Marcus Annaeus Lucanus

Marco Anneo Lucano, figlio di Marco Anneo Mela, fratello di Seneca, nacque anch’egli a Cordova nel novembre del 39 d.C. Ad appena otto mesi fu portato a Roma. Seguì i corsi di grammatica e di retorica, nei quali brillò il suo ingegno precoce. Fu allievo tra l’altro del filosofo stoico Anneo Cornuto.

Lo straordinario talento nella poesia gli fruttò l’amicizia di Nerone, che lo ammise nella ristretta cerchia dei suoi amici. Negli anni del buon governo neroniano, sotto l’influenza di Seneca, Lucano fu tra gli artisti più stimati e più valorizzati da Nerone.

Quando Nerone cedette agli istinti peggiori, trasformando per primo il principatus in dominatus, il temperamento orgoglioso di Lucano lo fece entrare in rotta di collisione col dominus infatuato di se stesso e geloso dell’altrui talento. Un giorno, mentre Lucano declamava i suoi versi, Nerone abbandonò la sala e il giovane poeta non la prese bene. Suetonio racconta che Lucano, trovandosi in una pubblica latrina e avendo prodotto un sonoro crepitus ventris, lo sottolineò con una citazione ad alta voce di un emistichio di Nerone: sub terris tonuisse putes. Sempre Suetonio aggiunge che compose poi un famosum carmen nel quale cum ipsum [i.e. Nerone] tum potentissimos amicorum gravissime proscidit.

Ma l’imprudenza maggiore la commise quando, già sotto osservazione per essere tra i bersagli di Nerone, aderì alla congiura dei Pisoni, e senza preoccuparsi di nasconderlo. Quando la congiura fu scoperta, la sua gioventù gli giocò un brutto scherzo: sopraffatto dalla paura, denunciò i congiurati e fece perfino il nome della madre Acilia, che era del tutto innocente.

Questa debolezza, che, se censurabile in assoluto ed empia nei riguardi della madre, è comunque umana; alcuni hanno peraltro cercato motivi per non prestare fede alla notizia, che è riportata sia da Tacito che da Suetonio, trovandoli forse nel fatto che la madre non fu poi indagata, ma, secondo Tacito, lasciata andare nè condannata nè assolta; fatto comunque ampiamente spiegabile.

Il giovane Lucano si riscattò in occasione della sua morte, che non tardò a venire. L’ultimo giorno di aprile del 65 d.C. ricevette l’ordine di darsi la morte. Narra Tacito che diede un grande banchetto d’addio e, dopo il pranzo, porse le vene del braccio al medico perchè le recidesse. E mentre la vita scorreva via e già gli arti erano freddi ma la mente ancora lucida, si ricordò di un rano in cui aveva cantato la morte per dissanguamento di un soldato ferito e lo recitò. Quelle furono le sue ultime parole.

La sua precoce attività gli consentì una inusuale fecondità per un poeta morto a ventisei anni non ancora compiuti. Secondo i suoi biografi e in particolare Papinio Stazio, che ci ha lasciato nelle sue Silvae (II, 7) un appassionato ricordo di Lucano, egli compose delle Laudes Neronis, risalenti al periodo dell’amicizia con l’imperatore, il famosum carmen cui abbiamo accennato più sopra, del quale nonoconosciamo però il titolo (ammesso che sia stato pubblicato e non solamente diffuso tra gli amici, sia pure con imprudente avventatezza), un poema del ciclo troiano, Iliaca, che scrisse, dice Stazio, in ancor tenera età, il carme Catachtonion, sul mondo degli inferi, il carme Orpheus, una raccolta di componimenti di vario argomento dal titolo Silvae, ripreso appunto da Stazio, una tragedia incompiuta, Medea, quattrodici fabulae salticae, cioè libretti per pantomime, il poema Saturnalia.

Secondo il grammatico Vacca, inoltre, Lucano trovò il tempo di scrivere anche in prosa: una raccolta di epistole dalla Campania, la declamazione De incendio Urbis, citata anche da Stazio, sull’incendio di Roma voluto da Nerone, e una controversia su Ottavio Sagitta, un tribuno della plebe condannato per aver ucciso la sua amante sposata, Porzia, la quale, dopo aver divorziato dal marito, s’era rifiutata di sposarlo (storia riportata anche da Tacito in Annales XIII, 44).

Ma l’opera maggiore di Lucano, l’unica a noi pervenuta, è la Pharsalia o Bellum civile. È un poema in dieci libri incompiuto, perché troncato dalla morte prematura dell’autore quando Cesare e Cleopatra sono assediati nella reggia di Alessandria dalla rivolta fomentata da Achilla. L’argomento è la guerra civile tra Cesare e Pompeo, quella in cui si raggiunse l’acme delle lotte intestine del I secolo a.C. Per Lucano la vittoria di Cesare rappresentò il definitivo tramonto della libertà e l’inizio della tirannide, di cui Nerone era il terribile rappresentante.

Nella poesia epica e guerresca Lucano porta un radicale cambiamento rispetto al canone tradizionale usato anche da Virgilio: il rifiuto del mito (ma non della fortuna nè della magia) e della sua proiezione in una dimensione storica con funzione celebrativa. Per Virgilio il mito era stato la chiave per la consacrazione, soprattutto in chiave religiosa, di Augusto, della gens Iulia e in definitiva del valore del principato; il Mantovano, peraltro, agiva nel solco di una tradizione consolidata che partiva nientemeno che da Omero. Per Lucano, il principato è già divenuto tirannide oppressiva e in definitiva un disvalore. Proprio in opposizione a Virgilio e a ciò che la sua opera rappresenta, Lucano si distacca dalla tradizione e segue la strada, paradossalmente originale dal punto di vista moderno, della pura narrazione storica in chiave epica.

Egli allora sostituisce all’esaltazione mitica di Augusto l’esaltazione pratica della libertà attraverso le sue incarnazioni storiche: Catone, prima di tutto, che rappresenta la più grande della libertà, per un romano, quella politica; se questa viene meno, l’unica alternativa è la morte; e poi Pompeo, inizialmente alla ricerca del potere anche lui come Cesare, e in seguito via via sempre più immedesimato nel suo ruolo di campione della causa della libertà ma sempre più presago dell’esito infausto della sua lotta e sempre più solo. Venuto meno il mito, l’effetto epico è quindi raggiunto da Lucano attraverso l’idealizzazione dei personaggi che vengono a incarnare quasi tragicamente le virtù e gli affetti nella lotta per la libertà.