Poche e non sempre sicure sono le notizie che riguardano Albio Tibullo, il massimo poeta elegiaco latino. Una brevissima vita anonima, preceduta da un epitafio di Domizio Marso, l’epigrammista che fece parte del circolo di Mecenate, si legge alla fine del corpus Tibullianum e secondo l’opinione prevalente risalirebbe all’originale di Suetonio:
Te quoque Vergilio comitem non aequa, Tibulle,
Mors iuvenem campos misit ad Elysios,
Ne foret, aut elegis molles qui fleret amores
Aut caneret forti regia bella pede.Albius Tibullus eques Romanus, insignis forma cultuque corporis observabilis, ante alios Corvinum Messalam oratorem dilexit, cuius etiam contubernalis Aquitanico bello militaribus donis donatus est. Hic multorum iudicio principem inter elegiographos obtinet locum. Epistolae quoque eius amatoriae, quamquam breves, omnino utiles sunt. Obiit adulescens, ut indicat epigramma supra scriptum.
L’epigramma di Marso parla di morte in ancor giovane età per Tibullo con Virgilio come compagno; anche Ovidio (Tristia IV, 51-52) accenna alla morte prematura di Tibullo, perciò si assume comunemente che sia morto non molto tempo dopo Virgilio nello stesso anno 19 a.C. Poiché allora era ancora adulescens, cioè non aveva ancora raggiunto i trent’anni, l’età minima per diventare questore, la nascita si suole porre attorno al 50 a.C. Orazio (che di Tibullo fu amico e gli dedicò anche il carme I, 33), in una epistola (Epistulae I, 4) indirizzata ad un Albio in cui è stato riconosciuto Tibullo, accenna alla regione Pedana che fa da sfondo ai sogni del poeta, e questo ha fatto pensare che fosse originario di Pedum presso Tivoli; altri – in considerazione del fatto che Pedum era probabilmente già scomparsa nel I secolo a.C. e certamente un secolo più tardi (come dice Plinio il vecchio in Naturalis historia III, 69) – lo fanno originario della vicina Gabii. Nella stessa epistola, Orazio dice che gli dèi gli avevano concesso ricchezza, bellezza e l’arte di goderne, in accordo con la condizione equestre asserita dalla vita anonima e non necessariamente in contrasto con il ruolo di amante povero che Tibullo, forse ad arte, suole assumere nelle elegie. Nel panegirico di Messalla (vedi infra) l’autore, la cui identificazione con Tibullo è discussa, afferma di essere stato una volta ricco e di aver poi perduto tutto, forse con l’esproprio del 42-41 a.C. subito dai proprietari della pianura Padana e finalizzato alla distribuzione di terre ai veterani della guerra civile e della battaglia di Filippi; accettando la paternità tibulliana del componimento si potrebbe aggiungere ai nomi di Virgilio e Properzio – che furono certamente colpiti dal provvedimento – anche quello di Tibullo, il quale perciò avrebbe a ragione potuto dirsi povero (e forse il Venusino, poverissimo di famiglia, poteva dire ricco anche un ex proprietario terriero, soprattutto a fini poetici). Null’altro sappiamo della famiglia di Tibullo, se si prescinde dai cenni alla madre e a una sorella, di cui si fa menzione sia nella terza elegia del primo libro sia nell’epicedio di Ovidio in morte di del poeta (Amores III, 9): le due donne sono entrambe le volte nominate insieme in termini tali da sembrare alludere che esse fossero tutta la sua famiglia.
Indipendentemente dalla questione dell’attribuzione del panegirico citato supra, Tibullo fu effettivamente legato da profonda amicizia per Marco Valerio Messalla Corvino, ben noto fino a oggi sia come comandante militare che come oratore e ispiratore di un circolo letterario, il cosiddetto circolo di Messalla, analogo a quello, più famoso, di Mecenate. Nonostante Tibullo fosse contrario alla guerra e soprattutto al proprio convolgimento in operazioni militari – fenomeno comune a tutti i grandi del I secolo, Catullo, Virgilio, Orazio, solo per nominare i maggiori, e segno potente del cambiamento del costume romano – seguì suo malgrado Messalla prima in Cilicia nel 30-29 a.C. – anche se non vi giunse mai perché ammalatosi si fermò a Corfù, come ricorda nella terza elegia del primo libro – quindi nella spedizione con la quale Messalla Corvino sedò la rivolta degli Aquitani nel 28 a.C. – anzi, stando alla settima elegia del primo libro, in Aquitania egli ebbe modo di distinguersi e fu poi presente al trionfo che a Messalla fu tributato il 25 settembre dell’anno successivo -.
L’opera di Tibullo è giunta fino a noi nel cosiddetto corpus Tibullianum, il quale però si prefigura probabilmente come una antologia della produzione fiorita all’ombra del circolo di Messalla più che della produzione strettamente tibulliana. Così come compare nei manoscritti, essa è composta da due libri, rispettivamente di dieci e di sei elegie, di sicura attribuzione tibulliana, e da un terzo libro di sei elegie, composte da un poeta di nome Lìgdamo che canta il suo amore per Neèra, seguite da una serie di componimenti vari: un panegirico in onore di un Messalla in 211 esametri; undici elegie sulla relazione amorosa tra due giovani, Sulpicia e Cerinto, divisibili in un nucleo di cinque componimenti più lunghi seguiti da sei brevissimi, poco più che bigliettini amorosi; un’elegia sull’amore di Tibullo per una donna sconosciuta e un epigramma, entrambi di autore incerto. In molte edizioni, seguendo la tradizione umanistica, i componimenti dal panegirico di Messalla in poi sono staccati dal terzo libro e riuniti in un quarto libro.
Delle dieci elegie del primo libro, cinque (le 1, 2, 3, 5 e 6) sono dedicate al suo primo amore, Delia – Apuleio (Apologia 10) ci informa che il vero nome di Delia era Plania, il che crea un semplice parallelo di significato poiché il greco delòs corrisponde al latino planus -; altre tre (4, 8 e 9) al giovinetto Màrato; la 7 a Messalla in occasione del suo compleanno; e infine la 10 al rifiuto della guerra e alla pace agreste. In base all’analisi dei riferimenti interni si ritiene che siano state composte tra il 30 e il 26 a.C. Delle sei elegie del secondo libro, dedicato alla crudele Nèmesi, la 1 descrive la lustratio agrorum nella ricorrenza della festa degli Ambarvalia, la 2 il compleanno di Cornuto, la 3, la 4 e la 6 sono indirizzate a Nèmesi, la 5 celebra l’assunzione di Messalino, figlio di Messalla, nel collegio dei quindecemviri, gli auguri che avevano il compito di consultare e interpretare i Libri Sibillini. Non è chiaro se la Nèmesi qui invocata sia il nome del secondo amore o la personificazione della Vendetta per l’infedeltà di Delia. Sembra che la composizione risalga al periodo tra il 25 e il 19 a.C. ed è stato anche ipotizzato che questo libro sia stato pubblicato postumo dagli amici.
Difficile o impossibile il problema dell’attribuzione dei componimenti del terzo e del quarto libro del corpus. Taluni, constatando da un lato le consonanze poetiche e dall’altro la complessiva inferiorità artistica rispetto ai primi due libri, hanno ritenuto di accoglierne in blocco il contenuto sotto la comune denominazione di poesie giovanili di Tibullo, scritte probabilmente prima e a cavallo del 30 a.C. e poi rifiutate dal poeta nella maturità. Più fortuna ha incontrato l’applicazione di un più accorto criterio selettivo ai vari componimenti, che tenga cioè conto delle evidenze dell’analisi critica dei diversi testi, senza comunque poter trovare elementi inconfutabili per raggiungere la soluzione della questione. Il Lìgdamo del terzo libro parrebbe essere uno pseudonimo: potrebbe trattarsi dello stesso Tibullo, che in questo caso avrebbe inventato dal nulla un romanzo amoroso. Ma questa impostazione, che prefigura una sorta di esercitazione poetica, sembra cozzare col punto di vista dei poeti elegiaci latini, i quali si caratterizzavano per trarre la materia poetica dalle proprie personali vicende sentimentali – in contrasto con l’elegia greca, che cantò gli amori dei miti -. D’altra parte i sostenitori dell’identificazione di Lìgdamo con altri che Tibullo non hanno trovato un accordo e si sono frantumati su diverse possibilità: poiché Lìgdamo asserisce di essere nato nel 43 a.C. e poiché questo è l’anno di nascita di Ovidio, alcuni hanno pensato che proprio il giovane Ovidio si celasse sotto quel nome; altri lo ha voluto identificare con il fratello di Ovidio, nato un anno prima del poeta; ed infine a Lìgdamo si è voluta riconoscere esistenza autonoma ipotizzando che si tratti di un poeta altrimenti sconosciuto del I secolo a.C. o persino posteriore. Il criterio stilistico sembrerebbe avvalorare tra tutte l’ultima ipotesi, poichè a Lìgdamo non si riconosce la cifra poetica di un Tibullo o di un Ovidio.
Riguardo il panegirico di Messalla – che sarebbe quasi sicuramente del 30 a.C. poiché non vi sono citati avvenimenti posteriori al 31 a.C. -, unico componimento in esametri di tutta la raccolta, i sostenitori dell’attribuzione a Tibullo fanno notare le evidenti corrispondenze con le elegie sicure, quelle dei primi due libri, nonostante il non eccelso valore dell’opera. Il fatto, già citato, che l’autore del panegirico sostenga aver perduto il patrimonio di famiglia, in definitiva non avvalora né svaluta la tesi tibulliana. Anche per quanto riguarda il ciclo di Sulpicia e Cerinto si è pensato ad un romanzo artificiale inventato da Tibullo o perfino da Ovidio. Secondo un’altra tesi più audace, le prime cinque poesie potrebbero essere di Tibullo, come comprovato dalle corrispondenze che esistono con i primi due libri, mentre le sei restanti sarebbero di una donna, come suggerito dalla sensibilità tipicamente femminile che vi si può ravvisare. In questo caso, ci troveremmo di fronte alla prima poetessa della letteratura latina, cui potremmo certo dare il nome che elle stessa si dà, Sulpicia figlia di Servio – ed è stato suggerito senza possibilità di conferma che questo nome si riferisca al giurista Servio Sulpicio Rufo (che fu console nel 51 a.C.): Sulpicia potrebbe essere così nipote di Messalla Corvino -. La società romana concedeva alla donna più spazio che non la società greca ed orientale in generale, ma una poetessa è un fatto assolutamente eccezionale nella letteratura latina. Eppure, proprio per questo l’ipotesi è accattivante e, se si ammettesse che Sulpicia facesse parte della casa di Messalla, sarebbe naturale che Tibullo la conoscesse e non strano che, avendone riconosciuto la qualità poetica, ancorché immatura, abbia duettato con lei. Sembra infatti chiaro, nonostante l’ordine unanimemente conservato dai codici, che le prime cinque elegie siano successive ai sei brevi elegidia – come sono indicate sui manoscritti: vanno dai quattro ai dieci versi – di Sulpicia e mostrano una superiore esperienza artistica. Gli ultimi due brevi componimenti, il primo di ventiquattro versi e il secondo di appena quattro, entrambi sul tema della gelosia, sono generalmente attribuiti senz’altro a Tibullo. Il tono dolce e malinconico, l’assenza di erudizione mitologica, il lessico piano e privo di grecismi e di astrusità lessicali e morfologiche, rendono ampia ragione al conciso giudizio di Quintiliano (Institutio oratoria X, 1, 93), che definisce Tibullo tersus atque elegans.