Indice degli argomenti trattati
- I giorni di mercato o nundinae
- La lex Hortensia
- La littera nundinalis
- Le nundinae e l’intercalazione
- Le nundine e la settimana
- La continuità del ciclo nundinale
- Lista delle nundinae note
Indice delle fonti utilizzate
- Fasti Antiates Maiores
- Tito Livio Ab Urbe condita libri 43,11,13&45,44,3 (opera edita tracirca il 20 e il 9 a.C.)
- Dionigi di Alicarnasso Antiquitates Romanae 2,28,3&7,58,3 (opera edita il 7 a.C.)
- Plinio il Vecchio Naturalis historia 18,13 (opera composta prima del 79 d.C.)
- Sesto Pompeo Festo De verborum significatu, sub voce Nundinas (II secolo d.C.)
- Dione Cassio Historia Romana 40,47,1-2&48,33,4&60,24,7 (opera edita attorno al 230 d.C.)
- Macrobio Saturnalia I,13,16-19&I,16,5-6&I,16,28-36 (opera edita attorno al 430 d.C.)
I giorni di mercato o nundinae
Dionigi di Alicarnasso Antiquitates Romanae 2,28,3:
εἰ μὲν εἰρήνην ἄγοιεν ἐπὶ τοῖς κατ᾽ ἀγρὸν ἔργοις [scil. Romulus] ἐθίζων ἅπαντας μένειν, πλὴν εἴ ποτε δεηθεῖεν ἀγορᾶς, τότε δ᾽ εἰς ἄστυ συνιόντας ἀγοράζειν, ἐνάτην ὁρίζων ἡμέραν ταῖς ἀγοραῖς […]
Dionigi di Alicarnasso Antiquitates Romanae 7,58,3:
γράφεται τὸ προβούλευμα μετὰ ταῦθ᾽ ὑπὲρ τῆς δίκης, καὶ χρόνος εἰς παρασκευὴν τῆς ἀπολογίας ὁρίζεται τῷ ἀνδρὶ [scil. Marcio Coriolano] μέχρι τῆς τρίτης ἀγορᾶς: αἱ δ᾽ ἀγοραὶ Ῥωμαίοις ἐγίνοντο ὡς καὶ μέχρι τῶν καθ᾽ ἡμᾶς χρόνων δι᾽ ἡμέρας ἐνάτης. ἐν δὲ ταύταις συνιόντες ἐκ τῶν ἀγρῶν εἰς τὴν πόλιν οἱ δημοτικοὶ τάς τ᾽ ἀμείψεις ἐποιοῦντο τῶν ὠνίων καὶ τὰς δίκας παρ᾽ ἀλλήλων ἐλάμβανον, τά τε κοινά, ὅσων ἦσαν κύριοι κατὰ τοὺς νόμους καὶ ὅσα ἡ βουλὴ ἐπιτρέψειεν αὐτοῖς, ψῆφον ἀναλαμβάνοντες ἐπεκύρουν: τὰς δὲ μεταξὺ τῶν ἀγορῶν ἑπτὰ ἡμέρας αὐτουργοί τ᾽ ὄντες οἱ πολλοὶ καὶ πένητες ἐν τοῖς ἀγροῖς διέτριβον.
Macrobio Saturnalia 1,16,5-6&28-36:
[1,16,5] Feriarum autem publicarum genera sunt quattuor. Aut enim stativae sunt aut conceptivae aut imperativae aut nundinae. [6] […] nundinae sunt paganorum itemque rusticorum, quibus conveniunt negotiis propriis vel mercibus provisuri. […] [28] Quod autem nundinas ferias dixi potest argui, quia Titus de feriis scribens nundinarum dies non inter ferias retulit sed tantum sollemnes vocavit: et quod Iulius Modestus adfirmat Messala augure consulente pontifices, an nundinarum Romanarum Nonarumque dies feriis tenerentur, respondisse eos nundinas sibi ferias non videri: et quod Trebatius in libro primo Religionum ait nundinis magistratum posse manu mittere iudiciaque addicere. [29] Sed contra Iulius Caesar sexto decimo Auspiciorum libro negat nundinis concionem advocari posse, id est cum populo agi: ideoque nundinis Romanorum haberi comitia non posse. Cornelius etiam Labeo primo Fastorum libro nundinis ferias esse pronuntiat. [30] Causam vero huius varietatis apud Granium Licinianum libro secundo diligens lector inveniet. Ait enim nundinas Iovis ferias esse, siquidem flaminica omnibus nundinis in regia Iovi arietem soleat immolare: sed lege Hortensia effectum ut fastae essent, uti rustici, qui nundinandi causa in urbem veniebant, lites conponerent: nefasto enim die praetori fari non licebat. [31] Ergo qui ferias dicunt a mendacio vindicantur patrocinio vetustatis: qui contra sentiunt aestimatu aetatis quae legem secuta est vera depromunt. [32] Harum originem quidam Romulo adsignant, quem communicato regno cum T. Tatio sacrificiis et sodalitatibus institutis nundinas quoque adiecisse commemorant, sicut Tuditanus adfirmat. [33] Sed Cassius Servium Tullium fecisse nundinas dicit, ut in urbem ex agris convenirent urbanas rusticasque res ordinaturi. Geminus ait diem nundinarum exactis iam regibus coepisse celebrari, quia plerique de plebe repetita Servii Tullii memoria parentarent ei nundinis: cui rei etiam Varro consentit. [34] Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas, ut octo quidem diebus in agris rustici opus facerent, nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent, et ut scita atque consulta frequentiore populo referrentur, quae trinundino die proposita a singulis atque universis facile noscebantur. Unde etiam mos tractus ut leges trinundino die promulgarentur. [35] Ea re etiam candidatis usus fuit in comitium nundinis venire et in colle consistere unde coram possent ab universis videri: sed haec omnia neglegentius haberi coepta et post abolita, postquam internundino etiam ob multitudinem plebis frequentes adesse coeperunt. [36] Est etiam Nundina Romanorum dea a nono die nascentium nuncupata, qui lustricus dicitur. Est autem dies lustricus quo infantes lustrantur et nomen accipiunt: sed is maribus nonus, octavus est feminis.
Presso i Romani era detto nundinae il giorno nel quale si teneva il mercato. Sembra che la parola derivasse etimologicamente da novem dies, poiché il mercato si teneva ogni otto giorni. Questo periodo di tempo, lo stesso in uso presso gli Etruschi, era detto nundinum. Dopo sette giorni di lavoro nei campi, l’ottavo era dedicato agli affari: dalle campagne affluivano nell’Urbe contadini e allevatori per vendere i propri prodotti e per trattare le compravendite di merci.
Per antica tradizione di quella società di origine rurale, si approfittava dell’occasione e della partecipazione di tanto popolo, che avrebbe dovuto essere comunque convocato di tanto in tanto, per svolgere attività di comunicazione amministrativa e politica: diffondere notizie e proposte di legge, comunicare decisioni e decreti di plebe e senato. Anzi, secondo Rutilio in Macrobio già nei tempi più antichi era invalso l’uso di interporre un periodo minimo di tre nundine o trinundinum tra la proposta di una legge e la sua promulgazione (cfr. tra gli altri esempi Dionigi di Alicarnasso Antiquitates Romanae 7,58,3 e 10,35,4). Data l’abitudine del conteggio inclusivo degli estremi, non è chiaro se il trinundinum si riferisse a una durata di due periodi nundinali (16 giorni dopo la proposta) o di tre periodi (24 giorni).
Le nundinae erano di certo antichissime, anche se gli autori, secondo Macrobio, erano discordi riguardo chi le avesse istituite: Romolo, come affermava Sempronio Tuditano (ed è osservazione di valore incerto ma suggestiva che i 304 = 38 * 8 giorni del calendario detto di Romolo contengano un numero intero di nundine); o Servio Tullio, come diceva Lucio Cassio Emina; oppure che, come riteneva Gemino con il quale concordava pure Varrone, fossero nate dopo la cacciata dei re per onorare la memoria di Servio Tullio.
La Lex Hortensia
Il senso religioso dei Romani scindeva rigidamente il tempo dedicato agli dèi dal tempo dedicato alle attività umane. Conseguentemente essi avevano costruito un calendario nel quale ogni giorno aveva una propria caratterizzazione: se un giorno era, in tutto o in parte, dedicato agli dèi, in quel giorno, o nella parte consacrata, illecita era la conduzione di qualsiasi attività privata o pubblica, e segnatamente di quelle considerate più alte: la politica, l’amministrazione della giustizia.
Poiché le nundinae seguivano un ciclo incommensurabile con quello del calendario, esse potevano cadere in qualsiasi giorno dell’anno, che fosse festivo (perché vi si svolgevano riti sacri) o feriale, che fosse fasto (perché vi era permessa l’amministrazione della giustizia) o comiziale (perché vi era permessa l’attività politica) oppure nefasto (perché nessuna attività era lecita). Sembra che le nundine stesse fossero considerate feriae publicae, cioè giorni festivi. Le festività pubbliche erano ordinariamente giorni nefasti, ma le nundine, che potevano incidere in giorni fasti o comiziali per il calendario, avevano un trattamento particolare che prevaleva sulle prescrizioni del calendario: esse erano dies fasti, se il giorno di calendario non era nefasto, mentre non vi potevano mai essere convocati i comizi, neppure se il giorno di calendario fosse comiziale.
In questo senso si esprime Macrobio nel V secolo, riportando e componendo le notizie, in apparenza contrastanti, di vari autori più antichi. Da un lato infatti Tito non comprendeva le nundine tra le ferie, ma le diceva soltanto giorni solenni; secondo Giulio Modesto i pontefici, richiesti di un parere da Messala l’augure, avevano risposto che le nundinae non erano da considerarsi ferie; e Gaio Trebazio Testa affermava che nelle nundinae era possibile al magistrato compiere atti di amministrazione della giustizia come affrancare gli schiavi ed emettere sentenze. Dall’altro, Giulio Cesare nel libro intitolato Auspicia affermava che nei giorni di mercato non era possibile convocare le assemblee del popolo e quindi tenere i comitia, come era proprio dei giorni festivi; e Cornelio Labeone si pronunziava esplicitamente per la natura feriale delle nundinae.
Macrobio trova la soluzione in Granio Liciniano secondo il quale una lex Hortensia (del 287 o 286 a.C.) avrebbe reso fastae le nundinae, che pure lo stesso autore diceva ferie sacre a Giove al quale si immolava un ariete nella Regia, e questo perché i cittadini dalla campagna non fossero costretti a venire appositamente nell’Urbe per comporre le loro liti ma potessero farlo negli stessi giorni nei quali già venivano per il mercato.
Il fatto che le nundinae non potessero invece essere giorni comiziali (che in essi cioè, come secondo Macrobio scrisse Giulio Cesare, non si potessero tenere le pubbliche assemblee nelle quali si svolgeva l’attività politica di natura elettiva e deliberativa) è confermato anche da Plinio il Vecchio (Naturalis historia 18,13: nundinis urbem revisitabant [sc. rusticae tribus] et ideo comitia nundinis habere non licebat, ne plebes rustica avocaretur) e da Festo (De verborum significatu, sub voce Nundinas: nundinas feriarum diem esse voluerunt antiqui, ut rustici convenirent mercandi vendendique causa, eumque nefastum, ne si liceret cum populo agi interpellarentur nundinatores). Esso rifletteva evidentemente l’esigenza di evitare che la conduzione dei propri affari e la partecipazione alle assemblee si trovassero reciprocamente in conflitto, richiedendo entrambe le attività tutto il proprio tempo e la propria attenzione; nonchè forse l’opportunità di impedire che la confusione del mercato si trasferisse alla vita dello stato, forse perché gli animi già scaldati dalla trattazione degli affari avrebbero rischiato di incendiarsi se contestualmente esposti al calore della passione politica.
Tuttavia, almeno nella tarda repubblica dovette essere permesso parlare al popolo, tenendo pubblici discorsi o contiones, in giorno di mercato, per svolgere attività politica in chiave elettorale e per diffondere idee e notizie. Anzi, i candidati alle magistrature presero l’abitudine di presentarsi agli elettori proprio nei giorni di mercato, adatti alla massima pubblicità per la loro frequentazione di popolo (e quando tale frequentazione si estese anche agli altri giorni, i candidati non fecero più distinzione tra nundinae e internundinae). Un esempio letterario di questa pratica si ritrova con ogni probabilità nella contio tenuta da Pompeo in un giorno di mercato del 693 a.U.c. = 61 a.C. di cui parla Cicerone ad Atticum 1,14 (Prima contio Pompei qualis fuisset scripsi ad te antea, non iucunda miseris, inanis improbis, beatis non grata, bonis non gravis; itaque frigebat. Tum Pisonis consulis impulsu levissimus tribunus pl. Fufius in contionem producit Pompeium. Res agebatur in circo Flaminio et erat in eo ipso loco illo die nundinarum πανήγυρις.).
La littera nundinalis
Le testimonianze epigrafiche del calendario romano di cui disponiamo, tra le quali per il periodo pregiuliano sono innanzi tutto i Fasti Antiates Maiores, caratterizzano l’anno in rapporto al ciclo nundinale con un semplice espediente. Ad ogni giorno dell’anno è associata ciclicamente una delle prime 8 lettere dell’alfabeto (A, B, C, D, E, F, G, H): la A al 1 gennaio, la B al 2, la C al 3, fino alla H all’8 gennaio, per poi ricominciare con la A al 9 gennaio, la B al 10, e così via fino all’ultimo giorno dell’anno. In un dato anno le nundine cadevano nei giorni associati alla medesima lettera, che prendeva il nome di littera nundinalis.
La littera nundinalis ha una discendente illustre nella lettera domenicale del calendario ecclesiastico, usata ancora oggi con finalità tutto sommato analoghe. L’analogia si può estendere in particolare al comportamento in caso di intercalazione. Come l’anno bisestile ha una doppia lettera domenicale, così doveva accadere per l’anno romano intercalare. Nel caso del calendario pregiuliano, infatti, i Fasti Antiates Maiores evidenziano che le lettere associate ai giorni del mese intercalare erano messe in continuità con quelle di marzo: in tal modo alla lettera nundinale valevole per gennaio e la prima parte di febbraio si accompagnava un’altra lettera valida dal mese intercalare in poi; la discontinuità si riscontrava solo al salto tra febbraio e mese intercalare. Se ad esempio si aveva un anno C, la cui ultima occorrenza prima dei Terminalia era il 22 febbraio, in presenza di intercalazione la lettera nundinale diventava E per i mesi seguenti, essendo la prima occorrenza delle nundine il 7 intercalare.
Sembra naturale che lo stesso comportamento debba estendersi anche al caso del calendario giuliano. A conferma di ciò, Dione Cassio Historia Romana 48,33,4 (cfr. infra) implica che nel 41 a.C. il giorno bisestile, inserendosi nel ciclo, provocò lo spostamento della lettera nundinale. Tuttavia, il fatto non è citato né nelle fonti letterarie – peraltro in altro contesto Celso (Digesta Iustianiani 50,16,98: Cum bisextum kalendis est, nihil refert, utrum priore an posteriore die quis natus sit, et deinceps sextum kalendas eius natalis dies est: nam id biduum pro uno die habetur. Sed posterior dies intercalatur, non prior: ideo quo anno intercalatum non est sexto kalendas natus, cum bisextum kalendis est, priorem diem natalem habet.) dice che per stabilire la data di nascita si era affermato il principio per il quale il dies sextum e il bisesxtum erano considerati un biduum – né nelle fonti epigrafiche (ad esempio nei Fasti Caeretani sopravvive l’ultima parte di febbraio, mese che è addirittura integro nei Fasti Verulani, ma in entrambi il giorno bisestile non è inserito).
Le nundinae e l’intercalazione
Dione Cassio Historia Romana 40,47,1-2:
Κἀκ τούτου οὔτε τι ἄλλο χρηστὸν συνέζη, καὶ ἡ ἀγορὰ ἡ διὰ τῶν ἐννέα ἀεὶ ἡμερῶν ἀγομένη, αὐτῇ τῇ τοῦ Ἰανουαρίου νουμηνίᾳ [sc. anno 702 a.U.c. = 52 a.C.] ἤχθη. καὶ τοῦτό τε αὐτούς, ὡς οὐκ ἀπὸ ταὐτομάτου συμβὰν ἀλλ᾽ ἐν τέρατος λόγῳ γενόμενον, ἐθορύβει, καὶ ὅτι βύας ἐν τῇ πόλει καὶ ὤφθη καὶ συνελήφθη, ἄγαλμά τέ τι ἐπὶ τρεῖς ἡμέρας ἵδρωσε, καὶ λαμπὰς ἐκ τῶν νοτίων πρὸς ἀνατολὰς διέδραμε, καὶ πολλοὶ μὲν κεραυνοὶ πολλοὶ δὲ καὶ βῶλοι λίθοι τε καὶ ὄστρακα καὶ αἷμα διὰ τοῦ ἀέρος ἠνέχθη.
Macrobio op.cit. 1,13,16-19:
[1,13,16] Sed cum saepe eveniret ut nundinae modo in anni principem diem modo in Nonas caderent (utrumque autem perniciosum rei publicae putabatur), remedium quo hoc averteretur excogitatum est: quod aperiemus, si prius ostenderimus cur nundinae vel primis Kalendis vel Nonis omnibus cavebantur. [1,13,17] Nam quotiens incipiente anno dies coepit qui addictus est nundinis, omnis ille annus infaustus casibus luctuosus fuit: maximeque Lepidiano tumultu opinio ista firmata est. [1,13,18] Nonis autem conventus universae multitudinis vitandus existimabatur, quoniam populus Romanus exactis etiam regibus diem hunc Nonarum maxime celebrabat, quem natalem Servii Tullii existimabat: quia, cum incertum esset quo mense Servius Tullius natus fuisset, Nonis tamen natum esse constaret, omnes Nonas celebri notitia frequentabant: veritos . . . qui diebus praeerant, ne quid nundinis collecta universitas ob desiderium regis novaret, cavisse ut Nonae a nundinis segregarentur. [1,13,19] Unde dies ille, quo abundare annum diximus, eorum est permissus arbitrio qui fastis praeerant, uti, cum vellent, intercalaretur, dummodo eum in medio Terminaliorum vel mensis intercalaris ita locarent, ut a suspecto die celebritatem averteret nundinarum. Atque hoc est quod quidam veterum retulerunt, non solum mensem apud Romanos verum etiam diem intercalarem fuisse.
Secondo Dione Cassio e Macrobio, si riteneva opportuno evitare che le nundine cadessero nelle Nonae, poiché si temeva che il concorso di popolo che costantemente celebrava l’anniversario della nascita di Servio Tullio (si sapeva che era nato nelle none, ma non di quale mese, perciò lo si ricordava nelle none di ogni mese) potesse facilitare tumulti tesi a riportare un re sul trono. Analogamente, si cercava di impedire che le nundine cadessero nel primo giorno dell’anno (primae Kalendae) poiché era convinzione diffusa, invalsa o almeno rafforzatasi nel tardo periodo repubblicano, che ogni volta che questo era accaduto l’anno si era rivelato infausto e pieno di casi luttuosi per lo stato.
Per evitare la coincidenza tra le nundine e il primo giorno dell’anno (che almeno dalla metà del II secolo fu il primo gennaio) o le none, il rimedio escogitato fu di permettere al collegio pontificale, che regolava il calendario, di inserire a proprio giudizio una speciale intercalazione, consistente in un solo dies intercalaris, da porsi tra Terminalia e mese intercalare. Questo giorno intercalare, secondo Macrobio, sarebbe stato proprio il giorno in più che sovrabbondava rispetto alla durata dell’anno lunare di 354 giorni.
La corretta interpretazione di questa notizia non è purtroppo evidente. Sembra probabile che il giorno aggiuntivo, dovendo essere inserito prima del mese intercalare, sia da identificarsi semplicemente con il giorno di differenza tra gli intercalari di 22 e di 23 giorni. In questo senso giungono a supporto i Fasti Antiates Maiores, che rappresentano un mese intercalare costante di 22 giorni, e due passi di Livio: il primo (Ab Urbe condita libri 43,11,13: Hoc anno [sc. 170 a.C.] intercalatum est: tertio die post Terminalia kalendae intercalariae fuere) pone le calende dell’intercalare del 170 a.C. il secondo giorno dopo i Terminalia (cioè, nella nostra interpretazione, un intercalare di 23 giorni); il secondo (Ab Urbe condita libri 45,44,3: Intercalatum eo anno [sc. 167 a.C.]; postridie Terminalia intercalariae fuerunt) per l’anno 167 a.C. le pone subito dopo i Terminalia (cioè, con un intercalare di 22 giorni). Però né Censorino né gli altri autori né lo stesso Macrobio, quando, poco prima del passo citato, riferisce della pratica dell’intercalazione nel calendario pregiuliano, fanno cenno a questa motivazione per spiegare l’alternanza di mesi intercalari di 22 e 23 giorni. Macrobio, anzi, è più preciso degli altri nell’esporre come unica ragione la necessità di approssimare la durata dell’anno solare. Rimane poi del tutto oscura l’identificazione del dies intercalaris con il giorno sovrabbondante tra l’anno ordinario di Numa di 355 giorni e l’anno lunare di 354 giorni: essendo incontestabilmente fissata la durata dei mesi dell’anno numano, si tratta probabilmente di un errore o di involontaria confusione di Macrobio.
In questa interpretazione, per il caso del primo dell’anno il collegio pontificale non avrebbe dovuto eseguire un calcolo particolarmente complesso, poiché basta osservare che un anno A segue sempre a un anno ordinario (di 355 giorni) con lettera nundinale D oppure a un anno intercalare la cui seconda lettera nundinale (valida dall’intercalare in poi) sia la D. Sarebbe stato perciò sufficiente intercalare in modo da non avere un anno D o xD. Non è in generale possibile, invece, evitare la coincidenza con tutte le none. Nonostante ai pontefici fosse stata data questa facoltà, secondo Macrobio le nundine caddero il 1 gennaio nell’anno della rivolta di Lepido (77 a.C.) e secondo Dione Cassio ancora nel tumultuoso anno 52 a.C.
Per evitare coincidenze imbarazzanti per la superstizione, sarebbe ovviamente stato possibile, in linea di principio, interrompere opportunamente al bisogno il ciclo di otto giorni. Ciò sarebbe stato anche più semplice, sempre in linea di principio, che applicare le complesse regole d’intercalazione; ma avrebbe, in linea pratica, creato difficoltà enormi a quei cittadini delle campagne che probabilmente non avevano altro mezzo sicuro che il sorgere del sole per contare il tempo che passa. Il fatto che si sia costantemente preferito spostare il calendario, con opportune intercalazioni, piuttosto che spostare il giorno di mercato, alterando il ciclo di otto giorni, rende credibile l’assunzione che la regolarità del ciclo nundinale non sia mai stata interrotta per tutta l’età repubblicana.
Le nundine e la settimana
Per secoli a Roma le nundinae svolsero una funzione equivalente a quella della nostra settimana, finché non furono soppiantate proprio da essa. Sembra che la settimana fu introdotta a Roma nel corso del I secolo a.C. e probabilmente prese definitivamente il sopravvento già sul finire del I secolo d.C. anche se fu adottata ufficialmente soltanto da Costantino nel 321 d.C.
Al tempo di Costantino la settimana era ormai quella cristiana. La prima versione giunta a Roma fu invece derivata dai Caldei. Questo popolo mesopotamico celeberrimo per lo studio degli astri, il cui nome divenne quasi sinonimo di astrologia, usava un ciclo nel quale ogni giorno era intitolato a ciascuno dei sette pianeti noti (erano indicati genericamente col nome di pianeti gli astri vaganti nel cielo delle stelle fisse). In ordine di distanza decrescente dalla Terra essi erano: Saturno, Giove Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna. Ma i Caldei non si limitarono a usare questa lista: nell’astrologia caldea quei pianeti dominavano ciascuno un’ora del giorno, ciclicamente, e il pianeta dominante del giorno era quello che dominava la prima ora. Sovrapponendo il ciclo dei sette “pianeti” al ciclo delle 24 ore del giorno si ottiene la settimana caldea, i cui giorni in latino furono chiamati: dies Saturni (=sabato), dies Solis (=domenica), dies Lunae, dies Martis, dies Mercurii, dies Iovis, dies Veneris. Questo elenco è riportato ad esempio nel graffito pompeiano CIL 4.8863, quindi antecedente il 79 d.C., dove compare anche una lista di nundine delle città campane, attestando la compresenza dei due sistemi nella seconda metà del I secolo d.C.
Scorrendo la settimana caldea si riconosce facilmente l’etimologia dei nomi italiani dei giorni della settimana, a parte il sabato e la domenica, che derivarono dalla settimana cristiana. L’uso cristiano, poi ufficializzato da Costantino, sostituì infatti al dies Saturni il dies Sabbati e al dies Solis il dies Dominica, il giorno del Signore.
La continuità del ciclo nundinale
Dione Cassio Historia Romana 48,33,4:
ἔν τε τῷ πρὸ τούτου ἔτει [i.e. anno 41 a.Chr.n.] […] ἡμέρα ἐμβόλιμος παρὰ τὰ καθεστηκότα ἐνεβλήθη, ἵνα μὴ ἡ νουμηνία τοῦ ἐχομένου ἔτους τὴν ἀγορὰν τὴν διὰ τῶν ἐννέα ἡμερῶν ἀγομένην λάβῃ, ὅπερ ἀπὸ τοῦ πάνυ ἀρχαίου σφόδρα ἐφυλάσσετο: καὶ δῆλον ὅτι ἀνθυφῃρέθη αὖθις, ὅπως ὁ χρόνος κατὰ τὰ τῷ Καίσαρι τῷ προτέρῳ δόξαντα συμβῇ.
Dione Cassio Historia Romana 60,24,7:
τότε [i.e. anno 44 p.Chr.n.] μὲν δὴ ταῦτ᾽ ἐπράχθη, καὶ τὴν ἀγορὰν τὴν διὰ τῶν ἐννέα ἡμερῶν ἀγομένην ἐς ἑτέραν ἡμέραν ἱερῶν τινων ἕνεκα μετέθεσαν: καὶ τοῦτο καὶ ἄλλοτε πολλάκις ἐγένετο.
Il ciclo settimanale non è mai stato interrotto a memoria d’uomo: la continuità della settimana fu rispettata anche all’introduzione del calendario gregoriano. Parrebbe ovvio che nemmeno il ciclo nundinale debba mai essere stato interrotto, essendo anch’esso un ciclo breve rispondente a una funzione importante e diffusa in tutti gli strati della popolazione, sulla regolarità del quale pertanto si tende a fare implicito assegnamento. E abbiamo visto che questo assunto sembra più che sufficientemente confermato dalle notizie riferite all’età repubblicana.
Tuttavia nel periodo imperiale, quando le nundine avevano già perso buona parte della loro importanza nella scansione del tempo, questa ipotesi è esplicitamente contraddetta da una rapida notizia di Dione Cassio, secondo la quale il giorno di mercato fu spostato ad altro giorno per imprecisati riti religiosi nel 44 d.C. così come in molte altre occasioni. Non è chiaro, e forse non lo era nemmeno a Dione, se si tratti di uno spostamento occasionale o di una trasposizione, ovvero se in quelle occasioni non meglio specificate fu spostato un solo giorno di mercato lasciando immutata la lettera nundinale, oppure se lo spostamento del mercato significò il cambio della lettera nundinale e quindi del giorno di mercato dal quel giorno in poi.
Invece, appena ottant’anni prima, un’altra annotazione dello stesso Dione Cassio rappresenta una diversa situazione. Secondo Dione, nell’anno 41 a.C. fu inserito un giorno bisestile straordinario, in contrasto con la regola giuliana, al fine di evitare che il primo giorno dell’anno successivo coincidesse con il giorno di mercato, cosa che era evitata sin dai tempi più antichi; il giorno aggiunto sarebbe stato “evidentemente” sottratto in seguito, per riportare il calendario nei criteri stabiliti da Giulio Cesare. Questo fatto, sebbene come nel caso precedente Dione sembri non averne approfondito i contorni, però dimostra che fino ai primissimi anni successivi all’adozione del calendario giuliano per spostare il giorno di mercato si preferì usare l’intercalazione (e disattendere la regola bisestile) piuttosto che alterare il ciclo nundinale.
Come è stato discusso supra, la superstizione che riteneva sfavorevole tenere il mercato nel primo giorno dell’anno, nonché il rimedio di usare l’intercalazione per evitarlo, erano consuetudine del calendario repubblicano. Introdurre l’intercalazione per un certo anno era responsabilità e privilegio inalienabile del collegio pontificale, il quale, nonostante i tentativi di regolarne l’attività per via legislativa, esercitava questa funzione con una certa libertà. È sintomatico dell’approssimazione dei Romani per le questioni di calendario e della sfrontatezza dei pontefici (cui, cessato il mese intercalare, fu affidato l’inserimento del giorno bisestile) che fu da essi tentato con successo di usare la stessa libertà anche verso il calendario giuliano, nel quale la regola di intercalazione era fissa e non più suscettibile di arbitraria applicazione, e avrebbe dovuto ridurre l’intervento del collegio a una sanzione automaticamente dovuta.
Si ritiene in questa sede che l’uso dell’intercalazione per evitare la coincidenza delle nundine con determinati giorni dell’anno, finché durò, provi la volontà di non interrompere il ciclo nundinale e quindi ne renda molto probabile la continuità almeno per estesi intervalli di tempo in tutto il periodo repubblicano e fino al periodo giuliano erroneo. Quest’uso terminò solo quando le conseguenze della disinvolta gestione delle intercalazioni nel calendario giuliano rese necessaria la riforma di Augusto. Il ripristino della regola bisestile quadriennale comportò infatti la fine di quella consuetudine secolare e la ricerca di un altro metodo per assolverne gli scopi in un momento imprecisato attorno al principio dell’era volgare, ormai saldamente in epoca imperiale, quando peraltro le nundine stavano perdendo la loro importanza come ciclo breve per l’uso civile. Il metodo alternativo non poté essere che l’alterazione del ciclo nundinale ogni volta che si rese necessario e non si può escludere che anche la fine della regolarità delle nundine abbia contribuito alla loro decadenza a vantaggio della settimana.
Purtroppo l’unica fonte per quest’ultimo periodo è il citato passo di Dione (da incrociare peraltro con i due graffiti pompeiani CIL 4.8863 e CIL 4.4182), il quale non specifica in che modo avvenne lo spostamento del 44 d.C. e del resto la stessa vaghezza con cui si esprime suggerisce che egli potesse non saperlo. In generale tre sole appaiono le possibilità di interruzione del ciclo: 1) che fosse possibile spostare un singolo giorno di mercato “all’ultimo momento” per evitare la coincidenza con particolari festività religiose, mantenendo però fissi gli altri giorni di mercato e quindi senza cambiare la lettera nundinale dell’anno; oppure 2) che lo spostamento “all’ultimo momento” di un singolo giorno di mercato comportasse lo spostamento di tutte le nundine seguenti e quindi il cambio dal quel momento in poi della lettera nundinale; o infine 3) che la necessità di spostare un giorno di mercato, prevista prima dell’inizio dell’anno, comportasse lo spostamento anche di tutti gli altri giorni dei mercato dell’anno e quindi l’attribuzione di una lettera nundinale all’anno diversa da quella stabilita dal ciclo. La prima possibilità sembra maggiormente conforme alle esigenze di stabilità di cui si è evidenziata sopra l’importanza; ma l’ultima sembra più aderente alle parole di Dione senza sacrificare eccessivamente le medesime esigenze di stabilità nell’ambito che abbiamo descritto.
Lista delle nundinae note
Alcune nundine sono note più o meno esplicitamente dalle fonti e costituiscono un utile strumento di indagine cronologica. Le elenchiamo in ordine cronologico decrescente, intendendo nella data romana l’anno a.U.c. varroniano.
- 8 febbraio 813 = 60 d.C. (CIL IV 4182 e 8863: questo è l’unico caso noto con esplicita datazione giuliana)
- 31 dicembre 713 = 41 a.C. (Dione Cassio Historia Romana 48,33,4: ἔν τε τῷ πρὸ τούτου ἔτει […] ἡμέρα ἐμβόλιμος παρὰ τὰ καθεστηκότα ἐνεβλήθη, ἵνα μὴ ἡ νουμηνία τοῦ ἐχομένου ἔτους τὴν ἀγορὰν τὴν διὰ τῶν ἐννέα ἡμερῶν ἀγομένην λάβῃ)
- 1 gennaio 702 = 52 a.C. (Dione Cassio Historia Romana 40,47: Κἀκ τούτου οὔτε τι ἄλλο χρηστὸν συνέζη, καὶ ἡ ἀγορὰ ἡ διὰ τῶν ἐννέα ἀεὶ ἡμερῶν ἀγομένη, αὐτῇ τῇ τοῦ Ἰανουαρίου νουμηνίᾳ ἤχθη.)
- 21 novembre 697 = 57 a.C. (Cicerone ad Atticum 4,3: ante diem X Kal. [sc. Decembres] nundinae)
- 1 gennaio 677= 77 a.C. (Macrobio Saturnalia 1,13,17: Nam quotiens incipiente anno dies coepit qui addictus est nundinis, omnis ille annus infaustus casibus luctuosus fuit: maximeque Lepidiano tumultu opinio ista firmata est.)
Tutte tranne una sono collocate in un periodo relativamente breve al termine dell’età repubblicana fino ad agganciare il passaggio al calendario giuliano. L’ultima è distante circa un secolo dalla precedente, comprendendo tra l’altro tutto il periodo giuliano erroneo; essa si colloca inoltre dopo lo spostamento citato da Dione Cassio.