Profilo storico di Gesù detto il Cristo

Prescidendo dai Vangeli e dagli scrittori cristiani, scarni sono i cenni che le opere dell’antichità giunte fino a noi rivolgono alla vita e all’opera di Gesù Cristo; tuttavia significativi ai fini della dimostrazione dell’esistenza storica di colui che si proclamò Figlio di Dio. Tre importanti accenni a Gesù e alla sua vicenda sono presenti nelle Antiquitates Iudaicae, scritte poco prima della fine del I secolo dallo storico e uomo politico ebreo romanizzato Flavio Giuseppe. Si tratta del celebre Testimonium Flavianum, (Antiquitates 18,63-64), di un commento sulla figura di Giovanni il Battista (18,116-119), nel quale peraltro il nome di Gesù non compare, e della notizia dell’ingiusta condanna di Giacomo il Minore, nel quale Gesù è appena nominato.

Alcune altre citazioni si reperiscono presso gli scrittori latini. Un celebre commento a margine della vicenda dell’incendio neroniano a Roma è negli Annales dello storico romano Tacito e risale al principio del II secolo. Di qualche anno posteriore è la missiva inviata da Plinio il Giovane, in qualità di procuratore della Bitinia, all’imperatore Traiano, del quale l’epistolario pliniano conserva anche la risposta.

Il Testimonium Flavianum (Antiquitates Iudaicae 18,63-64)

Flavio Giuseppe, nobile ebreo membro del Sinedrio di Gerusalemme, che fu a capo dell’esercito che combatté contro i Romani durante la guerra giudaica (anni 63-74 dell’Era Volgare) per poi divenire collaboratore dei Romani dopo la sua cattura, nella sua opera sulla storia dei Giudei, la Ἰουδαϊκὴ ἀρχαιολογία – risalente al 93-94 e citata nel seguito, secondo l’uso, come Antiquitates Iudaicae – in 18,63-64 scrive:

63 Γίνεται δὲ κατὰ τοῦτον τὸν χρόνον Ιήσους, σοφὸς ἀνήρ, εἴγε ἄνδρα αὐτὸν λέγειν χρή· ἦν γὰρ παραδόξον ἕργων ποιητὴς, διδάσκαλος ἀνθρώπων τῶν ἠδονὴ τἀληθὴ δεχομένων, καὶ πολλοὺς μὲν Ἰουδαίους, πολλοὺς δὲ καὶ τοῦ Ἑλληνικοῦ ἐπηγάγετο· ὁ Χριστς οὗτος ἦν. 64 Καὶ αὐτὸν ἐνδείξει τῶν πρώτων ἀνδρῶν παρ̉ ἡμῖν σταυρῷ ἐπιτετιμηκότος Πιλάτου οὐκ ἐπαύσαντο οἱ τὸ πρῶτον ἀγαπήσαντες· ἐφάνη γὰρ αὐτοῖς τρίτην ἔχων ἡμέραν πάλιν ζῶν τῶν θείων προφήτων ταῦτα τε καὶ ἄλλα μύρια περὶ αὐτοῦ θαυμάσια εἰρηκότων. Εἰς ἔτι τε νῦν τῶν Χριστιανῶν ἀπὸ τοῦδε ὠνομασμένον οὐκ ἐπέλιπε τὸ φῦλον.

È questo il cosiddetto Testimonium Flavianum, celebre riferimento diretto all’esistenza di Gesù Cristo, alla sua opera e alla sua morte. L’appariscente professione di fede cristiana del testo, che culmina nella recisa affermazione ὁ Χριστς οὗτος ἦν, tanto più inattesa in uno scrittore giudeo nazionalista, ha fatto sorgere una disputa sulla autenticità del passo che non è forse possibile concludere definitivamente: oltre le oggettive difficoltà di ordine scientifico, è comprensibile che sul terreno offerto da una evidenza così importante si siano troppo spesso scontrati con gli esperti, a discapito e discredito dell’indagine scientifica, il malinteso zelo cristiano e il radicato pregiudizio anticristiano.

L’analisi stilistica del testo non evidenzia, per la verità, punti deboli, tanto che è opinione diffusa che il passo sia stato scritto nella sua sostanza storica dallo stesso Flavio Giuseppe, sebbene la maggioranza dei sostenitori della genuinità ritengano necessario purgare il testo delle frasi giudicate più imbarazzanti (quasi unanimemente identificate nella terna: εἴγε ἄνδρα αὐτὸν λέγειν χρή, ὁ Χριστς οὗτος ἦν e ἐφάνη γὰρ αὐτοῖς τρίτην ἔχων ἡμέραν). Né può essere dimenticato che una versione del Testimonium si ritrova, priva delle tre frasi citate, in una compilazione in arabo del X secolo, la ‘Storia universale’ di Agapio vescovo di Hierapolis in Frigia (morto nel 941).

Non mancano tuttavia argomenti in sfavore dell’autenticità dell’intero passo, sostenuti da autorevoli rappresentanti. Se è un fatto che le opere di Flavio Giuseppe, dopo il fugace periodo di successo conosciuto sotto la dinastia flavia, che esse celebravano, e dopo essere cadute nel generale disinteresse se non l’antipatia che la cultura pagana poteva riservare a uno scrittore giudeo, trovarono il loro maggior fulgore presso gli scrittori cristiani, i quali vi riconobbero il racconto del periodo fondamentale della storia del popolo d’Israele e dell’intera umanità, è un fatto ad esso conseguente che l’interesse degli autori cristiani poteva apportare – e apportò in casi documentati – indebite adulterazioni ai testi originali, dando luogo alla circolazione di versioni non ufficiali di opere di ogni genere; tali modifiche erano ancora più facili nelle traduzioni, non solo in latino, per chi non comprendeva il greco. In particolare, è stato osservato che i più antichi manoscritti di Flavio Giuseppe risalgono all’XI secolo, mentre fino a tutto il III secolo gli apologisti cristiani non citano mai il passo, nonostante la sua indubbia utilità, e che Origene (metà del III secolo), in ciò che di lui ci rimane, afferma per due volte che Flavio Giuseppe non credeva che Gesù fosse il Cristo.

Non si può comunque ignorare che la più antica citazione del Testimonium, in due luoghi di Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica 1,11; Demonstratio evangelica 3,5,105-106) risalenti al 323, mostra già esattamente la formulazione a noi nota, perciò l’interpolazione avrebbe dovuto avere luogo e si sarebbe diffusa in pochissimi anni attorno alla fine del III secolo. D’altronde, per molti secoli nessuno dubitò a nessun titolo dell’esistenza storica di Gesù, perciò l’utilità propagandistica del Testimonium risiedeva nelle aggiunte, non nell’esistenza del passo. Infine, Giuseppe cita Gesù come il Cristo anche in altro luogo delle Antiquitates (vedi infra).

La sintesi di tutte queste cosiderazioni porta a ritenere probabile che l’interpolatore cristiano abbia limitato la sua opera all’aggiunta o alla modifica delle tre frasi incriminate e che il passo purgato sia stato scritto da Flavio Giuseppe.

La testimonianza di Giuseppe Flavio su Giovanni il Battista

Non solleva obiezioni di autenticità il passo (Antiquitates 18,116-119) nel quale Giuseppe presenta encomiasticamente la figura di Giovanni il Battista:

116 Τισὶ δὲ τῶν Ἰουδαίων ἐδόκει ὀλωλέναι τὸν Ἡρώδου στρατὸν ὑπὸ τοῦ θεοῦ καὶ μάλα δικαίως τινυμένου κατὰ ποινὴν Ἰωάννου τοῦ ἐπικαλουμένου βαπτιστοῦ. 117 κτείνει γὰρ δὴ τοῦ τον Ἡρώδης ἀγαθὸν ἄνδρα καὶ τοῖς Ἰουδαίοις κελεύοντα ἀρετὴν ἐπασκοῦσιν καὶ τὰ πρὸς ἀλλήλους δικαιοσύνῃ καὶ πρὸς τὸν θεὸν εὐσεβείᾳ χρωμένοις βαπτισμῷ συνιέναι: οὕτω γὰρ δὴ καὶτ ὴν βάπτισιν ἀποδεκτὴν αὐτῷ φανεῖσθαι μὴ ἐπί τινων ἁμαρτάδων παραιτήσει χρωμένων, ἀλλ᾽ἐφ᾽ἁγνείᾳ τοῦ σώματος, ἅτε δὴ καὶ τῆς ψυχῆς δικαιοσύνῃ προεκκεκαθαρμένης. 118 καὶ τῶν ἄλλων συστρεφομένων, καὶ γὰρ ἥσθησαν ἐπὶ πλεῖστον τῇ ἀκροάσει τῶν λόγων, δείσας Ἡρώδης τὸ ἐπὶ τοσόν δεπιθανὸν αὐτοῦ τοῖς ἀνθρώποις μὴ ἐπὶ ἀποστάσει τινὶ φέροι, πάντα γὰρ ἐῴκεσαν συμβουλῇ τῇ ἐκείνου πράξοντες, πολὺ κρεῖττον ἡγεῖται πρίν τινεώτερον ἐξ αὐτοῦ γενέσθαι προλαβὼν ἀνελεῖν τοῦ μεταβολῆς γενομένης μὴ εἰς πράγματα ἐμπεσὼν μετανοεῖν. 119 καὶ ὁ μὲν ὑποψίᾳτῇ Ἡρώδου δέσμιος εἰς τὸν Μαχαιροῦντα πεμφθεὶς τὸ προειρημένον φρούριον ταύτῃ κτίννυται. τοῖς δὲ Ἰουδαίοις δόξαν ἐπὶ τιμωρίᾳ τῇ ἐκείνου τὸν ὄλεθρον ἐπὶ τῷ στρατεύματι γενέσθαι τοῦ θεοῦ κακῶσαι Ἡρώδην θέλοντος.

Benché il testo non citi il nome di Gesù, la conferma storica della figura del precursore di Gesù costituisce un sostegno della vicenda evangelica nel suo complesso e indirettamente anche della storicità di Gesù stesso. Interessante anche la motivazione addotta da Giuseppe per la condanna di Giovanni da parte di Erode, diversa ma non incompatibile con quella dei Vangeli.

La testimonianza di Giuseppe Flavio su Giacomo il Minore

Parimenti nessuno dubita del passo (Antiquitates 20,200) nel quale si racconta della condanna a morte di Giacomo τὸν ἀδελφὸν Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ:

200 ἅτε δὴ οὖν τοιοῦτος ὢν ὁ Ἄνανος, νομίσας ἔχειν καιρὸν ἐπιτήδειον διὰ τὸ τεθνάναι μὲν Φῆστον, Ἀλβῖνον δ᾽ ἔτι κατὰ τὴν ὁδὸν ὑπάρχειν, καθίζει συνέδριον κριτῶν καὶ παραγαγὼν εἰς αὐτὸ τὸν ἀδελφὸν Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ, Ἰάκωβος ὄνομα αὐτῷ, καί τινας ἑτέρους ὡς παρανομησάντων κατηγορίαν ποιησάμενος παρέδωκε λευσθησομένους.

Il passo, privo di asperità riguardanti la natura divina di Gesù e della sua opera, è unanimemente accettato nella sua semplicità e riferito a Gesù di Nazaret.

La testimonianza di Suetonio

Suetonio (Claudius 25), in un elenco di vari ed eterogenei provvedimenti assunti dall’imperatore Claudio, cita l’espulsione degli Ebrei da Roma a causa dei ripetuti tumulti da essi provocati per colpa di un certo Chrestus.

25 […] Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantis Roma expulit.

Sembra assai probabile che si possa identificare con Gesù il Chrestus indicato dagli atti imperiali ufficiali consultati da Suetonio, nei quali si doveva fare riferimento ad episodi di conflittualità nei rapporti tra cristiani, tra i quali molti erano di stirpe giudea, ed Ebrei osservanti. Non è chiaro se la confusione di cause e responsabilità nell’origine dei tumulti, come traspare nelle poche parole del passo, sia da attribuirsi agli atti ufficiali o a Suetonio che li legge settant’anni dopo. Nello stesso primo quarto del primo secolo anche Plinio Minore e Tacito non avevano maggiore conoscenza di quella lontana superstizione straniera e tanto meno della incomprensibile bega religiosa che aveva spaccato e reso litigiosi gli Ebrei, i quali peraltro erano già oggetto di pregiudizio per la loro incomprensibile ostinazione.

Questa brevissima menzione ha un parallelo nella notizia di Actus Apostolorum 18,2, dove si dice che San Paolo conobbe a Corinto una coppia di Giudei, Aquila e Priscilla, arrivati poco prima dall’Italia in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Probabilmente i Giudei, cristiani e non, tornarono dopo la morte di Claudio (54 d.C.). Infatti, secondo la Epistula ad Romanos 16,3, che si fa quasi unanimemente risalire al 55-58 d.C., Aquila e Priscilla (Prisca) erano allora di nuovo a Roma.

La testimonianza di Tacito

Attorno al 115 Cornelio Tacito, da molti ritenuto il più attendibile tra gli storici romani, trattando delle conseguenze dell’incendio di Roma nel principato di Nerone, scrisse dei cristiani (Annales 15,44).

44 Et haec quidem humanis consiliis providebantur. Mox petita a dis piacula aditique Sibyllae libri, ex quibus supplicatum Volcano et Cereri Proserpinaeque, ac propitiata Iuno per matronas, primum in Capitolio, deinde apud proximum mare, unde hausta aqua templum et simulacrum deae perspersum est; et sellisternia ac pervigilia celebravere feminae, quibus mariti erant. Sed non ope humana, non largitionibus principis aut deum placamentis decedebat infamia, quin iussum incendium crederetur. Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis adfecit, quos per flagitia invisos vulgus Chrestianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam, quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent aut crucibus adfixi [aut flammandi atque], ubi defecisset dies, in usum nocturni luminis urerentur. Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat, et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. unde quamquam adversus sontes et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate publica, sed in saevitiam unius absumerentur.

Il passo mette in luce pregi e limiti dell’indagine storica tacitiana, seria e profonda ma soprattutto, come in tutta la storiografia latina, tesa a sintetizzare il giudizio morale. L’incidentalità della citazione di Gesù Cristo nulla toglie alla sua completezza: la brevità di Tacito si sposa con l’orrore per la setta cristiana, capace di ogni empietà e dunque non meritevole di particolare attenzione né di passare alla storia se non in una fugace apparizione che ne mettesse in luce l’abominio. La serietà dello storico Tacito imponeva che si desse qualche particolare per illustrare in generale di chi si parlava, e Tacito si limita all’essenziale dicendo però tutto quanto rientrava nell’economia della narrazione. I Cristiani (chiamati ancora Chrestiani) ebbero il loro momento di gloria arrossando di sangue la sabbia del Colosseo e illuminando i giardini di Nerone quali torce umane, ma lo meritavano, e se indussero alla compassione fu perché furono scelti a copertura di un delitto che non avevano commesso, ma che peraltro avrebbero benissimo potuto commettere. Nel complesso, la loro rilevanza nella storia di Roma era tale da non meritare una descrizione più accurata del fondatore della setta né dei loro supplizi. La nuda semplicità del passo tacitiano è garanzia della sua stessa autenticità, che non è mai stata messa in discussione. Esso conferma non solo l’esistenza delle figura di Gesù, ma anche la realtà del suo supplizio e il coinvolgimento di Ponzio Pilato quale procurator dell’imperatore Tiberio.

La testimonianza di Plinio il Giovane

Nel X libro dell’epistolario di Plinio il Govane, dedicato alla sua attività quale legato imperiale in Bitinia e Ponto nel 111 e nel 112 d.C. e nel quale è riunita la corrispondenza ufficiale con l’imperatore Traiano, è presente tra l’altro una richiesta di istruzioni su come comportarsi con il dilagante fenomeno dell’espansione del Cristianesimo (Epistulae 10,96).

C. PLINIVS TRAIANO IMPERATORI

1 Sollemne est mihi, domine, omnia de quibus dubito ad te referre. Quis enim potest melius vel cunctationem meam regere vel ignorantiam instruere? Cognitionibus de Christianis interfui numquam: ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. 2 Nec mediocriter haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant; detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino Christianus fuit, desisse non prosit; nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, iis qui ad me tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. 3 Interrogavi ipsos an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium minatus; perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. 4 Fuerunt alii similis amentiae, quos, quia cives Romani erant, adnotavi in urbem remittendos. Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine plures species inciderunt. 5 Propositus est libellus sine auctore multorum nomina continens. Qui negabant esse se Christianos aut fuisse, cum praeeunte me deos appellarent et imagini tuae, quam propter hoc iusseram cum simulacris numinum afferri, ture ac vino supplicarent, praeterea male dicerent Christo, quorum nihil cogi posse dicuntur qui sunt re vera Christiani, dimittendos putavi. 6 Alii ab indice nominati esse se Christianos dixerunt et mox negaverunt; fuisse quidem sed desisse, quidam ante triennium, quidam ante plures annos, non nemo etiam ante viginti. Quoque omnes et imaginem tuam deorumque simulacra venerati sunt et Christo male dixerunt. 7 Affirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse vetueram. 8 Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam et immodicam. 9 Ideo dilata cognitione ad consulendum te decucurri. Visa est enim mihi res digna consultatione, maxime propter periclitantium numerum. Multi enim omnis aetatis, omnis ordinis, utriusque sexus etiam vocantur in periculum et vocabuntur. Neque civitates tantum, sed vicos etiam atque agros superstitionis istius contagio pervagata est; quae videtur sisti et corrigi posse. 10 Certe satis constat prope iam desolata templa coepisse celebrari, et sacra sollemnia diu intermissa repeti passimque venire <carnem> victimarum, cuius adhuc rarissimus emptor inveniebatur. Ex quo facile est opinari, quae turba hominum emendari possit, si sit paenitentiae locus.

A quanto sembra, i cristiani venivano puniti non per aver commesso crimini comuni, dai quali anzi Plinio sembra ritenerli ordinariamente immuni, ma in quanto rei di laesa maiestas, a meno che non rendessero omaggio alle immagini dell’imperatore e dei numi e maledicessro Cristo, segni infallibili della loro abiura. Tuttavia mancavano istruzioni ufficiali e Plinio, dopo averne mandati a morte alcuni perché rifiutavano con ostinazione di apostatare, impressionato dalla crescente ampiezza del fenomeno e tuttavia convinto di poterlo ancora fermare, chiede indicazioni. La relativa concisa risposta da parte di Traiano (Epistulae 10,97), benché contenesse pochi elementi certi e fosse assai ambigua, funzionò a lungo come disposizione di riferimento nella gestione di questi casi.

TRAIANVS PLINIO

1 Actum quem debuisti, mi Secunde, in excutiendis causis eorum, qui Christiani ad te delati fuerant, secutus es. Neque enim in universum aliquid, quod quasi certam formam habeat, constitui potest. 2 Conquirendi non sunt; si deferantur et arguantur, puniendi sunt, ita tamen ut, qui negaverit se Christianum esse idque re ipsa manifestum fecerit, id est supplicando dis nostris, quamvis suspectus in praeteritum, veniam ex paenitentia impetret. Sine auctore vero propositi libelli nullo crimine locum habere debent. Nam et pessimi exempli nec nostri saeculi est.

Plinio è il primo scrittore latino ad usare il nome corretto di Christus e Christiani ed è anche il primo a parlarne bene. Per lui la religione cristiana è una superstitionem pravam et immodicam non perché scellerata ma perché ostinata e aliena alle usanze dello stato romano; prescindendo da ciò, i cristiani sono descritti quali, diremmo oggi, ottimi cittadini. Quella di Plinio è anche la prima menzione della liturgia della messa in uno scrittore non cristiano.