Titus Livius

Notizie essenziali della vita di Tito Livio ci sono fornite, come per molti altri autori latini, da san Girolamo, secondo il quale il più grande storico romano sarebbe nato a Padova nel 59 a.C. e morto nella città natale nel 17 d.C. Non conosciamo il suo cognomen, nè altri particolari della sua vita, se si eccettua la circostanza curiosa, narrata da Plinio il giovane, di uno spagnolo che si mise in viaggio da Cadice a Roma solo per conoscerlo, testimonianza, questa, dell’ammirazione di cui lo storico godette ancora in vita.

In seguito, la storiografia latina si occuperà prevalentemente di biografie, indirizzata in questo anche dal fatto che il senatus populusque romanus saranno sempre meno protagonisti mentre sempre di più lo saranno i principes. Con poche eccezioni, prima fra tutte Tacito, gli storici latini successivi non scenderanno più sul suo stesso terreno, quello della narrazione organica della storia di Roma, delle sue origini o anche solo di singoli eventi; molti cureranno semplici epitomi dell’opera liviana.

Livio dunque visse a Roma. Non sappiamo quando ci venne nè quanto vi dimorò, per certo non partecipò alla vita pubblica. Tuttavia entrò di diritto nella cerchia di Ottaviano Augusto, nonostante il suo spirito proverbialmente conservatore e dunque repubblicano, che infatti secondo Tacito (Annales IV, 34 ) gli valse da Augusto lo scherzoso soprannome di “pompeiano”:

Titus Livius, eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudibus tulit, ut Pompeianum eum Augustus appellaret, neque id amicitiae eorum offecit.

Livio era nato in una città di provincia ma di tradizioni gloriose (si vantava di essere stata fondata dal troiano Antenore) e che secondo Cicerone (Phlippicae XII, 4) era famosa per l’attaccamento agli ideali austeri e ai valori virili. Padova stessa, pochi anni dopo la sua nascita, in seguito alla riforma amministrativa cesariana, sarebbe divenuta parte dell’Italia, destinata in breve come tutta l’Italia a ricevere la cittadinanza romana. Di qui la sua preferenza per la Roma repubblicana, preferenza non legata quindi a una scelta politica, di campo, ma piuttosto ispirata dalla consapevolezza che i valori che avevano portato il popolo romano più in alto di ogni altro popolo si erano incarnati in un’epoca. Un’epoca che era terminata, ma non da così tanto tempo da non far sognare che potessero rinverdire.

Ciò nonostante, Livio accetta il nuovo ordinamento romano, il principato, come ultima specie della missione romana nella storia, come ultima incarnazione della missione civilizzatrice di Roma, della “romanizzazione”. Allo stesso tempo, vede corrompersi i costumi aviti, li rimpiange e finisce per essere un nostalgico del passato. Tutto questo si riflette con evidenza nella sua opera monumentale, gli Ab Urbe condita libri.

L’opera era divisa in 142 libri ed andava dalle origini di Roma fino all’età contemporanea. A noi, con l’esclusione della seconda deca, sono rimasti i primi 45 libri. Forse la pratica divisione dell’opera in deche, che ha avuto tanta fortuna da quando sono ripresi gli studi liviani, era dovuta a Livio stesso, anche se egli non ne parla. Comunque, se non risalente a Livio, doveva essere stata adottata già nell’antichità, se in una lettera Papa Gelasio, alla fine del V secolo, afferma che l’origine della festa dei Lupercali è narrata da Livio nella seconda deca. Certo è che Livio stesso l’aveva strutturata come sequenza di cicli distinti, tanto da premettere una prefazione ai libri che iniziano un nuovo ciclo. Probabilmente la divisione in cicli, in base al contenuto, o in deche, in base al numero dei libri, ha rispecchiato le diverse fasi della pubblicazione. Certamente ha influenzato i copisti medievali, e questo può spiegare anche il naufragio in generale di parte così grande dell’opera e in particolare di una deca intermedia.

Dei libri rimasti, la prima deca va dalle origini di Roma fino al 293 a.C., anno della definitiva conclusione delle fuerre sannitiche. La seconda deca, perduta, doveva narrare della guerra di Pirro e della prima guerra punica, poichè la terza si apre con la figura di Annibale e si chiude con la fine della seconda guerra punica. Negli ultimi quindici libri rimasti si parla delle guerre in oriente fino al trionfo di Lucio Emilio Paolo sulla Macedonia.

Per conoscere approssimativamente il contenuto delle parti perdute possiamo valerci delle periochae, sorta di brevi sommari di ciascun libro risalenti al III o forse IV secolo d.C. mancano comunque le periochae dei libri 136 e 137, mentre per altri ne abbiamo più versioni diverse. Le periochae derivano probabilmnte da epitomi che dell’opera liviana furono fatte forse subito dopo la morte di Livio, forse ad uso scolastico, dato che ad esse Marziale. Ne abbiamo anche una, risalente anch’essa al III secolo d.C. Per noi molto interessanti sono i frammenti riportati da Seneca il retore con il racconto di Livio della morte di Cicerone e quello del suo giudizio sul più grande oratore romano.

Non è certo se gli Ab Urbe condita libri si arrestassero alla morte di Druso, nel 9 a.C., o alla sconfitta di Varo nella selva di Teutoburgo, nel 9 d.C. La divisione in deche suggerirebbe che fossero attesi altri libri, almeno fino a 150. Non è perciò da escludersi che l’opera sia stata interrotta dalla morte di Livio, e che il suo intento fosse di giungere ad un evento particolare come ad esempio la morte di Augusto.

In generale, gli storici latini non avevano il culto della verità e dell’oggettività che ha la scienza storica moderna. Si ricordi che la storia latina nasce dalle registrazioni dei pontefici, ha origini sacrali. Perciò, i Romani, a differenza dei Greci, non hanno mai sospettato che lo storico avesse il dovere di informarsi esattamente su particolari come la tecnica di una battaglia, di accedere direttamente ai documenti citati o di giudicare l’attendibilità di una fonte. La storia, per i Romani, è sempre una forma letteraria, che usa la prosa abbellita di elementi provenienti dalla poesia come dalla retorica. In effetti, nella narrazione di Livio si riscontrano elementi differenti dalle descrizioni di altre fonti, ad esempio Polibio, e non è giudicato, in generale, completamente attendibile. Analogamente, il senso critico nella scelta delle fonti lascia a desiderare: sembra che usi solo quelle che gli sono più accessibili, anche quando integrarle e confrontarle non gli sarebbe difficile, e che ne giudichi il valore solo in base all’antichità; addirittura, quando ha a disposizione diverse fonti discordanti, Livio le pone sullo stesso piano, riportandole una di seguito all’altra, attribuendo lo stesso valore alla tradizione orale come al documento scritto. È caratteristico che, parlando nel corso della prima guerra punica del partenio propiziatorio a Giunone che il senato commissionò a Livio Andronico, non lo citi, e non per altro, ma perchè non è soddisfacente dal punto di vista artistico: anche il documento storico ha funzione letteraria.

Certo Livio è uno storico onesto, che vuole giudicare i fatti con imparzialità. Ma questa imparzialità viene meno quando si trovano contrapposti Romani e stranieri. Perchè i Romani hanno sempre ragione, hanno sempre una giustificazione, anche per gli eventi meno onorevoli, e sempre una spiegazione, anche per gli infortuni più umilianti. Per citare liberamente Gibbon, i Romani, secondo Tito Livio, hanno conquistato il mondo per difendersi. Tuttavia, Livio è siceramente onesto, e non cade nelle alterazioni e invenzioni di stampo apologistico e millantatorio in cui erano incorsi gli antichi annalisti. Le inesattezze, che ci sono, sono da considerarsi veniali.

Per Livio, come per tutti i Romani, esiste storicamente un mandato soprannaturale che è toccato a Roma e al suo popolo. Questo è il fondamento e la ragione del racconto storico. Il singolo, anche il generale più vittorioso e l’eroe più fulgido, cede di fronte al mos maiorum, al formidabile costume romano, alle tradizioni avite. Come molti moralisti, anche Livio assume il tradizionale atteggiamento pessimistico che vede nell’età presente la corruzione e le addebita ogni disgrazia, prima fra tutte il lungo, sanguinoso e doloroso periodo delle guerre civili. Tuttavia, se è vero che anche a Roma è giunta la corruzione, comunque nessuno stato può offrire esempi più insigni di grandezza morale e di sanità di costumi.

Livio dà una volta il nome di Annales alla sua opera, e il metodo che egli segue è formalmente quello annalistico: gli avvenimenti sono narrati ordinatamente, anno per anno, consoli per consoli. Anche le sue fonti sono in gran parte gli annalisti, all’inizio di ogni anno egli riassume in un arido elenco le notizie del periodo: prodigi, opere pubbliche, trionfi, fondazione di colonie, avvenimenti religiosi. Tuttavia, Livio comprende che con Augusto è giunto a compimento tutto un periodo storico, una lunga stagione, durata sette secoli, che dovevano dare compimento ai fati della Città Eterna. E che se ne apre un altro, quello dell’esercizio del mandato di Roma, dell’opera civilizzatrice i cui effetti durano ancor oggi. Il suo è il tributo artistico alla civiltà.

La prefazione degli Ab Urbe condita libri è particolarmente illuminante:

Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res populi Romani perscripserim nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum volgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt. Utcumque erit, iuvabit tamen rerum gestarum memoriae principis terrarum populi pro virili parte et ipsum consuluisse; et si in tanta scriptorum turba mea fama in obscuro sit, nobilitate ac magnitudine eorum me qui nomini officient meo consoler. Res est praeterea et immensi operis, ut quae supra septingentesimum annum repetatur et quae ab exiguis profecta initiis eo creverit ut iam magnitudine laboret sua; et legentium plerisque haud dubito quin primae origines proximaque originibus minus praebitura voluptatis sint, festinantibus ad haec nova quibus iam pridem praevalentis populi vires se ipsae conficiunt: ego contra hoc quoque laboris praemium petam, ut me a conspectu malorum quae nostra tot per annos vidit aetas, tantisper certe dum prisca [tota] illa mente repeto, auertam, omnis expers curae quae scribentis animum, etsi non flectere a uero, sollicitum tamen efficere posset. Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat; et si cui populo licere oportet consecrare origines suas et ad deos referre auctores, ea belli gloria est populo Romano ut cum suum conditorisque sui parentem Martem potissimum ferat, tam et hoc gentes humanae patiantur aequo animo quam imperium patiuntur. Sed haec et his similia utcumque animaduersa aut existimata erunt haud in magno equidem ponam discrimine: ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint, per quos uiros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit; labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora quibus nec uitia nostra nec remedia pati possumus perventum est. Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites. Ceterum aut me amor negotii suscepti fallit, aut nulla unquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit, nec in quam [civitatem] tam serae avaritia luxuriaque immigraverint, nec ubi tantus ac tam diu paupertati ac parsimoniae honos fuerit. Adeo quanto rerum minus, tanto minus cupiditatis erat: nuper diuitiae auaritiam et abundantes voluptates desiderium per luxum atque libidinem pereundi perdendique omnia invexere. Sed querellae, ne tum quidem gratae futurae cum forsitan necessariae erunt, ab initio certe tantae ordiendae rei absint: cum bonis potius ominibus votisque et precationibus deorum dearumque, si, ut poetis, nobis quoque mos esset, libentius inciperemus, ut orsis tantum operis successus prosperos darent.

Alla corte di Augusto, nonostante l’orientamento politico personale, Livio dovette guadagnare via via stima, ammirazione, prestigio, se è vero l’episodio ricordato da Plinio il giovane e il fatto, narrato da Svetonio, che il futuro imperatore Claudio cominciò a scrivere storie solo per esortazione di lui. Nella nostalgia del passato che lo caratterizza non dovette perdere neppure l’accento, se Quintiliano ci riporta questo giudizio di Asinio Pollione:

Et in Tito Livio, mirae facundiae viro, putat inesse Pollio Asinius quandam Patavinitatem.

L’accusa di “patavinità”, forse più in generale di provincialismo, veniva dall’orecchio esigente di Asinio Pollione, filosofo romano di impostazione atticista, arcaizzante e raffinato, mentre Livio è classico e talvolta ruspante; tuttavia non guastò la sua fama e la sua autorità di storico che si mantennero intatte per tutta l’antichità. Tutti gli storici posteriori, sia greci che romani, che scrissero di Roma sentirono il suo fascino e si servirono di lui. Quintiliano loda così la nitida narrazione di Livio:

Nec indignetur sibi Herodotus aequari Titum Livium, cum in narrando mirae iucunditatis clarissimique candoris, tum in contionibus supra quam enarrari potest eloquentem: ita quae dicuntur omnia cum rebus tum personis accommodata sunt: adfectus quidem praecipueque eos, qui sunt dulciores, ut parcissime dicam, nemo historicorum accommodavit magis.

E Giustino, riguardo l’uso del discorso diretto, aggiunge:

Pompeius Trogus in Livio et in Sallustio reprehendit quod contiones directas pro sua oratione operi suo inserendo historiae modum excesserint.

La fortuna di Livio si attenua nel Medio Evo, quando non era la Roma repubblicana ad attirare, bensì il grande impero romanizzatore che aveva aperto la via al Cristianesmo. Gli studi liviani riprendono con l’Umanesimo e il Rinascimento.

Di Livio abbiamo anche notizia di opere filosofiche. Seneca lo pone dopo Cicerone e Asinio Pollione fra gli autori romani di filosofia, ma purtroppo non ci rimane nulla. Così come perduta è anche quella Epistula ad filium di cui ci parla Quintiliano.