nonae, Idus
  7. Nundinae
Indice delle fonti utilizzate
  • Varrone De lingua Latina 6,3-4 (circa 45 a.C.)
  • Ovidio Fasti (circa 5-10 d.C.)
  • Macrobio Saturnalia 1,15-16 (circa 430 d.C.)

Fas e ius alla radice del calendario romano

Varrone De lingua Latina 6,3:

[6,3] Ad naturale discrimen civilia vocabula dierum accesserunt. Dicam prius qui deorum causa, tum qui hominum sunt instituti. […]

Macrobio Saturnalia 1,16,2-3:

[1,16,2] Numa ut in menses annum, ita in dies mensem quemque distribuit, diesque omnes aut festos aut profestos aut intercisos vocavit. Festi dis dicati sunt: profesti hominibus ob administrandam rem privatam publicamque concessi: intercisi deorum hominumque communes sunt. [3] Festis insunt sacrificia epulae ludi feriae: profestis fasti comitiales conperendini stati praeliares: intercisi in se non in alia dividuntur: illorum enim dierum quibusdam horis fas est, quibusdam fas non est ius dicere. Nam, cum hostia caeditur, fari nefas est: inter caesa et porrecta fari licet: rursus, cum adoletur, non licet. […]

Rispettivamente nel capitolo sesto del De lingua Latina e nel primo capitolo dei Saturnalia, gli eruditi Varrone e Macrobio – non esaustivamente ma senza sostanziali incompatibilità, nonostante il primo sia contemporaneo alla materia trattata, il secondo la guardi da quattro secoli di distanza – trattano della struttura del calendario romano tradizionale, quello nato nei secoli della repubblica.

Il calendario romano civile fu sempre essenzialmente uno strumento religioso. I Romani non facevano distinzione “tra stato e chiesa”: dai tempi più antichi gli usi civili del calendario erano intimamente connessi alla religione tradizionale e, pur nell’evoluzione delle forme della religione, tali rimasero nella sostanza durante la repubblica e, per la verità, anche dopo la riforma giuliana (e anche quando la religione tradizionale cedette al Cristianesimo, i Cristiani crearono un legame tra il calendario e la religione sfruttando le caratteristiche della regola giuliana per il calcolo della Pasqua: quando si dovette cambiare la regola pasquale, si dovette cambiare anche la regola quadriennale). Il calendario repubblicano era perciò materia del collegio pontificale e anche i dettagli più tecnici, come l’intercalazione, non potevano che ricadere nella specifica competenza di questi sacerdoti (che non a caso erano spesso ex magistrati) quali primi attori del culto pubblico e controllori del suo corretto svolgimento.

In questo stato di cose, l’introduzione del calendario giuliano segnò una importante discontinuità: si trattava di un calendario razionale che non poteva più essere soggetto all’arbitrio dei pontefici, come si realizzò ben presto grazie all’errore del bisestile triennale. Tuttavia, il complesso delle feste tradizionali, molte di origine antichissima, che era stato trasferito integralmente da Cesare nel nuovo calendario ed era stato rilanciato nella consuetudine dalla politica restauratrice e conservatrice di Augusto, continuò ad essere l’ossatura della religione romana; soltanto, ad esse si sovrapposero le aggiunte necessarie alla propaganda imperiale.

Per i Romani il dualismo tra divinità e umanità informave tutti i fatti umani e perciò anche il tempo, dimensione ordinatrice delle attività sacre e profane. Soltanto col permesso e con l’avallo degli dèi il Romano poteva affrontare i propri compiti, quelli privati e soprattutto i più nobili, quelli di carattere pubblico, e tra essi i più alti, quelli connessi con la giustizia, la politica, la grandezza dello stato. L’animo romano attribuiva sacralità, nel rispetto delle divinità, all’esercizio della massima tra le attività umane, la iustitia; onore alla partecipazione alla res publica; esaltazione alla bellica virtus. Gli era perciò inammissibile la commistione tra liturgia religiosa e rito giudiziario, così come tra formula religiosa e discorso politico, tra espiazione religiosa ed eroismo militare.

Il fondamento del dualismo dio-uomo è il concetto di fas, la liceità sacrale che discende dalla supremazia degli dèi sugli uomini. Coltivato il corretto rapporto con gli dèi, captato il loro favore, conosciuto il loro volere, diviene lecito (fas) lo svolgimento delle attività umane. Esse sono lecite fin tanto che si segua lo ius, il principio regolatore dell’agire dell’uomo in relazione con gli dèi e con gli altri suoi simili. C’è uno ius pontificalis, perché custodito dai pontefici, a presidio e garanzia del corretto svolgimento dei sacra, i riti sacri pubblici ma anche privati, in conformità al volere degli dèi. La manifestazione per eccellenza dello ius (iustitia) è nell’esercizio della più sacra delle attività umane, l’amministrazione della giustizia.

Coerentemente con questa visione, Varrone introduce una preliminare suddivisione tra dies deorum causa instituti e dies hominum causa instituti: i primi individuano le festività religiose del calendario, i dies festi o, come dice Macrobio, giorni dedicati agli dèi (di seguito Varrone elenca trentacinque feste romane fisse e ne nomina altre cinque mobili); i secondi sono i termini usati per gli scopi civili pubblici e privati, cioè per la determinazione delle date (Kalendae, Nonae, Idus) e per la caratterizzazione dei dies profesti, cioè i giorni che, secondo Macrobio, sono concessi agli uomini per l’esercizio delle loro attività pubbliche e private.

Le attività umane sono incompatibili con i sacra che avvengono nel tempo dedicato agli dèi, cioè sono ammissibili e lecite (fas) solo al di fuori dei dies festi, che sono quindi in generale nefasti. I dies profesti, invece, possono essere fasti e ammettere come lecita l’amministrazione della giustizia (tra essi si potevano individuare i giorni stabiliti per la comparizione in tribunale, i dies comperendini e i dies stati), la convocazione dei comizi (dies comitiales), l’attaccar battaglia sotto auspici favorevoli (dies praeliares).

Sia i dies festi che i dies fasti nascono per regolare il rapporto dell’uomo con dio, e infatti la loro istituzione è ascritta a Numa, il re sacerdote. I due concetti di fas e festus sono animati dal medesimo senso di sacralità. Non a caso, il confine tra dies deorum causa instituti e dies hominum causa instituti è segnato in duplice modo: perché ai dies festi, ordinariamente nefasti, si contrappongono da un lato i dies profesti, i giorni alternati ai festi, che sono concessi agli uomini per l’esercizio delle attività umane e che possono quindi essere fasti, dall’altro i dies intercisi, per i quali la suddivisione tra fas e nefas è al loro interno, ritmata dai tempi dell’esecuzione del sacrificio o dell’azione sacra.

Etimologicamente, la parola festus è legata al concetto di feriae, cioè di tempo sacro, dedicato agli dèi: in questo senso, le feriae indicano genericamente il tempo festivo. Questo termine, tuttavia, è usato da Macrobio specificamente per indicare quelle feste nelle quali non si svolgono riti o azioni liturgiche e più in generale alcuna attività stabilita, in opposizione agli altri tre generi di celebrazione delle festività, caratterizzate da riti specifici: l’immolazione di vittime (sacrificia), i conviti sacri (epula), la celebrazione di giochi (ludi). Da ciò probabilmente feriae deriverà i significati più tardi, cristiani e neolatini, di giorno alternativo al giorno del culto, la domenica, e anche di giorno di riposo dalle attività abituali.

Moltissime festività cadevano in giorni dell’anno prefissati che erano indicati sui calendari; per il periodo repubblicano a noi è giunto soltanto uno di questi calendari, i Fasti Antiates Maiores, mentre ne abbiamo diversi, pur frammentari, per il calendario giuliano. Varrone op.cit. 6,3 li chiama dies statuti, giorni stabiliti, mentre riserva il nome di dies annales statuti, giorni fissati ogni anno, alle numerose festività che venivano stabilite da magistrati e sacerdoti anno per anno in base a criteri certi (ad esempio all’interno di un determinato mese) o talvolta arbitrari. Il Reatino cita infine una terza categoria residuale, quella delle feriae che erano stabilite al bisogno, senza rispettare una cadenza annuale, e che pertanto non avevano un proprio nome: si tratta ad esempio dei periodi di pubbliche preghiere in tempo di calamità come i novendiali, l’analogo e forse l’antesignano delle nostre novene.

Dies festi, feriae

Macrobio Saturnalia 1,16,4-13:

[1,16,3] […] Ergo de divisione festorum et profestorum dierum latius disserendum est. [4] Sacra celebritas est vel cum sacrificia dis offeruntur vel cum dies divinis epulationibus celebratur vel cum ludi in honorem aguntur deorum vel cum feriae observantur. [5] Feriarum autem publicarum genera sunt quattuor: aut enim stativae sunt aut conceptivae aut imperativae aut nundinae. [6] Et sunt stativae universi populi communes certis et constitutis diebus ac mensibus et in fastis statis observationibus annotatae, in quibus praecipue servantur Agonalia Carmentalia Lupercalia. Conceptivae sunt quae quotannis a magistratibus vel sacerdotibus concipiuntur in dies vel certos vel etiam incertos, ut sunt Latinae Sementivae Paganalia Compitalia. Imperativae sunt quas consules vel praetores pro arbitrio potestatis indicunt. Nundinae sunt paganorum itemque rusticorum, quibus conveniunt negotiis propriis vel mercibus provisuri. [7] Sunt praeterea feriae propriae familiarum, ut familiae Claudiae vel Aemiliae seu Iuliae sive Corneliae, et si quas ferias proprias quaeque familia ex usu domesticae celebritatis observat. [8] Sunt singulorum, uti natalium fulgurumque susceptiones, item funerum atque expiationum: apud veteres quoque qui nominasset Salutem Semoniam Seiam Segetiam Tutilinam ferias observabat; item flaminica quotiens tonitrua audisset feriata erat, donec placasset deos. [9] Adfirmabat autem sacerdotes pollui ferias, si indictis conceptisque opus aliquod fieret. Praeterea regem sacrorum flaminesque non licebat videre feriis opus fieri: et ideo per praeconem denuntiabant, ne quid tale ageretur, et praecepti neglegens multabatur. [10] Praeter multam vero adfirmabatur eum qui talibus diebus inprudens aliquid egisset porco piaculum dare debere, prudentem expiare non posse Scaevola pontifex adseverabat. Sed Umbro negat eum pollui qui opus vel ad deos pertinens sacrorumve causa fecisset vel aliquid urgentem vitae utilitatem respiciens actitasset. [11] Scaevola denique consultus, quid feriis agi liceret, respondit: quod praetermissum noceret. Quapropter si bos in specum decidisset eumque paterfamilias adhibitis operis liberasset, non est visus ferias polluisse; nec ille qui trabem tecti fractam fulciendo ab inminenti vindicavit ruina. [12] Unde et Maro omnium disciplinarum peritus, sciens lavari ovem aut lanae purgandae aut scabiei curandae gratia, pronuntiavit tunc ovem per ferias licere mersari, si hoc remedii causa fieret:

balantumque gregem fluvio mersare salubri.

Adiciendo enim salubri ostendit avertendi morbi gratia tantummodo, non etiam ob lucrum purgandae lanae causa, fieri concessum. [13] Haec de festis et qui inde nascuntur, qui etiam nefasti vocantur. […]

Macrobio individua quattro categorie di dies festi, giorni festivi ordinariamente dedicati agli dèi, in base al tipo di sacra celebritas, di liturgia:

  • l’offerta di sacrificia agli dèi;
  • la consumazione di divinae epulationes;
  • la celebrazione di ludi in onore degli dèi;
  • l’osservanza di feriae, cioè di riposo dalle ordinarie attività senza che si svolgano riti particolari.

Le ultime, le feriae, sono il gruppo più eterogeneo e numeroso. Possono avere carattere pubblico o privato. Riguardo le prime, Macrobio individua quattro generi di feriae publicae: fisse (feriae stativae), mobili (feriae conceptivae, o, secondo Varrone, feriae conceptae), feriae imperativae (quelle indette da consoli e pretori nell’esercizio del proprio potere) e infine le nundinae (i giorni di mercato, nei quali villici e contadini vengono in città per condurre i propri affari e vendere le proprie merci). Le feriae privatae sono invece quelle osservate da una famiglia (ex usu domesticae celebritatis) o da singoli individui in occasione delle proprie memorie collettive o individuali (ut natalium fulgurum funerum expiationum susceptiones).

Nelle feriae era vietato svolgere qualunque attività lavorativa; era inoltre specificamente illecito farsi vedere impegnati in un lavoro dal rex sacrorum e dai flamines. I trasgressori erano multati, a meno che non facessero quod praetermissum noceret, cioè un lavoro urgentemente necessario ad evitare un nocumento.

Dies profesti

Macrobio Saturnalia 1,16,13-27:

[1,16,13] […] Nunc de profestis et qui ex his procedunt loquamur, id est fastis comitialibus conperendinis statis praeliaribus. [14] Fasti sunt quibus licet fari praetori tria verba sollemnia, do dico addico; his contrarii sunt nefasti. Comitiales sunt quibus cum populo agi licet; et fastis quidem lege agi potest, cum populo non potest, comitialibus utrumque potest: conperendini quibus vadimonium licet dicere: stati qui iudicii causa cum peregrino instituuntur, ut Plautus in Gurgulione: Status condictus cum hoste intercessit dies. [15] Hostem nunc more vetere significat peregrinum. Praeliares ab iustis non segregaverim, siquidem iusti sunt continui triginta dies quibus exercitui imperato vexillum russi coloris in arce positum est, praeliares autem omnes quibus fas est res repetere vel hostem lacessere. [16] Nam cum Latiar, hoc est Latinarum sollemne, concipitur, item diebus Saturnaliorum, sed et cum Mundus patet, nefas est praelium sumere: [17] quia nec Latinarum tempore, quo publice quondam induciae inter populum Romanum Latinosque firmatae sunt, inchoari bellum decebat, nec Saturni festo, qui sine ullo tumultu bellico creditur imperasse, nec patente Mundo, quod sacrum Diti patri et Proserpinae dicatum est: meliusque occlusa Plutonis fauce eundum ad praelium putaverunt. [18] Unde et Varro ita scribit: Mundus cum patet, deorum tristium atque inferum quasi ianua patet: propterea non modo praelium committi, verum etiam dilectum rei militaris causa habere, ac militem proficisci, navem solvere, uxorem liberum quaerendorum causa ducere, religiosum est. [19] Vitabant veteres ad viros vocandos etiam dies qui essent notati rebus adversis: vitabant etiam feriis, sicut Varro in Augurum libris scribit in haec verba: Viros vocare feriis non oportet: si vocavit, piaculum esto. [20] Sciendum est tamen eligendi ad pugnandum diem Romanis tunc fuisse licentiam, si ipsi inferrent bellum: at cum exciperent, nullum obstitisse diem, quo minus vel salutem suam vel publicam defenderent dignitatem. Quis enim observationi locus, cum eligendi facultas non supersit? [21] Dies autem postriduanos ad omnia maiores nostri cavendos putarunt, quos etiam atros velut infausta appellatione damnarunt: eosdem tamen nonnulli communes velut ad emendationem nominis vocitaverunt. Horum causam Gellius Annalium libro quinto decimo et Cassius Hemina Historiarum libro secundo referunt. [22] Anno ab urbe condita trecentesimo sexagesimo tertio a tribunis militum Virgilio Mallio Aemilio Postumio collegisque eorum in senatu tractatum, quid esset propter quod toties intra paucos annos male esset afflicta res publica; et ex praecepto Patrum L. Aquinium haruspicem in senatum venire iussum religionum requirendarum gratia dixisse: [23] Q. Sulpicium tribunum militum ad Alliam adversus Gallos pugnaturum rem divinam dimicandi gratia fecisse postridie Idus Quintiles, item apud Cremeram multisque aliis temporibus et locis post sacrificium die postero celebratum male cessisse conflictum. [24] Tunc Patres iussisse ut ad collegium pontificum de his religionibus referretur, pontificesque statuisse postridie omnes Kalendas Nonas Idus atros dies habendos, ut hi dies neque praeliares neque puri neque comitiales essent. [25] Sed et Fabius Maximus Servilianus pontifex in libro XII negat oportere atro die parentare; quia tunc quoque Ianum Iovemque praefari necesse est, quos nominari atro die non oportet. [26] Ante diem quoque quartum Kalendas vel Nonas vel Idus tamquam nominalem diem plerique vitant. Eius observationis an religio ulla sit tradita quaeri solet: sed nos nihil super ea re scriptum invenimus, nisi quod Q. Claudius Annalium quinto cladem illam vastissimam pugnae Cannensis factam refert ante diem quartum Nonas Sextiles. [27] Ad rem sane militarem nihil attinere notat Varro, utrum fastus vel nefastus dies sit, sed ad solas hoc actiones respicere privatas.

Macrobio elenca cinque categorie di dies profesti:

  • i dies fasti, cioè i giorni nei quali è lecito al pretore pronunziare ogni parola e in particolare le tre parole solenni “do, dico, addico“, cioè gli è lecito amministrare la giustizia (lege agi potest), poiché a questo scopo è necessario usare uno di questi tre verbi;
  • i dies comitiales, i giorni nei quali, oltre ad amministrare la giustizia, è lecito indire i comizi e parlare al popolo, il quale doveva poi votare (cum populo agi potest);
  • i dies comperendini, i giorni nei quali era lecito vadimonium dicere, cioè, in caso di proroga (comperendinatio) o rinvio a giudizio, dare formale promessa di ripresentarsi davanti al giudice nel giorno stabilito (eventualmente, nelle varie epoche del diritto romano, dietro presentazione di un garante o di una cauzione quale garanzia);
  • i dies stati, giorni stabiliti per convenire a giudizio, nel significato originale, con un forestiero;
  • i dies praeliares, quelli nei quali era lecito attaccare battaglia (non lo erano ad esempio il Latiar, nome originale della solennità delle feriae Latinae, i Saturnalia e i giorni in cui si apriva il Mundus).

Come i dies festi erano nefasti, i dies profesti erano, in generale, fasti: in essi il pretore poteva pronunciare le tre parole “do, dico, addico” e quindi era lecita l’amministrazione della giustizia (lege agere). I giorni comiziali erano un sottoinsieme dei giorni fasti: in essi infatti, oltre che amministrare la giustizia, era lecito cum populo agere, cioè convocare i comizi e votare (Macrobio, op.cit. 1,14,12 specifica che quando Cesare, nella sua riforma del calendario, aggiungerà dieci giorni distribuiti tra i vari mesi, li farà fasti e non comiziali). L’unica eccezione, ricorda Varrone, erano le feriae conceptae, cioè le feste mobili: potendo cadere in giorni diversi da un anno all’altro, non erano contemplate dai calendari, ma cambiavano il carattere dei giorni nei quali erano indette divenendo dies nefasti, pertanto vi era illecito convocare i comizi.

Tra i fasti erano da ricomprendere i dies comperendini e i dies stati, nei quali per definizione ci si presentava davanti a un giudice. Nota Varrone che i fasti e nefasti riguardavano solo le azioni private e non avevano attinenza con le azioni militari e quindi con i dies praeliares, il criterio di scelta dei quali rimane peraltro oscuro.

Dies fasti, nefasti, intercisi; dies comitiales

Varrone De lingua Latina 6,4:

[6,4] […] Dies fasti, per quos praetoribus omnia verba sine piaculo licet fari. Comitiales dicti, quod tum ut in Comitio esset populus constitutum est ad suffragium ferundum, nisi si quae feriae conceptae essent, propter quas non liceret, ut Compitalia et Latinae. Contrarii horum vocantur dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem “do,” “dico,” “addico”; itaque non potest agi: necesse est aliquo eorum uti verbo, cum lege quid peragitur. Quod si tum imprudens id verbum emisit ac quem manumisit, ille nihilo minus est liber, sed vitio, ut magistratus vitio creatus nihilo setius magistratus. Praetor qui tum fatus est, si imprudens fecit, piaculari hostia facta piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius aiebat eum expiari ut impium non posse. Intercisi dies sunt per quos mane et vesperi est nefas, medio tempore inter hostiam caesam et exta porrecta fas; a quo quod fas tum intercedit aut eo intercisum nefas, intercisi. Dies qui vocatur sic “Quando rex comitiavit fas” is dictus ab eo quod eo die rex sacrificio ius dicat ad Comitium, ad quod tempus est nefas, ab eo fas: itaque post id tempus lege actum saepe. Dies qui vocatur “Quando stercum delatum fas”, ab eo appellatus, quod eo die ex Aede Vestae stercus everritur et per Capitolinum Clivum in locum defertur certum. […]

Tutti i giorni del calendario romano avevano un proprio carattere. Sembra probabile che in principio il carattere riguardasse essenzialmente l’amministrazione della giustizia; in tal modo i giorni del calendario si suddividevano in fasti o nefasti, in pochi casi intercisi, cioè nefasto al principio e alla fine del giorno, fasto nel mezzo, quando vi si svolgeva un sacrificio. Vi erano poi due tipi particolari di giorni intercisi, noti come dies fissi:

  • dies qui vocatur “quando rex comitiavit fas”: era nefasto fin quando il rex sacrorum (e prima di lui certamente il re) parlava nel comizio, poi diveniva fasto;
  • dies qui vocatur “quando stercum delatum fas”: era nefasto finché non veniva portato via lo sterco, o forse genericamente la sporcizia conseguente alla celebrazione dei sacrifici, accumulata nel tempio di Vesta (evidentemente riferito a una usanza molto antica, era stato comunque conservato nei calendari anche quando l’uso era di certo scomparso da tempo).

L’attività politica divenne un altro elemento caratterizzante, pare, al principio del III secolo a.C. quando furono introdotti i dies comitiales. Nei giorni comiziali era permesso convocare i comizi; quando non erano convocati, era comunque permessa la giurisdizione.

Dies religiosi, dies atri

Varrone De lingua Latina 6,4:

[6,4] […] Dies postridie Kalendas, Nonas, Idus appellati atri, quod per eos dies nihil novi inciperent. […] Dies Alliensis ab Allia fluvio dictus: nam ibi exercitu nostro fugato Galli obsederunt Romam.

Livio Ab Urbe condita libri 6,1:

[6,1] […] Tum de diebus religiosis agitari coeptum, diemque a.d. XV Kal. Sextiles, duplici clade insignem, quo die ad Cremeram Fabii caesi, quo deinde ad Alliam cum exitio urbis foede pugnatum, a posteriore clade Alliensem appellarunt, insignemque rei nullius publice privatimque agendae fecerunt. Quidam, quod postridie Idus Quintiles non litasset Sulpicius tribunus militum neque inventa pace deum post diem tertium obiectus hosti exercitus Romanus esset, etiam postridie Idus rebus divinis supersederi iussum, inde, ut postridie Kalendas quoque ac Nonas eadem religio esset, traditum putant.

Tutti i dies postriduani, cioè i giorni successivi a calende, none e idi, erano considerati sfavorevoli e detti dies atri, dopo che una indagine promossa in senato dai tribuni militari del 389 a.C. sulle ragioni delle recenti sfortune dello stato aveva evidenziato che i riti propiziatori prima della battaglia dell’Allia erano stati condotti il giorno seguente le idi di luglio (il terzo giorno che precedette il dies Alliensis, il giorno della sconfitta, tramandata nel 18 luglio) e che analoghe coincidenze erano avvenute prima del Cremera e in molte altre occasioni. I dies atri non erano comitialespraeliares, erano impuri e non vi si potevano perciò celebrare sacrifici né matrimoni.

Una fama sinistra, anche se meno spiccatamente, la avevano anche i quarti giorni prima di calende, none e idi, senza altra apparente ragione se non che gli Annali di Quinto Claudio riportavano che la disfatta di Canne ebbe luogo ante diem quartum Nonas Sextiles.

Kalendae, Nonae, Idus

Varrone De lingua Latina 6,4:

[6,4] De his diebus satis; nunc iam, qui hominum causa constituti, videamus. Primi dies mensium nominati Kalendae, quod his diebus calantur eius mensis Nonae a pontificibus, quintanae an septimanae sint futurae, in Capitolio in Curia Calabra sic: “Die te quinti kalo Iuno Covella” aut “Septimi die te kalo Iuno Covella.” Nonae appellatae aut quod ante diem nonum Idus semper, aut quod, ut novus annus Kalendae Ianuariae ab novo sole appellatae, novus mensis ab nova luna Nonae; eodem die in Urbem qui in agris ad regem conveniebat populus. Harum rerum vestigia apparent in sacris Nonalibus in Arce, quod tunc ferias primas menstruas, quae futurae sint eo mense, rex edicit populo. Idus ab eo quod Tusci Itus, vel potius quod Sabini Idus dicunt. […]

Macrobio Saturnalia 1,15,5-22:

[1,15,5] Romulus, cum ingenio acri quidem sed agresti statum proprii ordinaret imperii, initium cuiusque mensis ex illo sumebat die quo novam lunam contigisset videri. [6] Quia non continuo evenit ut eodem die semper appareat, sed modo tardius modo celerius ex certis causis videri solet, contigit ut, cum tardius apparuit, praecedenti mensi plures dies, aut cum celerius, pauciores darentur: et singulis quibusque mensibus perpetuam numeri legem primus casus addixit. Sic factum est ut alii triginta et unum alii undetriginta sortirentur dies. [7] Omnibus tamen mensibus ex die Nonarum Idus nono die repraesentari placuit: et inter Idus ac sequentes Kalendas constitutum est sedecim dies esse numerandos. Ideo mensis uberior duos illos quibus augebatur dies inter Kalendas suas et Nonas habebat. Hinc aliis quintus a Kalendis dies aliis septimus Nonas facit. [8] Caesar tamen, ut supra diximus, stata sacra custodiens, nec in illis mensibus quibus binos adiecit dies ordinem voluit mutare Nonarum, quia peractis totius mensis feriis dies suos rei divinae cautus inseruit. [9] Priscis ergo temporibus, antequam fasti a Cn. Flavio scriba invitis Patribus in omnium notitiam proderentur, pontifici minori haec provincia delegabatur, ut novae lunae primum observaret aspectum visamque regi sacrificulo nuntiaret. [10] Itaque sacrificio a rege et minore pontifice celebrato idem pontifex calata, id est vocata, in Capitolium plebe iuxta curiam Calabram, quae casae Romuli proxima est, quot numero dies a Kalendis ad Nonas superessent pronuntiabat: et quintanas quidem dicto quinquies verbo calo, septimanas repetito septies praedicabat. [11] Verbum autem calo Graecum est, id est voco: et hunc diem, qui ex his diebus qui calarentur primus esset, placuit Kalendas vocari. Hinc et ipsi curiae ad quam vocabantur Calabrae nomen datum est, et classi, quod omnis in eam populus vocaretur. [12] Ideo autem minor pontifex numerum dierum qui ad Nonas superessent calando prodebat, quod post novam lunam oportebat Nonarum die populares qui in agris essent confluere in urbem accepturos causas feriarum a rege sacrorum sciturosque, quid esset eo mense faciendum. [13] Unde quidam hinc Nonas aestimant dictas, quasi novae initium observationis, vel quod ab eo die semper ad Idus novem dies putantur: sicut apud Tuscos Nonae plures habebantur, quod hi nono quoque die regem suum salutabant et de propriis negotiis consulebant. [14] Iduum porro nomen a Tuscis, apud quos is dies Itis vocatur, sumptum est. Item autem illi interpretantur Iovis fiduciam. Nam cum Iovem accipiamus lucis auctorem, unde et Lucetium Salii in carminibus canunt et Cretenses *di/a th\n h(me/ran vocant, ipsi quoque Romani Diespitrem appellant, ut diei patrem. [15] Iure hic dies Iovis fiducia vocatur, cuius lux non finitur cum solis occasu, sed splendorem diei et noctem continuat inlustrante luna: quod semper in plenilunio, id est medio mense, fieri solet: diem igitur, qui vel nocturnis caret tenebris, Iovis fiduciam Tusco nomine vocaverunt: unde et omnes Idus Iovis ferias observandas sanxit antiquitas. [16] Alii putant Idus, quod ea die plena luna videatur, a videndo vidus appellatas, mox litteram v detractam: sicut contra, quod Graeci i)dei=n dicunt, nos v littera addita videre dicimus. Nonnullis placet Idus dictas vocabulo Graeco, oi(=on a)po\ tou= ei)/dous, quod eo die plenam speciem luna demonstret. Sunt qui aestimant Idus ab ove Iduli dictas, quam hoc nomine vocant Tusci, et omnibus Idibus Iovi immolatur a flamine. [17] Nobis illa ratio nominis vero propior aestimatur, ut Idus vocemus diem qui dividit mensem. Iduare enim Etrusca lingua dividere est: unde vidua, quasi valde idua, id est valde divisa: aut vidua, id est a viro divisa. [18] Ut autem Idus omnes Iovi ita omnes Kalendas Iunoni tributas et Varronis et pontificalis adfirmat auctoritas. Quod etiam Laurentes patriis religionibus servant, qui et cognomen deae ex cerimoniis addiderunt, Kalendarem Iunonem vocantes, sed et omnibus Kalendis a mense Martio ad Decembrem huic deae Kalendarum die supplicant. [19] Romae quoque Kalendis omnibus, praeter quod pontifex minor in curia Calabra rem divinam Iunoni facit, etiam regina sacrorum, id est regis uxor, porcam vel agnam in regia Iunoni immolat: a qua etiam Ianum Iunonium cognominatum diximus, quod illi deo omnis ingressus, huic deae cuncti Kalendarum dies videntur adscripti. [20] Cum enim initia mensium maiores nostri ab exortu lunae servaverint, iure Iunoni addixerunt Kalendas, lunam ac Iunonem eandem putantes: vel quia luna per aerem meat, unde et Graeci lunam a)/rtemin nuncuparunt, id est a)ero/tomin, quod aera secat, Iuno autem aeris arbitra est, merito initia mensium, id est Kalendas, huic deae consecraverunt. [21] Nec hoc praetermiserim, quod nuptiis copulandis Kalendas Nonas et Idus religiosas, id est devitandas, censuerunt. Hi enim dies praeter Nonas feriati sunt: feriis autem vim cuiquam fieri piaculare est: ideo tunc vitantur nuptiae, in quibus vis fieri virgini videtur. Sed Verrium Flaccum iuris pontificii peritissimum dicere solitum refert Varro, quia feriis tergere veteres fossas liceret, novas facere ius non esset, ideo magis viduis quam virginibus idoneas esse ferias ad nubendum. [22] Subiciet aliquis: Cur ergo Nonis, si feriatus dies non est, prohibetur celebritas nuptiarum? Huius quoque rei in aperto causa est. Nam quia primus nuptiarum dies verecundiae datur, postridie autem nuptam in domo viri dominium incipere oportet adipisci et rem facere divinam, omnes autem postriduani dies seu post Kalendas sive post Nonas Idusve ex aequo atri sunt, ideo et Nonas inhabiles nuptiis esse dixerunt, ne nupta aut postero die libertatem auspicaretur uxoriam aut atro immolaret quo nefas est sacra celebrari.

Fin dai tempi più remoti, identificati dalla tradizione con l’epoca di Romolo, il calendario romano si basò sul mese lunare. Ogni mese erano stabiliti tre giorni fissi legati alle fasi lunari: le Kalendae, che cadevano sempre il primo giorno del mese e coincidevano col novilunio; le Idus, coincidenti con il plenilunio, che in epoca storica furono fissate il tredicesimo o il quindicesimo giorno del mese a seconda della sua lunghezza; e le Nonae, che cadevano sempre il nono giorno prima delle Idus e quindi il quinto o il settimo giorno del mese. Talvolta si afferma, per simmetria con le calende e le idi, che le none sarebbero anch’esse collegate con le fasi lunari e in particolare col primo quarto di luna. Tuttavia, a parte l’eccessiva imprecisione astronomica che si viene così a determinare, si deve subito osservare che la funzione delle none era del tutto diversa. Come vedremo meglio tra breve, nelle calende si comunicava al popolo presente l’inizio del nuovo mese e si fissava un successivo appuntamento, il giorno delle none appunto, nel quale si sarebbero annunciate le festività del mese, in modo che quel giorno potesse essere presente la maggiore moltitudine possibile e fosse così favorita la conoscenza e la partecipazione alle celebrazioni.

La regolazione del calendario era tra le responsabilità del pontifex maximus, che stabiliva i dies fasti e li registrava in un apposito documento redatto per ogni anno. Il documento prendeva ancora il nome di fasti, nome che così passò col tempo a indicare quello che noi chiamiamo calendario. Il mese civile iniziava con la luna nuova e l’incarico di rilevarla e annunciarla era affidato a uno scriba pontificus (un assistente del pontefice massimo, dall’epoca di Augusto chiamato pontifex minor), il quale espletava il suo incarico osservando il cielo da un posto a lui riservato nella Curia Calabra sul colle capitolino vicino alla casa Romuli. In origine, ricorda Macrobio, la conoscenza dei fasti era privilegio dei patrizi, dato che da essa dipendeva l’amministrazione della giustizia, finché uno scriba, un certo Gneo Flavio, invitis patribus decise di renderli pubblici anche ai plebei (Livio Ab Urbe condita libri 9,46,5 assegna questo episodio al 304 a.C.).

La procedura, o meglio la liturgia, voleva che il pontefice minore annunciasse l’arrivo della luna nuova al rex sacrificulus. Questi, anche detto rex sacrorum, era un sacerdote, creato, sembra, al principio dell’età repubblicana per assumere il ruolo e svolgere i compiti rituali e liturgici che in passato erano del re; secondo Festo occupava il vertice della gerarchia sacerdotale della religione romana, seguito dai tre flamini maggiori e, al quinto posto, dal pontefice massimo, al quale peraltro spettava in solitudine la nomina di tutti costoro e quindi nei fatti la superiorità. Il pontefice minore, celebrato un sacrificio col rex sacrificulus, chiamava il popolo sul Campidoglio davanti alla Curia Calabra e dichiarava con una formula peculiare quanti giorni dovevano passare dalle calende alle none, se cinque o sette. Il nome Kalendae del giorno della luna nuova, primo giorno del mese, così come il nome della Curia Calabra, derivano proprio dalla radice cal- del verbo arcaico calo, che ha la stessa forma e radice del greco kalw= e la stessa radice e il medesimo significato del latino classico clamo.

Era necessario, annota Macrobio, pubblicare il giorno delle Nonae perché in esso il popolo doveva dai campi affluire all’Urbe per ricevere notizia delle festività religiose del mese e delle attitivà da svolgere nel mese dalla voce del rex sacrorum. Le Nonae erano così dette perché ogni volta inizio di una nuova osservazione della luna o più persuasivamente perché cadevano sempre il nono giorno prima delle Idus. Le Idus identificavano il giorno nel quale cade il plenilunio ed erano ritenute voce di derivazione etrusca: gli Etruschi avevano l’usanza di recarsi dal proprio re ogni nove giorni per trattare gli affari privati. La parola etrusca corrispondente traduceva la fiducia Iovis, e perciò nelle idi si osservavano le feriae Iovis, poiché Giove autore della luce e Diespiter, padre del giorno, è celebrato nel giorno nel quale la luce non finisce al tramonto del sole ma continua anche dopo quando lo splendore della luna piena che illumina le tenebre notturne.

Numerose erano però le etimologie alternative delle idi: Varrone preferiva pensare a un passaggio dall’analogo vocabolo sabino; Macrobio, dopo aver riportato l’opinione che pensava a un legame con la radice greca *Fid- o con la radice etrusca che indicava la pecora, perché una pecora si immolava a Giove nelle idi, ritiene più convincente il legame con la parola etrusca (da lui latinizzata con iduare) che significa dividere, perché le idi dividono in due il mese.

Come tutte le idi erano dedicate a Giove, tutte le calende erano sacre a Giunone: il primo di ogni mese il pontifex minor celebrava un rito in onore di Giunone nella Curia Calabra e la regina sacrorum (figura che accompagnava il rex sacrorum avendo il ruolo della moglie del re) immolava nella Reggia una porca o una agnella a Giunone. E Giano, dio di tutti gli inizi, era appellato Giunonio dalla dea nel cui nome iniziavano tutti i mesi. La ragione dell’accostamento? Perché la luna, il cui sorgere segna l’inizio del mese, attraversa il cielo e Giunone è la regina del cielo.

Nelle calende, none e idi era probita la celebrazione dei matrimoni: il giorno successivo al matrimonio avveniva tradizionalmente l’ingresso della nuova padrona nella casa dello sposo e si celebrava per l’occasione un sacrificio, ma i giorni successivi a calende, none e idi erano atri (vedi supra) e vi era illecita la celebrazione di riti sacri. Come si è visto, calende e idi erano inoltre feriati e il fare violenza a qualcuno nelle feriae, includendo la violenza fatta alla vergine sposa, avrebbe poi dovuto essere oggetto di espiazione.

I giorni fissi erano talmente importanti che le date del mese furono espresse dai Romani e poi a lungo anche dalla Chiesa assumendo come riferimento proprio i giorni fissi: ad esempio la formula (peraltro grammaticalmente poco chiara) ante diem IV Kalendas (o Idus o Nonas) Martias indicava il quarto giorno (contando inizio e fine come d’abitudine) prima delle calende o delle idi o delle none di marzo, riferendosi perciò (nel calendario giuliano e tendo conto che le idi di marzo cadevano il 15) rispettivamente al 26 febbraio, al 4 marzo e al 12 marzo.

Nundinae

Macrobio Saturnalia 1,16,28-36:

[1,16,28] Quod autem nundinas ferias dixi potest argui, quia Titus de feriis scribens nundinarum dies non inter ferias retulit sed tantum sollemnes vocavit: et quod Iulius Modestus adfirmat Messala augure consulente pontifices, an nundinarum Romanarum Nonarumque dies feriis tenerentur, respondisse eos nundinas sibi ferias non videri: et quod Trebatius in libro primo Religionum ait nundinis magistratum posse manu mittere iudiciaque addicere. [29] Sed contra Iulius Caesar sexto decimo Auspiciorum libro negat nundinis concionem advocari posse, id est cum populo agi: ideoque nundinis Romanorum haberi comitia non posse. Cornelius etiam Labeo primo Fastorum libro nundinis ferias esse pronuntiat. [30] Causam vero huius varietatis apud Granium Licinianum libro secundo diligens lector inveniet. Ait enim nundinas Iovis ferias esse, siquidem flaminica omnibus nundinis in regia Iovi arietem soleat immolare: sed lege Hortensia effectum ut fastae essent, uti rustici, qui nundinandi causa in urbem veniebant, lites conponerent: nefasto enim die praetori fari non licebat. [31] Ergo qui ferias dicunt a mendacio vindicantur patrocinio vetustatis: qui contra sentiunt aestimatu aetatis quae legem secuta est vera depromunt. [32] Harum originem quidam Romulo adsignant, quem communicato regno cum T. Tatio sacrificiis et sodalitatibus institutis nundinas quoque adiecisse commemorant, sicut Tuditanus adfirmat. [33] Sed Cassius Servium Tullium fecisse nundinas dicit, ut in urbem ex agris convenirent urbanas rusticasque res ordinaturi. Geminus ait diem nundinarum exactis iam regibus coepisse celebrari, quia plerique de plebe repetita Servii Tullii memoria parentarent ei nundinis: cui rei etiam Varro consentit. [34] Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas, ut octo quidem diebus in agris rustici opus facerent, nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent, et ut scita atque consulta frequentiore populo referrentur, quae trinundino die proposita a singulis atque universis facile noscebantur. Unde etiam mos tractus ut leges trinundino die promulgarentur. [35] Ea re etiam candidatis usus fuit in comitium nundinis venire et in colle consistere unde coram possent ab universis videri: sed haec omnia neglegentius haberi coepta et post abolita, postquam internundino etiam ob multitudinem plebis frequentes adesse coeperunt. [36] Est etiam Nundina Romanorum dea a nono die nascentium nuncupata, qui lustricus dicitur. Est autem dies lustricus quo infantes lustrantur et nomen accipiunt: sed is maribus nonus, octavus est feminis.

A Roma le nundinae erano i giorni in cui si teneva il mercato. Derivante etimologicamente da novem dies, indicava in origine un periodo di otto giorni: dopo sette giorni impegnati nel lavore dei campi, l’ottavo dalle campagne affluivano nell’Urbe contadini e allevatori per trattare i loro affari. Si approfittava dell’occasione e della partecipazione di tanto popolo, che avrebbe altrimenti dovuto essere convocato di tanto in tanto, anche per comunicare e diffondere nel modo più semplice e rapido le leggi e le decisioni della plebe e del senato.

Si è detto in precedenza che le nundinae erano festive. Su questo punto Macrobio, che scrive nel V secolo, riporta notizie contrastanti di vari autori antichi: non tutti infatti le dicevano feriae, poiché, se da un lato non vi si potevano tenere i comizi, dall’altro era possibile al magistrato compiere atti di amministrazione della giustizia come affrancare gli schiavi ed emettere sentenze. Macrobio trova la composizione di questa contraddizione in Granio Liciniano, secondo il quale le nundinae erano feriae sacre a Giove, al quale in quei giorni si immolava un ariete nella Regia, ma furono rese fastae da una lex Hortensia (che i moderni assegnano al 287 a.C.) affinché i campagnoli non fossero costretti a venire appositamente nell’Urbe per comporre le loro liti ma potessero farlo negli stessi giorni nei quali già venivano per il mercato.

Discordi, secondo Macrobio, erano gli autori antichi anche su chi le avesse istituite, se Romolo, Servio Tullio, o se (come riteneva probabile anche Varrone) fossero nate dopo la cacciata dei re per onorare la memoria di Servio Tullio.

Per secoli le nundinae svolsero una funzione equivalente a quella della nostra settimana, che ha invece origine orientale: fu introdotta a Roma dagli Ebrei probabilmente a cavallo dell’Era Volgare e fu adottata ufficialmente solo da Costantino nel 321 d.C.