Lucius Livius Andronicus

Del poeta e drammaturgo il cui nome è associato all’atto di nascita della letteratura latina, Lucio Livio Andronico, abbiamo scarne notizie soprattutto da Cicerone e Tito Livio. Andronico sarebbe stato un greco-italico probabilmente originario di Taranto – l’anno di nascita è ignoto – di dove sarebbe venuto a Roma nel 272 a.C. (anno della conquista di quella città da parte dei Romani) come prigioniero e schiavo di Livio Salinatore, dal quale sarebbe poi stato incaricato dell’educazione dei figli.

Affrancato, avrebbe assunto, secondo l’uso, il nomen dal suo patrono e avrebbe fondato una scuola nella quale avrebbe insegnato lettere greche e latine. Il praenomen sarebbe Lucius, attestato in Gellio, Festo e Cassiodoro; Titus è invece presente in Nonio e san Girolamo, ma sembra meno probabile per la coincidenza con lo storico Tito Livio col quale sarebbe stato confuso.

Se la sua attività di insegnante è per noi poco più di un dato di tradizione, la sua attività di scrittore è invece certa e di grande interesse, poiché a Livio Andronico è attribuita la prima rappresentazione di una fabula, cioè di un’opera teatrale – non si sa se una tragedia o una commedia; Cassiodoro parla di due fabulae, una commedia e una tragedia – a Roma nel 240 a.C. Ecco la celebre testimonianza con la quale Cicerone riporta il fatto (Brutus 71-73):

[71] Et nescio an reliquis in rebus omnibus idem eveniat: nihil est enim simul et inventum et perfectum; nec dubitari debet quin fuerint ante Homerum poetae, quod ex eis carminibus intellegi potest, quae apud illum et in Phaeacum et in procorum epulis canuntur. Quid, nostri veteres versus ubi sunt?

quos olim Fauni vatesque canebant,
cum neque Musarum scopulos
nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc

ait ipse de se nec mentitur in gloriando: sic enim sese res habet. Nam et Odyssia Latina est sic [in] tamquam opus aliquod Daedali et Livianae fabulae non satis dignae quae iterum legantur.

[72] Atqui hic Livius [qui] primus fabulam C. Claudio Caeci filio et M. Tuditano consulibus docuit anno ipso ante quam natus est Ennius, post Romam conditam autem quarto decumo et quingentesimo, ut hic ait, quem nos sequimur. Est enim inter scriptores de numero annorum controversia. Accius autem a Q. Maxumo quintum consule captum Tarento scripsit Livium annis XXX post quam eum fabulam docuisse et Atticus scribit et nos in antiquis commentariis invenimus;

[73] docuisse autem fabulam annis post XI, C. Cornelio Q. Minucio consulibus ludis Iuventatis, quos Salinator Senensi proelio voverat. In quo tantus error Acci fuit, ut his consulibus XL annos natus Ennius fuerit: quoi aequalis fuerit Livius, minor fuit aliquanto is, qui primus fabulam dedit, quam ii, qui multas docuerant ante hos consules, et Plautus et Naevius.

Attraverso Cicerone si può notare come gli stessi Romani fossero consapevoli della particolarità ed importanza della rappresentazione di Andronico. Oggi questo evento, una delle poche notizie certe della vita di Andronico, è convenzionalmente ricordato come l’inizio della letteratura latina.

A Tito Livio (Ab Urbe condita libri XXVII, 37) dobbiamo un altro elemento relativo ad Andronico. Nel 207 a.C., quando, nel corso della seconda guerra punica, richiamatovi dal fratello Annibale, Asdrubale giunse in Italia con un esercito, Livio Andronico fu incaricato di comporre un partenio per propiziarsi la benevolenza di Giunone regina, che fu poi cantato da ventisette fanciulle in lunga veste divise in tre cori. Dopo che l’esercito di Adrubale, grazie ad una azione fulminea dei consoli, fu intercettato e distrutto al Metauro, nelle Marche, prima che potesse ricongiungersi con quello del fratello, il senato quale segno di gratitudine riconobbe il Collegium poetarum histrionumque, di cui Andronico era membro, e gli consentì libere adunanze nel tempio di Minerva sull’Aventino; inoltre, concesse forse al poeta l’altissimo onore di abitare nel tempio stesso. E anche questa è la prima notizia di un pubblico riconoscimento a Roma verso un poeta.

Sulla data del partenio, il 207 a.C. appunto, si basano le ipotesi più accreditate per stabilire, sia pure approssimativamente, il periodo in cui Andronico visse. Se infatti prestiamo fede alla notizia che lo vuole venire a Roma attorno al 270 a.C., il fatto che fosse ancora attivo alla fine del secolo farebbe credere che fosse nato non molto prima della sua venuta nell’Urbe e che sarebbe morto non molto dopo la composizione del partenio. Contro questa ipotesi sussiste la facile obiezione che, essendo egli venuto a Roma in giovane età, difficilmente sarebbe spiegabile la sua formazione culturale, che è in apparenza pienamente greca, come sarebbe confermata inoltre dalle notizie di insegnamento delle lettere greche prima in qualità di istitutore dei figli di Livio Salinatore e poi in una propria scuola.

Di tutta la produzione teatrale di Livio Andronico ci restano otto titoli di tragedie (Achilles, Aegisthus, Aiax mastigophorus, Andromeda, Danae, Equos Troianus, Hermiona, Tereus), tre di commedie (Gladiolus, Ludius o Lydius, Virgo o Vargus) e una ventina di versi in tutto; ben poco, quindi, possiamo dire del teatro di Andronico. Nonostante sembri evidente l’influsso della cultura greca di cui era imbevuto e dei grandi modelli che le appartenevano, si può ravvisare soprattutto nella scelta degli argomenti (su otto, cinque tragedie appartengono al ciclo troiano, che era sicuramente caro ai Romani) l’aspirazione a ricreare in ambiente romano con intento di autonomia ciò che era imitato dal greco. Sembra che Livio Andronico, oltre che scrittore, fosse anche attore nelle sue opere in teatro, come forse Plauto dopo di Lui. Racconta Tito Livio che Andronico, negli ultimi anni della sua vita, ormai anziano, si limitasse a gestire sulla scena, mentre la sua parte sarebbe stata recitata da una voce fuori scena.

Se nulla possiamo dire del partenio propiziatorio, di cui non possediamo nulla oltre la notizia, qualcosa di più si può presumere per quella che è ritenuta la maggiore opera di Livio Andronico, l’Odusia, una libera traduzione dell’Odissea di cui ci restano una quarantina di frammenti. Con le scelte del testo, l’Odissea poema della pazienza invece dell’Iliade poema dell’azione, e del metro, il vecchio saturnio caro alla poesia latina delle origini (Ennio, come si è visto, lo disse il verso che olim Faunei vatesque canebant), Andronico intendeva forse portare i suoi ascoltatori a contatto con la grandezza della poesia greca, allo stesso tempo ricollegandosi alle origini del popolo romano, argomento che riteneva, come abbiamo notato, e probabilmente non a torto, di particolare interesse per il pubblico.

I pochi versi residui dell’Odusia, infatti, nonostante siano in massima parte frutto di una scelta peculiare, poiché tramandatici soprattutto da grammatici per le loro singolarità lessicali, se non permettono di conoscere e nemmeno di farsi un’idea dell’arte e dello stile di Andronico, mostrano però con evidenza come egli intese il proprio rapporto con il grande modello prescelto. Quella di Andronico, infatti, non appare mai una traduzione passiva e priva di ricercatezza, perché anzi egli mira sempre a ricreare, se possibile, un effetto artistico all’altezza dell’originale mediante l’uso di caratteri stilistici ed espressivi di gusto romano. Certamente Andronico, che ha quale materia di poesia una lingua di pastori e soldati, ancora mai toccata dall’esperienza poetica, si scontra con le carenze espressive del latino; ma questo non lo scoraggia, e anzi egli viene spavaldamente incontro alle proprie necessità con l’introdurre di termini nuovi, figli peraltro di una sensibilità artistica e lessicale che saremmo tentati di non riconoscere a un precursore e che pertanto sorprende ancor più. Ciò di cui Andronico è l’iniziatore, seguito da Nevio ed Ennio, è un nuovo patrimonio espressivo in lingua latina, per il quale egli non solo foggia neologismi su traduzione dal greco, preferiti ai calchi pedissequi, ed equivalenti romani di nomi greci – la Moùsa ad esempio diventa Camena, la Moìra Morta – ma anche recupera termini latini ricercati, non di rado arcaici; un patrimonio espressivo che ha lo stesso sapore, talvolta persino etimologico, dell’originale greco.

Non è improprio, tale è la forza artistica della traduzione, cercare una prova di quanto si è affermato nel raffronto tra il solo celebre primo verso dell’Odusia (virum mihi Camena insece versutum) e il corrispondente celeberrimo verso omerico (àndra moi ènnepe Moùsa polùtropon): nel testo latino, che conserva quasi fin nell’ordine delle parole la corripondenza con l’originale, si osserva un esempio di esatta, cercata equivalenza di significato, tra versutum e polùtropon, e addirittura una esatta equivalenza insieme semantica ed etimologica, poiché insece ha la stessa radice di ènnepe; e il fatto che Andronico non potesse conoscere la parentela che lega l’etimologia greca con quella latina, seppur certo, si scuote nel riconoscere almeno un altro caso di esatta corrispondenza, quando Mnemosùne diventa Moneta. Il tutto corroborato dagli effetti espressivi, di gusto tipicamente romano, di allitterazione, tra insece e versutum, e l’omoteleuto, tra virum e versutum.

D’altronde Andronico è un grammatico, benché una simile attenzione ai fenomeni linguistici non possa apparire che guidata da felice intuito. Peraltro appare inserirsi nello stesso solco l’uso di termini che erano arcaici già alla sua epoca; uso che si spiega inoltre con l’intento di aggiungere solennità al verso. Il medesimo intento di solennità e sacralità si può riconoscere nella scelta del saturnio, verso che aveva insieme il gusto antico dell’epica e il sapore italico e romano che già abbiamo osservato. Non a caso tale sarà in seguito la scelta di metro da parte di Nevio per il suo Bellum Poenicum e tale la sua predilezione per gli arcaismi.

La scarsità dei resti non consente un giudizio moderno sulle capacità o anche solo sulla personalità poetica di Livio Andronico; restano peraltro i giudizi degli antichi. E se Cicerone giudica le sue tragedie degne al più di una lettura, e non da meno è Tito Livio nel ricordare il partenio propiziatorio, la fortuna dei testi di Andronico, e segnatamente dell’Odusia, dovette perdurare a lungo almeno in ambito scolastico, se Orazio ricorda di aver appreso i versi di Andronico dal suo maestro, il plagosus Orbilius, a suon di bacchettate.