Tra i quattro massimi Padri latini della Chiesa assieme ad Ambrogio, Agostino e Papa Gregorio Magno, Eusebio Sofronio Girolamo, santo e Dottore della Chiesa, nacque nel 347 d.C. a Stridone, cittadina al confine tra Dalmazia e Pannonia(ma altri ne sposta la data di nascita indietro di qualche anno). Di sè e della sua produzione lascia scritto egli stesso alla fine del De viris illustribus (392 d.C.):
[CXXXV] Hieronymus, patre Eusebio natus, oppido Stridonis, quod, a Gothis eversum, Dalmatiae quondam Pannoniaeque confinium fuit, usque in praesentem annum, id est, Theodosii principis decimum quartum, haec scripsi: Vitam Pauli monachi, Epistolarum ad diversos librum unum, ad Heliodorum Exhortatoriam, Altercationem Luciferiani et Orthodoxi, Chronicon omnimodae historiae; in Ieremiam et in Ezechiel Homilias Origenis viginti octo, quas de Graeco in Latinum verti; de Seraphim, de Osanna, et de frugi et luxurioso filiis; de tribus Quaestionibus legis veteris, homilias in Cantica canticorum duas, adversus Helvidium de virginitate Mariae perpetua, ad Eustochium de virginitate servanda, ad Marcellam Epistolarum librum unum, Consolatoriam de morte filiae ad Paulam, in Epistolam Pauli ad Galatas Commentariorum libros tres, item in Epistolam ad Ephesios libros tres, in Epistolam ad Titum librum unum, in Epistolam ad Philemonem librum unum, in Ecclesiasten Commentarios, Quaestionum Hebraicarum in genesim librum unum, de Locis librum unum, Hebraicorum nominum librum unum, de Spiritu sancto Didymi, quem in Latinum transtuli, librum unum; in Lucam homilias triginta novem; in Psalmos, a decimo uqsue ad decimum sextum, tractatus septem; Malchi, captivi monachi, Vitam, et beati Hilarionis. Novum Testamentum Graece fidei reddidi, Vetus iuxta Hebraicam transtuli; Epistolarum autem ad Paulam et Eustochium, quia quotidie scribuntur, incertus est numerus. Scripsi praeterea in Michaeam explanationum libros duos, in Sophoniam librum unum, in Nahum librum unum, in Habacuc libros duos, in Aggaeum librum unum, multaque alia de opere prophetali, quae nunc habeo in manibus, et necdum expleta sunt. [Adversus Iovinianum libros duos, et ad Pammachium Apologeticum et Epitaphium.]
Nato da famiglia ricca e nobile, dopo aver ricevuto la classica educazione letteraria riservata ai giovani di buona famiglia, fu mandato a perfezionarsi a Roma, ove fu allievo del celebre grammatico Elio Donato e del retore Gaio Mario Vittorino. Gli studi letterari segneranno tutta la sua vita esercitando sempre in lui un fascino irresistibile. Fu uomo di carattere facile agli eccessi, anche nella carità: vivo e passionale ma irritabile, generoso ma impulsivo e financo violento, fu paladino appassionato e attento dell’ortodossia della fede cristiana. A Roma Girolamo, che era di famiglia cristiana, fu battezzato da Papa Liberio forse nel 365 d.C. (e certamente entro il 366, ultimo anno del suo pontificato).
Nell’arco della sua vita girò gran parte dell’impero, in occidente e in oriente. Dopo dieci anni di permanenza a Roma si recò ad Augusta Treverorum (oggi Treviri in Germania) ove sorgeva una delle più rinomate scuola di retorica dell’impero e dove iniziò gli studi teologici. In questi anni si faceva sentire la vocazione religiosa e il suo spirito rigoroso, zelante e studioso – era un vero topo di biblioteca – maturava la scelta di una vita religiosa improntata a rigida austerità. Venuto ad Aquileia, si unì ad un gruppo di asceti sotto l’ala del vescovo Valeriano. Scioltosi il gruppo, nel 373 d.C. decise di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, ma l’anno seguente, quando si trovava ad Antiochia, si ammalò gravemente, forse affaticato dal viaggio o perchè travagliato dalla profonda crisi spirituale; fu quindi costretto a fermarsi colà, ospite del sacerdote Evagrio. Ad Antiochia in Siria era anche la famosa e ricchissima biblioteca: egli non potè resistere all’ardente desiderio di riprendere i suoi amati studi e ne approfittò per approfondire la conoscenza del greco. Lui stesso racconta che passava i giorni a leggere Cicerone e le notti a leggere Platone: nella vita austera che prediligeva lo stile delle sue letture doveva essere quello dei classici, non quello assai poco raffinato dei testi sacri. Durante la Quaresima del 375 d.C. si ammalò gravemente ed ebbe una visione di cui egli stesso racconta (Epistulae XXII, 30):
In media ferme quadragesima, medullis infusa febris corpus invasit exhaustum; et sine ulla requie (quod dictu quoque incredibile sit) sic infelicia membra depasta est, ut ossibus vix haererem. Interim parabantur exequiae, et vitalis animae calor, toto frigente iam corpore, in solo tantum tepente pectusculo palpitabat, cum subito, raptus in spiritu, ad tribunal iudicis partrahor, ubi tantum luminis, et tantum erat ex circumstantium claritate fulgoris, ut proiectus in terram, sursum aspicere non auderem. Interrogatus Christianum me esse respondi. Et ille qui praesidebat: ‘Mentiris, ait, Ciceronianus es, non Christianus: ubi thesaurus tuus, ibi et cor tuum’. […] Domine, si umquam habuero codices saeculares, si legero, te negavi.
Gli parve di essere portato di fronte al tribunale divino e di essere fustigato, mentre tra i tormenti giurava che non avrebbe più posseduto alcun libro pagano. Quando si svegliò, le spalle erano coperte di lividi. Questo episodio segnò il destino di Girolamo e dei suoi studi, e regalò al mondo latino la immensa produzione religiosa di questo fecondissimo autore nonché la celebre traduzione della Bibbia nella lingua del volgo, che era allora il latino, nota appunto come Vulgata.
Per meglio rifuggire la tentazione dei classici e le tentazioni della carne si ritirò nel deserto calcidico, ai confini della Siria. Lì trascorse tre anni come un eremita, nei quali si impadronì dell’ebraico, lingua dell’Antico Testamento, e si perfezionò nella conoscenza del greco, lingua del Nuovo Testamento. Quando sentì di riuscire a dominare le proprie passioni, dopo intense mortificazioni e prolungate preghiere, ritornò ad Antiochia, era il 378 d.C., e fu ordinato sacerdote dal patriarca Paolino. Andò poi a Costantinopoli, alla scuola di san Gregorio di Nazianzo, che sarà insieme a Donato il maestro che più lo influenzerà. A Costantinopoli approfondì la conoscenza di Origene (il famoso autore cristiano del III secolo d.C.) e iniziò la sua opera di traduttore di testi teologici dal greco in latino. Quando venne a Roma per accompagnare il patriarca di Antiochia Paolino ed Epifanio di Salamina al Concilio del 382 d.C. fu presentato a Papa Damaso, il quale lo volle come segretario particolare, consigliere e amico. E fu Papa Damaso ad incaricare il ruvido uomo di chiesa e di studio, padrone del greco e dell’ebraico, dell’opera per la quale soprattutto è ricordato, la redazione di una traduzione latina completa della Bibbia edita sui testi originali. In quell’epoca esistevano numerose versioni latine differenti della Bibbia, spesso parziali, tutte realizzate con lo scopo di offrire al fedele d’occidente la possibilità di comprendere la parola di Dio quando ormai il latino era generalmente utilizzato come lingua parlata. Queste versioni – note oggi col nome collettivo di Vetus Latina – erano tuttavia molto diverse tra loro nel testo e nella qualità, tanto per l’aderenza al testo originale quanto per la resa linguistica in latino – di norma sono traduzioni estremamente letterali fino al servilismo, cosicché sono oggi importanti anche perché lasciano intravvedere il testo greco dal quale sono state tratte -, e questo almeno in dipendenza dalla bontà del testo di partenza, dalla educazione letteraria dell’estensore e dalla cultura del popolo cui erano destinate; esse stesse erano poi soggette ad alterazioni e rimaneggiamenti poiché mancava un testo di riferimento. Sembra che tra tutte queste traduzioni – delle quali citiamo quella sorta in Africa Proconsolare prima del 180, anno nel quale i Martiri Scillitani dichiararono, come riportato dagli Acta martyrum, di possedere libri et epistulae Pauli – emergesse per autorevolezza quella che sant’Agostino (De doctrina Christiana II, 15) chiama Itala, probabilmente perché diffusa in Italia (forse nata in Roma, dove fu utilizzata da Novaziano attorno alla metà del III secolo). Il santo di Ippona, affermando che essa era da preferirsi per fedeltà al testo e chiarezza espositiva, manifestava implicitamente l’esigenza di un testo comunemente accettato per l’uso liturgico e anche per la lotta contro le eresie. Il lavoro di Girolamo, che conobbe almeno tre fasi impegnandolo fino alla morte, si impose per la sua superiorità e divenne in breve testo di riferimento delle Chiese latine; e tale rimase, attraverso la conferma del Concilio di Trento che consacrò il nome di Vulgata, cioè divulgata al popolo, fino a tempi molto recenti.
A Roma Girolamo risiedette dal 382 al 385 d.C. Qui ebbe luogo la prima fase della sua impresa, essenzialmente un’opera di revisione della Vetus Latina operata solo dal greco e prevalentemente incentrata sul Nuovo Testamento: per esso il testo greco era l’originale – a meno del Vangelo di Matteo, il cui originale era aramaico, ma per noi è perduto; peraltro, il testo greco è riconosciuto dalla Chiesa come ispirato -. L’Antico Testamento, invece, era stato scritto originariamente in ebraico, ma ne esisteva una versione greca detta dei Septuaginta dal numero dei traduttori che secondo la tradizione vi avrebbero preso parte – Tolomeo II Filadelfo l’avrebbe fatta eseguire, attorno al 250 a.C. per la biblioteca di Alessandria da lui stesso fondata, da 72 uomini, sei per ciascuna delle dodici tribù di Israele, inviati dalle autorità religiose di Gerusalemme -; della versione dei LXX Girolamo si servì per rivedere il testo della Vetus Latina del Libro dei Salmi, l’unico dell’Antico Testamento sul quale lavorò a Roma. Generalmente si riconosce che Girolamo operò solo sui punti nei quali la traduzione latina esistente alterava il senso originale; nel caso dei salmi, il risultato sarebbe invece giunto a noi nel cosiddetto Salterio romano (in uso a Roma prima dell’adozione della Vulgata).
Oltre agli studi biblici, a Roma Girolamo si dedicò ad un intenso apostolato della vita ascetica presso la famiglie più nobili e influenti, diffondendo in quel mondo – che sentiva allora per la prima volta, dopo la disfatta di Adrianopoli (378 d.C.), la reale e fisica minaccia dei barbari – la regola rigida e austera che egli applicava prima di tutto a se stesso: era solito, secondo quanto si tramanda, mangiare solo una volta al giorno, dopo il tramonto, e alzarsi a metà della notte e prima dell’alba per intonare le lodi. In casa della matrona Marcella, sull’Aventino, furono seguite le sue abitudini di preghiera e digiuno; assidue erano la madre di Marcella, Albina, Asella, Paola e le sue figlie, Blesilla ed Eustochio. Tuttavia, il carattere duro, impetuoso e un po’ selvatico dovette procurare a Girolamo molti nemici nella corte papale romana, in cui fin da allora dovevano allignare, come purtroppo è fatale in ogni centro di potere anche se religioso e anche se cristiano, mondanità e invidie – secondo una leggenda medievale, i suoi nemici, per screditarlo, avrebbero sostituito nottetempo alla sua una tunica femminile, dimodochè, quando la mattina seguente fece ingresso in chiesa indossandola, sembrò che avesse passato la notte con una donna -. Quando la giovane Blesilla morì, la causa fu individuata nello stile di vita troppo spartano e la colpa addossata a Girolamo. Nel frattempo, inoltre, Papa Damaso, suo protettore, morì nel 384 d.C. Per queste ragioni e per attendere meglio al suo immane compito, poiché si era convinto che per realizzare la traduzione dell’Antico Testamento doveva risalire al testo ebraico e quindi approfondire la conoscenza di questa lingua, preferì ritornare in oriente. Si stabilì a Betlemme, presso la Grotta della Natività eretta dall’imperatore Costantino nel luogo della nascita di Gesù, dove fu seguito da Paola ed Eustochio, madre e sorella di Blesilla, che rimasero al suo servizio fino alla morte e cui egli dedicherà parte dei suoi lavori di revisione e traduzione della Bibbia come ispiratrici di questo lavoro. A Betlemme fondò una congregazione monastica (386 d.C.) ancora una volta improntata alla sua regola ascetica, mentre Paola fondava tre monasteri femminili.
Secondo il suo programma, in Palestina Girolamo si perfezionò ulteriormente nella padronanaza dell’ebraico con l’aiuto di rabbini locali, i quali si tramanda lo incontrassero di notte per timore del giudizio degli Ebrei, poichè egli era cristiano: preferivano forse perdere il sonno pur di avere il privilegio di incontrare un intelletto così vivo e una cultura così profonda e vasta. Contemporaneamente, metteva a frutto gli insegnamenti ricevuti con la revisione di tutti i libri protocanonici (inclusi i Salmi), sempre partendo dalla versione greca dei Septuaginta, ma effettuando il confronto con il testo ebraico assunto come originale: egli adottò tra l’altro l’espediente di segnare ciò che era superfluo nel testo greco rispetto all’ebraico tra un obelus (una lineetta orizzontale) e un segno di ‘due punti’; mentre tra una stella (un asterisco) e i due punti segnò ciò che era presente nei libri ebraici ma non nella traduzione greca. È questa la seconda fase della traduzione della Bibbia che durò fino al 390 d.C. Gran parte del lavoro svolto in questa fase, cioè del testo latino prodotto, andò perduto prima della pubblicazione, come attesta il suo epistolario (Epistolae CXXXIV ad Augustinum); l’unico residuo giunto fino a noi è il cosiddetto Salterio gallicano (perché diffuso specialmente nelle Chiese della Gallia).
La terza fase inizò nel 390 d.C. e si protrasse probabilmente fino al 405 d.C. In essa Girolamo tradusse direttamente dall’ebraico i libri protocanonici (tranne il salterio), e in più i libri deuterocanonici di Tobia e di Giuditta da un originale aramaico e i frammenti di Daniele della versione greca di Teodozione (una revisione del testo dei LXX operata nella seconda metà del II secolo). Nel complesso, quindi la Vulgata è costituita: per il Nuovo Testamento dalla revisione delle Vetus Latina fatta a Roma; per i protocanonici dell’Antico Testamento dalla traduzione diretta dall’ebraico, a meno del salterio che è quello gallicano (volto dal greco confrontato con il testo ebraico); i libri deuterocanonici sono quelli della Vetus Latina a meno di Tobia e Giuditta (da un testo aramaico) e i frammenti di Daniele (dal greco). La versione di Girolamo è caratterizzata dall’esigenza suprema di rendere comprensibile il testo biblico senza perdere in fedeltà all’originale e senza rinunciare se non quando impossibile ad una certa eleganza formale (sostituendo ad esempio la ipotassi latina alla estrema paratassi ebraica). Rare le deviazioni dall’originale, sempre per motivi di chiarezza, si nota tuttavia una certa indulgenza ad esplicitare i riferimenti messianici del testo. Per questo il generale convincimento degli studiosi riconosce alla Vulgata una indiscussa superiorità a tutte le versioni antiche.
La traduzione geronimiana si diffuse rapidamente e, dopo una convivenza di qualche secolo con la Vetus Latina, si impose definitivamente in tutte le Chiese a partire dall’VIII secolo. La decisione fu ribadita ufficialmente dal Concilio di Trento che nella sessione IV dell’8 aprile 1546, dopo avere al mattino riaffermato che il canone dei libri sacri è quello che si trova nella Vulgata, nel pomeriggio stabilì con il decreto Insuper che: […] ut haec ipsa vetus et vulgata editio, quae longo tot saeculorum usu in ipsa ecclesia probata est, pro authentica habeatur […]; dispose inoltre, a maggior forza della sua decisione, una revisione accuratissima del testo, che vide poi la luce nel 1592 sotto Clemente VIII e fu per questo detta edizione Sisto-Clementina, ancor oggi in uso. Il riferimento all’autenticità della Vulgata è da intendersi non nel senso che essa è perfettamente conforme all’originale, ma che la sua conformità sostanziale ne permette l’uso pubblico (nella liturgia, nella catechesi, nelle dispute, ecc.). Nonostante le critiche che la Vulgata si è attirata nel corso dei secoli, mosse a partire dalla Riforma fino alla critica filologica moderna e contemporanea, la Translatio Veteris et Novi Testamenti di Girolamo rimane senza alcun dubbio e di gran lunga il più eminente lavoro di scienza filologica dell’antichità, opera per di più di un sol uomo. Tuttavia, la Chiesa, riconoscendo la fondatezza di argomento di alcune di queste critiche e constatando che le schiere di filologi moderni dispongono di strumenti molto più completi e acuti di quelli a disposizione di uno studioso di quindici o venti secoli fa – ma sono anche molto più lontani dai fatti e dai luoghi -, nell’ambito dell’impulso che il Concilio Vaticano II ha dato agli studi biblici come strumento liturgico ed ecumenico, ha disposto la redazione di un nuovo testo latino con l’obiettivo di correggere le deviazioni della Vulgata dagli originali; questa redazione nota come Nova Vulgata o Neovulgata è stata completata e promulgata da Papa Giovanni Paolo II il 25 aprile 1979 con la Costituzione Apostolica Scripturarum Thesaurus. A Betlemme rimase fino alla morte, avvenuta il 30 settembre del 420 d.C. (secondo alcuni nel 419).
È da notare che in ambito di critica delle fonti, basata sui lunghi anni trascorsi in oriente, Girolamo è stato tra i più accesi difensori in occidente del canone ebraico, che non riconosce come ispirati i libri deuterocanonici dell’Antico Testamento. Il canone ebraico era certamente più conosciuto in oriente che in occidente, dove, com’era naturale si era diffuso prima il Nuovo Testamento, mentre l’Antico aveva avuto, almeno inizialmente, una diffusione minore. In occidente, poi, grande era l’influsso di Agostino, grossomodo contemporaneo di Girolamo, che invece accolse alcuni dei libri espunti da Girolamo (nella ‘Lettera ai vescovi Cromazio ed Eliodoro’: ‘La Chiesa li legge, ma senza riconoscerli canonici; li legge per edificazione del popolo, ma non se ne serve per provare o autorizzare alcun articolo di fede.’ Parole quasi uguali si leggono nella prefazione alla traduzione dei libri si Salomone: ‘Poichè la Chiesa legge anche Giuditta, Tobia e i libri dei Maccabei, pur non accogliendoli tra gli scritti canonici, ne segue che essa li legge per edificazione del popolo, ma non per confermare l’autorità dei dogmi ecclesiastici.’). La posizione di Agostino ha prevalso nella Chiesa fino alla riforma, quando alcuni riformatori si rifecero al canone ebraico. In seguito alla Controriforma la Chiesa cattolica ha riaffermato la propria posizione, continuando ad adottare il canone di derivazione agostiniana.
Girolamo ne tradusse alcuni ugualmente in latino e compaiono regolarmente nelle edizioni della Vulgata (eccetto Baruch, l’Ecclesiastico, la Sapienza, i due libri dei Maccabei, che si leggono ancora nella vecchia versione latina), ma con la dizione di apocrifi (nel ‘Prologo galeato’ alla traduzione delle Sacre Scritture: ‘I libri dell’antica legge sono ventidue – quante le lettere dell’alfabeto ebraico -, vale a dire i cinque di Mosè, otto dei profeti, nove degli agiografi. Mentre molti uniscono Ruth con i Giudici e le Lamentazioni con Geremia, altri li separano e li considerano a parte in mdo da raggiungere il numero di ventiquattro. Tale è appunto il numero dei ventiquattro anziani dell’Apocalisse giovannea che adorano l’agnello… Questo prologo delle Scritture, che sta in principio quale difesa, può convenire a tutti i libri che abbiamo tradotto in latino dall’ebraico, perchè si possa così sapere che tutto quanto sta fuori va posto tra gli scritti apocrifi. Perciò la Sapienza, che volgarmente si attribuisce a Salomone, il libro di Gesù, figlio di Sirac, Giuditta, Tobia e il Pastore non sono nel canone. Ho trovato in ebraico anche il primo libro dei Maccabei; il secondo è greco, come si può documentare dal suo stesso stile.’).
Girolamo, come era costume degli scrittori cristiani del periodo (si pensi ad Ambrogio e Agostino, che lasciarono decine di scritti) compose anche un numero impressionante di altre opere: fu commentatore biblico, campo nel quale lasciò sessantatrè volumi di commenti (alla Genesi, ai Salmi, all’Ecclesiaste, ai profeti, al Vangelo di Matteo, ad alcune epistole paoline) e più di cento di interpretazione del significato delle Scritture. Fu attivo difensore dell’ortodossia contro le varie eresie del IV secolo, da quelle che attaccavano la tradizione a quelle che negavano dei dogmi di fede. Tra le opere dottrinali ricordiamo l’Adversus Helvidium, contro l’ariano Elvidio che negava la perpetua verginità di Maria, sostenendo l’unione coniugale di Giuseppe e Maria dopo la nascita di Gesù. Nell’Adversus Iovinianum, la dottrina del monaco che dava maggior peso al battesimo e alla fede che alle opere dei fedeli, e quindi mette sullo stesso piano di merito ad esempio vergini, spose e vedove, e annulla il valore delle mortificazioni, spinge il suo carattere focoso a esagerare la difesa del celibato contro il matrimonio, tesi di cui farà poi ammenda in una lettera. Doveva preferire l’ortodossia dottrinale di carattere ascetico alla difesa speculativa della dottrina contro le eresie dogmatiche, se è vero che nel Dialogus adversus Pelagianos, che fu sollecitato da Agostino, si mantiene misurato e appena prende in considerazione il punto centrale dell’eresia pelagiana, che cioè l’uomo avrebbe il potere di salvarsi da solo, senza l’intervento della grazia.
Su un piano del tutto particolare sono da mettersi gli scritti in polemica con l’origenismo, i quali rischiano di gettare un’ombra sulla coerenza morale dell’uomo. Per l’esegesi biblica Girolamo si era servito a lungo all’interpretazione allegorica dello stesso Origene, tuttavia non gli era ignoto che questo metodo, se da un lato aiutava a rendere le Scritture d’attualità e immediatamente comprensibili a tutti, dall’altro invogliava a scoprire nella lettera del testo biblico sempre nuovi e reconditi significati, magari eticamente bellissimi ed edificanti, che però non erano nel testo. Egli, che considerava Origene un genio del metodo esegetico e che nei primi scritti esegetici ne aveva sostanzialmente copiato lo stile, negli ultimi vent’anni della sua vita fu costretto a prendere posizione in sede teologica contro l’origenismo e si avvicinò al metodo storico della scuola di Antiochia, cioè all’esegesi basata sull’interpretazione storica e l’esame rigoroso dei testi, metodo che gli era in fondo tanto congeniale che lo porterà avanti spesso meglio degli antiocheni stessi. Era accaduto che il vescovo Epifanio di Cipro – siamo verso il 395 d.C. – veduto l’entusiasmo di Girolamo verso l’esegeta greco, lo aveva messo in guardia sull’inaccettabilità di alcune proposizioni dottrinali di Origene, tra cui la preesistenza dell’anima e l’eternità del mondo. Girolamo, che di Origene ammirava il metodo ma in fondo non ne aveva mai approfondito la dottrina (per la speculazione fine a sè stessa non era versato), compreso il pericolo, studiò Origene e si schierò contro l’origenismo, che proprio in Palestina aveva molti seguaci, scrivendo contro uno di questi, il vescovo Giovanni di Gerusalemme, il Contra Iohannem Hierosolymitanum. Questo voltafaccia, almeno apparente, generò un’altra polemica con un suo conterraneo e compagno di studi alla scuola di Donato, Tirannio Rufino di Concordia, vicino Aquleia, sfociata nella pubblicazione dell’animosissimo Apologia adversus libros Rufini. Inoltre, poichè Rufino aveva utilizzato una versione mutila del De principiis di Origene per difendere la propria posizione, Girolamo ne rifece una versione aderente all’originale. Per ironia della sorte, tanto la versione di Origene tanto quella di Girolamo sono andate perdute, mentre ci rimane quella di Rufino con cui ricostruire l’opera originale. Dagli studi moderni sembra comunque che Rufino avesse compreso meglio le tesi di Origene (cosa probabile, vista l’allergia di Girolamo per le questioni dottrinali puramente speculative) e si fosse comportato nella polemica con maggiore signorilità (cosa assai probabile, data la vena polemica di Girolamo). In tutte queste opere Girolamo, che non possedeva certo in grado eroico la virtù della pazienza, faceva rifulgere il suo carattere fiammeggiante e impulsivo, tanto che la sua polemica diventa spesso aggressiva e tagliente anche sul piano personale. Ad esempio, nell’Adversus Vigilantium, contro il monaco che a suo dire mormorava contro il celibato ecclesiastico e la venerazione delle reliquie dei santi, cambia il nome del suo avversario in Dormitantius. Così, anche l’invettiva rinasce in Girolamo.
Scrisse anche opere storiche, tra cui la monumentale Chronaca, che nel naufragio di tanta parte della latinità è rimasta per noi un sussidio insostituibile per la cronologia del mondo antico. Si tratta in buona parte della traduzione del Chronicon di Eusebio di Cesarea, ch’egli integrò con notizie desunte da Svetonio ed estendendola dal 325 al 378 d.C. Eusebio di Cesarea, vissuto sotto Costantino, fu il primo ad accorgersi che, nel trionfo della cristianità, era necessario adeguare i sistemi di riferimento e datazione alla nuova situazione. Il primo libro della sua opera (che ci rimane nella versione armena) era un riassunto della storia universale dai Caldei ai Romani; il secondo libro, che conosciamo attraverso la rielaborazione di Girolamo, riassumeva in una tabella sinottica la datazione dei principali avvenimenti secondo quattro sistemi: Olimpiadi, era giudaica, nomi dei consoli romani. Tutto l’impianto della cronologia del mondo antico lo dobbiamo essenzialmente a Eusebio e Girolamo. Girolamo, poi, rispetto ad Eusebio aggiunse, sulla scia del De viris illustribus di Svetonio, notizie biografiche essenziali sugli scrittori e personaggi di Roma, che spesso sono l’unica o la principale delle nostri fonti, specialmente per il periodo arcaico.
Proprio un De viris illustribus, ancora sulla scia di Svetonio, che racchiude 135 ritratti di scrittori cristiani (ma anche ad esempio Seneca e Giuseppe Flavio, che da apocrifi erano dati per cristiani), da san Pietro fino a Girolamo stesso, fu scritto perchè i vari ‘Celso, Porfirio, Giuliano, cani rabbiosi contro Cristo’ non accusassero più d’ignoranza e rozzezza la fede cristiana, che annoverava ottimi scrittori. Le più antiche biografie sono desunte ancora da Eusebio, mentre le più recenti, come si vede anche dal maggiore dettaglio, si giovano di fonti migliori. Ci rimangono anche le biografie di tre monaci, Paolo di Tebe, Malco del deserto calcidico, Ilarione di Palestina: scritte con uno stile semplice e fiabesco, influenzeranno l’agiografia medievale. Un discorso a parte merita il sostanzioso epistolario, 117 lettere più 26 di suoi corrispondenti, che, in forza del carattere vivace e appassionato dell’autore, è una delle raccolte più vive e colorite dell’antichità, ricca di raffinatezza non meno che di toni espressivi: è stato detto che è la raccolta di lettere più importante della latinità dopo quelle di Cicerone e di Seneca. Un esempio ne è la Epistula XXII citata più sopra, che è un po’ il suo manifesto programmatico sul celibato e l’ascesi; un altro ne è il saluto nella Epistula XLV scritta ad Ostia prima di imbarcarsi per lasciare Roma dopo la morte di Papa Damaso.
L’estrema prolificità degli autori cristiani dell’ultimo secolo di vita dell’Impero Romano d’occidente, i già citati Ambrogio, Agostino e lo stesso Girolamo, definisce una stagione di nuova, brillante e stupefacente vitalità della lingua latina, che nella prosa e nella poesia da più di due secoli stentava a trovare cantori degni della sua pulizia ed espressività, mentre si avviliva nelle epitomi e nelle copie prive di personalità e originalità, di ogni valore letterario. Girolamo “ha forgiato in questa sua traduzione una lingua stupenda, popolare e insieme raffinata, destinata a nutrire generazioni di scrittori e di poeti” (Chèruel).