Publius (vel Gaius) Cornelius Tacitus

Scarne notizie abbiamo del più grande storico dell’età imperiale, Publio (o Gaio) Cornelio Tacito, e per lo più labili o incerte perchè ricavate indirettamente interpretando passi delle sue opere o sfruttando i riferimenti presenti in altri autori, soprattutto l’amico Plinio il giovane. Riguardo il praenomen l’indeterminazione, benché siano state avanzate altre proposte, sembra confinata a due possibilità: Gaio è tramandato da Sidonio Apollinare (Epistulae IV, 22) ed è attestato in due manoscritti, però dei meno importanti; Publio invece compare in uno dei manoscritti maggiori e riscuore solitamente le maggiori simpatie. Del tutto ignoti sono invece luogo e data di nascita. In una lettera indirizzata proprio a Tacito, Plinio il giovane afferma che essi avevano circa la stessa età, lasciando intendere di essere alcuni anni minore dello storico, che, già celebre oratore, egli erse adulescentulus a suo modello (Epistulae VII, 20):

[…] Erit rarum et insigne, duos homines aetate dignitate propemodum aequales, non nullius in litteris nominis – cogor enim de te quoque parcius dicere, quia de me simul dico -, alterum alterius studia fovisse. Equidem adulescentulus, cum iam tu fama gloriaque floreres, te sequi, tibi longo sed proximus intervallo et esse et haberi concupiscebam. Et erant multa clarissima ingenia; sed tu mihi – ita similitudo naturae ferebat – maxime imitabilis, maxime imitandus videbaris. […]

Poichè Plinio è nato nel 61 o nel 62 d.C. se ne ricava che Tacito sarebbe nato attorno al 55 d.C. o poco dopo. Per quanto riguarda il luogo di nascita, un’ipotesi poco accreditata lo farebbe nativo di Terni: secondo il biografo della Historia Augusta Flavio Vopisco l’imperatore del III secolo Claudio Tacito, nativo di Interamna, sosteneva di discendere dalla famiglia dello storico. Un’altra ipotesi, generalmente ritenuta più attendibile – ma anche assai più vaga -, lo fa provinciale della Gallia, forse solo di nascita, oppure dell’Italia settentrionale. Alcuni indizi sostengono questa ipotesi: il cognomen Tacito sembra fosse diffuso nella Gallia Cisalpina e nella Narbonense; e Plinio il vecchio (Naturalis historia VII, 76) attesta di aver conosciuto un Cornelio Tacito, cavaliere e procuratore nella Gallia Belgica, il cui figlio fu un esempio di invecchiamento precoce anormale. L’amicizia tra Plinio il giovane e Tacito – che potrebbe avvalorare di per sé l’origine cisalpina di quest’ultimo e l’equivalenza della condizione sociale – rende suggestiva la congettura – poiché siamo nel regno delle congetture – che questo procuratore fosse il padre o forse lo zio dello storico, assegnando con ciò a Tacito una famiglia agiata di ceto equestre. Ancora le parole di Plinio il giovane si incaricano di confermare secondo ogni probabilità la condizione equestre, ma al momento di sciogliere l’interrogativo sull’origine italica o provinciale lasciano beffardamente in sospeso la questione (Epistulae IX, 23).

Tacito fu sin da giovane a Roma, dove visse quasi sempre, per ricevervi la migliore educazione tradizionale; come Plinio fu forse allievo di Quintiliano, mentre l’autore del Dialogus de oratoribus (da identificarsi come vedremo con Tacito) afferma di aver avuto come maestri di eloquenza i celebri Marco Apro e Giulio Secondo. Il talento lo fece diventare uno degli avvocati più brillanti e richiesti del suo tempo. Poco più che ventenne, nel 77 o 78 d.C. sposò la figlia di Giulio Agricola, il conquistatore della Britannia. Nulla si sa della vita coniugale e familiare, ma Agricola fu certamente il suo mentore nella carriera politica, anch’essa peraltro in parte misteriosa. Tacito stesso afferma (Historiae I, 1, vedi infra) che essa si svolse sotto i tre Flavi: ebbe i primi incarichi con Vespasiano, ma fu con Tito che iniziò il cursus honorum con la questura nell’81 o nell’82 d.C. e con Domiziano ottenne la pretura nell’88 d.C. Negli anni successivi fu propretore o forse legato in una della province settentrionali dell’impero; in quell’occasione potrebbe aver fatto conoscenza diretta dei Germani, esperienza che sembra essere una delle fonti della sua Germania e forse ispiratrice della sua simpatia per le genti incorrotte dal lusso e amanti della libertà che resistevano al potere romano. Quando nel 93 d.C. tornò a Roma, il suocero Agricola, per il quale egli nutrì stima, ammirazione e rispetto profondissimi, era morto senza che potesse pronunciare in suo onore l’orazione funebre ufficiale, perchè assente da Roma e forse per prudenza, dopo i contrasti con Domiziano che avevano segnato la fine dell’avventura di Agricola in Britannia. Erano quelli gli anni più duri del regime del terrore instaurato progressivamente da quel principe sospettoso e geloso che fu Domiziano e Tacito si chiuse, secondo il suo carattere, in un atteggiamento prudente e riservato, non di aperta opposizione e neppure di approvazione: riuscì così a superare indenne quel periodo, ma gliene rimase un senso di profonda amarezza e di vergogna del proprio atteggiamento (manifestati con commossa partecipazione in Agricola 45, vedi infra), vera sorgente dell’odio per la tirannide e della strisciante sfiducia verso l’istituzione del principato che manifesterà nelle sue opere.

Succeduto Nerva a Domiziano nel 96, Tacito fu nel 97 d.C. consul suffectus, cioè sostituì nella carica Virginio Rufo, che era morto durante l’anno. Virginio Rufo era stato un vero esempio di legalità e di devozione allo stato: aveva domato una rivolta contro Nerone e aveva rifiutato per tre volte l’acclamazione a imperatore da parte dei soldati, incarnando in certo modo l’ideale tacitiano dell’eroe modesto e di boni mores. Di lui Tacito compose e pronunciò l’elogio funebre, quell’orazione ufficiale che non aveva potuto pronunciare per il suocero Agricola. Forse per questo, e per la stima e l’affetto che gli aveva portato, proprio con una biografia del suocero, l’Agricola, Tacito iniziò l’anno dopo la sua produzione letteraria, dopo il silenzio impostogli dal regime di Domiziano. A distanza di pochi mesi, sempre nel 98, pubblicò la Germania. Nel gennaio del 100 d.C. si concluse con la condanna all’esilio un processo di enorme risonanza contro il proconsole Mario Prisco, accusato dai provinciali d’Africa di corruzione. L’accusa fu sostenuta da Tacito e Plinio, il quale così (Epistulae II, 11) loda il discorso pronunciato dall’amico in replica alla difesa del famoso patrono Salvio Liberale:

[…] Postero die dixit pro Mario Salvius Liberalis, vir subtilis dispositus acer disertus; in illa vero causa omnes artes suas protulit. Respondit Cornelius Tacitus eloquentissime et, quod eximium orationi eius inest, semnòs. […]

Fu forse quello l’apice della sua carriera forense, che sembra in seguito abbandonò in favore dell’attività letteraria. Al principio del II secolo risalirebbe il Dialogus de oratoribus – forse il contributo del principe del foro a un genere tecnico sempre attuale presso i Romani – poi si dedicò alla composizione delle opere storiche: nel corso del primo decennio del secolo avrebbero visto la luce le Historiae, qualche anno più tardi gli Annales. L’ultima notizia relativa alla vita pubblica di Tacito è desunta da una iscrizione in greco ritrovata a Mylasa in Caria nel 1890, oggi perduta, che prova che egli fu proconsole d’Asia; la data è incerta, ma pare doversi collocare nel 112 o 113 d.C. Un passo degli Annales (II, 61: […] Exin ventum Elephantinem ac Syenem, claustra olim Romani imperii, quod nunc Rubrum ad mare patescit.) sembra dimostrare che Tacito scriveva quando il dominio romano era stato spinto da Traiano fino all’Eufrate. Riguardo la morte il terminus post quem è quindi da porsi nel 115-116 d.C. Una digressione sull’araba fenice in Annales VI, 28 è stata collegata senza elementi certi con il regno di Adriano – iniziato nel 117 d.C. – poichè questo principe aveva fatto coniare in memoria di Traiano monete con l’emblema del mitico uccello, che simboleggiava l’eternità dell’impero. Comunemente si assume che Tacito sia morto già regnante Adriano, attorno al 120-125 d.C.

Le opere: Dialogus de oratoribus, Agricola, Germania

Nulla possediamo della produzione oratoria di Tacito, se non l’ammirazione degli antichi. In tutto, ci sono giunte solo quattro opere di incontestata attribuzione: Agricola vel De vita et moribus Iulii Agricolae, Germania vel De origine et situ Germanorum, Historiae e Annales sive Ab excessu divi Augusti libri; queste ultime due, le più importanti, sono però assai incomplete. A esse si aggiunge il Dialogus de oratoribus, un trattato teorico sull’oratoria costantemente tramandato nei codici assieme all’Agricola e alla Germania e generalmente attribuito a Tacito, ma variamente contestato fin dal Rinascimento.

I dubbi nascono prevalentemente dalle non trascurabili divergenze teoriche tra quanto esposto nel Dialogus e le altre opere – tra le quali peraltro non figura nessuna orazione – e dalle evidenti differenze stilistiche. Tra le due tendenze allora in conflitto, il classicismo ciceroniano e lo stile di origine asiatica caratterizzato dal periodare breve e asimmetrico, di cui un esponente è Seneca, Tacito è chiaramente influenzato dal secondo mentre l’ideale retorico dell’autore del Dialogus è Cicerone. Anche lo stile elaborato ma chiaro ed esente dalla pesantezza caratteristica della prosa tacitiana è assai più vicino allo stile classico ciceroniano che a quello delle opere storiche. D’altra parte, l’analisi lessicale e testuale ha dimostrato che, accanto alle differenze di stile, tra il Dialogus e le altre opere vi sono anche rimarchevoli somiglianze. Inoltre Plinio il giovane, scrivendo a Tacito, in Epistulae IX, 10 accenna, attribuendogliela, all’opinione che per comporre poesie ci si debba ritirare inter nemora et lucos, espressione che si incontra in Dialogus 9. L’attribuzione tacitiana è perciò comunemente accettata e si tende semmai a spiegare le divergenze osservate. Opinione accreditata è che la specificità del Dialogus sia da attribuirsi alla strapotente influenza del modello ciceroniano e nel genere letterario in questione, quello dialogico, e nell’argomento, l’eloquenza; influenza alla quale non sarebbe stato possibile sottrarsi completamente. E si deve aggiungere che l’interesse dell’autore è più nelle ragioni politiche della decadenza dell’eloquenza – che sono sviluppate secondo la linea del pensiero tacitiano, quale risulta ad esempio da Historiae I, 1 riportato infra – che nella trattazione teorica. Questa ipotesi sembra psicologicamente ben più convincente dell’altra: che il dialogo sia stato scritto, se non pubblicato, all’inizio della carriera – ma non prima del 75, anno in cui si immagina sia avvenuto il dialogo – molti anni prima delle altre opere, e che nel tempo Tacito avesse cambiato le proprie preferenze stilistiche; ipotesi che cozza, tra l’altro, con la consuetudine, sempre rispettata, di non far parlare nei dialoghi personaggi ancora viventi, mentre il protagonista, Curiazio Materno, sembra sia stato condannato a morte nel 91 d.C. come oppositore di Domiziano. Generalmente si ritiene perciò che il Dialogus sia stato scritto intorno al 100-102 d.C. coerentemente con il periodo di pubblicazione delle altre opere.

Il Dialogus de oratoribus è una conversazione cui l’autore afferma di aver assistito molto tempo prima in casa di Curiazio Materno tra lo stesso Materno, Mario Apro e Giulio Secondo – che egli annota essere stati suoi istitutori – e, intervenuto in un secondo tempo, Vipstano Messalla. L’oggetto è un confronto tra l’eloquenza e la poesia mentre, dopo l’arrivo di Messalla, il discorso si sposta sulla decadenza dell’eloquenza contemporanea rispetto ai fulgidi esempi di un passato non lontano. La conclusione del Dialogus introduce al pessimismo fatalista e conciliatore di Tacito, il quale trova in definitiva sempre preferibile rassegnarsi al corso degli eventi – il ruolo del fato sarà sempre più ampio nelle Historiae e negli Annales. Nel caso dell’eloquenza, secondo Materno che è il portavoce del pensiero dell’autore, essa può trovare terreno fecondo e svilupparsi non in una società ordinata, ma nel fervore delle passioni di parte. Tuttavia le passioni avevano scatenato le guerre civili, e l’unica via d’uscita alle stragi era stato il principato: se non si può avere insieme pace e progresso delle lettere, conclude Materno, meglio godere dei beni che può offrire il proprio tempo piuttosto che sminuire il tempo altrui (Dialogus de oratoribus 41):

[41] […] Credite, optimi et in quantum opus est disertissimi viri, si aut vos prioribus saeculis aut illi, quos miramur, his nati essent, ac deus aliquis vitas ac [vestra] tempora repente mutasset, nec vobis summa illa laus et gloria in eloquentia neque illis modus et temperamentum defuisset: nunc, quoniam nemo eodem tempore assequi potest magnam famam et magnam quietem, bono saeculi sui quisque citra obtrectationem alterius utatur.

Gli altri quattro titoli tacitiani sono tutti relativi a opere storiche, tutte riflessioni, sia pure da diverse angolazioni, sullo stato dell’impero e sul ruolo del principato: frutto dell’occasione l’Agricola, una celebrazione del suocero, penultimo generale conquistatore di Roma – l’ultimo sarà Traiano -, che diventa un atto d’accusa contro lo spregevole Domiziano; parto dello specifico interesse la Germania, un excursus etnografico che non perde di vista il confronto tra le due rive del Reno e tradisce il disagio per la vana e corrotta lussuria della società romana cui è attribuita la perdita della libertà e per cui è preconizzata la fine dell’impero; figlia della tradizione annalistica romana e del bisogno di analisi propriamente storica la coppia formata da Annales e Historiae cui è affidata l’esposizione ordinata dei fatti successivi alla morte di Augusto, eventi che non avevano ancora trovato sistemazione ad opera di alcun autore ma nei quali Tacito vede fatalisticamente la chiave di lettura del destino di Roma, un destino immanente e tragico. E tutte e quattro le opere riflettono il punto di forza del pensiero e dello scritto storico tacitiano: obiettività di analisi, nessuna concessione alle passioni personali. Tacito sa bene che le orecchie dell’uomo prestano troppo spesso credito alla calunnia o all’adulazione e che la ricerca della verità e l’equanimità tropo spesso difettano allo storico. Intimo suo bisogno è invece risalire alle cause dei fatti e ristabilire la responsabilità personale degli eventi; alla quale tuttavia fa da strano contraltare la forza del fato, l’invadenza del caso negli avvenimenti. L’impostazione stoica, secondo la quale le scelte di vita determinano i fatti, è in Tacito sempre consapevole delle oscillazioni che il gioco del caso impone agli eventi.

L’Agricola, composto nel 98 d.C. in memoria del suocero, pur ispirata al tema degli exitus clarorum virorum, non è una vera biografia poichè non racconta tutta la vita di Giulio Agricola; piuttosto ne mette in luce le virtù attraverso la sua impresa militare più importante, la conquista della Britannia. È quindi soprattutto la narrazione di un episodio illustre della storia dell’impero con un occhio privilegiato sul protagonista. Egli impersona in Agricola il suo ideale etico, che non è l’oppositore ad oltranza al tiranno, glorioso ma sterile, bensì il saggio che sa mantenere intatta la sua dignità senza sottomettersi al principe, non lo appoggia nè si vota all’opposizione. La morte di Agricola rimane in ombra nel libello, egli muore silenziosamente, stoicamente, perchè la cosa essenziale è che egli, vir virtuosus, sia riuscito a passare in mezzo a tempi di corruzione senza piegarsi e senza subire un inutile martirio. Una parte notevole hanno le digressioni etniche e geografiche brevi e lunghe, interesse specifico e costante di Tacito che si manfesterà pienamente di lì a poco nella Germania. Ma soprattutto ha grande rilievo la critica contro Domiziano, il cui carattere sospettoso aveva provocato l’instaurazione di un regime di polizia e perpetrato molte ingiustizie e crudeltà. La polemica si inserisce con naturalezza nel contesto, poichè Giulio Agricola fu una delle vittime dell’invidia dell’imperatore (Agricola 39-40):

[39] Hunc rerum cursum, quamquam nulla verborum iactantia epistulis Agricolae auctum, ut erat Domitiano moris, fronte laetus, pectore anxius excepit. Inerat conscientia derisui fuisse nuper falsum e Germania triumphum, emptis per commercia quorum habitus et crines in captivorum speciem formarentur: at nunc veram magnamque victoriam tot milibus hostium caesis ingenti fama celebrari. Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli: frustra studia fori et civilium artium decus in silentium acta, si militarem gloriam alius occuparet; cetera utcumque facilius dissimulari, ducis boni imperatoriam virtutem esse. Talibus curis exercitus, quodque saevae cogitationis indicium erat, secreto suo satiatus, optimum in praesentia statuit reponere odium, donec impetus famae et favor exercitus languesceret; nam etiam tum Agricola Britanniam obtinebat.

[40] Igitur triumphalia ornamenta et illustris statuae honorem et quidquid pro triumpho datur, multo verborum honore cumulata, decerni in senatu iubet addique insuper opinionem, Syriam provinciam Agricolae destinari, vacuam tum mortem Atili Rufi consularis et maioribus reservatam. Credidere plerique libertum ex secretioribus ministeriis missum ad Agricolam codicillos, quibus ei Syria dabatur, tulisse cum eo praecepto ut, si in Britannia foret, traderentur; eumque libertum in ipso freto Oceani obvium Agricolae, ne appellato quidem eo ad Domitianum remeasse, sive verum istud, sive ex ingenio principis fictum ac compositum est. Tradiderat interim Agricola successori suo provinciam quietam tutamque. Ac ne notabilis celebritate et frequentia occurrentium introitus esset, vitato amicorum officio noctu in urbem, noctu in Palatium, ita ut praeceptum erat, venit; exceptusque brevi osculo et nullo sermone turbae servientium inmixtus est. Ceterum uti militare nomen, grave inter otiosos, aliis virtutibus temperaret, tranquillitatem atque otium penitus hausit, cultu modicus, sermone facilis, uno aut altero amicorum comitatus, adeo ut plerique, quibus magnos viros per ambitionem aestimare mos est, viso aspectoque Agricola quaererent famam, pauci interpretarentur.

Ma Agricola fu fortunato soprattutto perché non visse abbastanza per vedere l’estrema degenerazione del regime imperiale (Agricola 44-45):

[44] Natus erat Agricola Gaio Caesare tertium consule idibus Iuniis: excessit quarto et quinquagesimo anno, decimum kalendas Septembris Collega Priscinoque consulibus. Quod si habitum quoque eius posteri noscere velint, decentior quam sublimior fuit; nihil impetus in vultu: gratia oris supererat. Bonum virum facile crederes, magnum libenter. Et ipse quidem, quamquam medio in spatio integrae aetatis ereptus, quantum ad gloriam, longissimum aevum peregit. Quippe et vera bona, quae in virtutibus sita sunt, impleverat, et consulari ac triumphalibus ornamentis praedito quid aliud adstruere fortuna poterat? Opibus nimiis non gaudebat, speciosae [non] contigerant. Filia atque uxore superstitibus potest videri etiam beatus incolumi dignitate, florente fama, salvis adfinitatibus et amicitiis futura effugisse. Nam sicut ei [non licuit] durare in hanc beatissimi saeculi lucem ac principem Traianum videre, quod augurio votisque apud nostras auris ominabatur, ita festinatae mortis grande solacium tulit evasisse postremum illud tempus, quo Domitianus non iam per intervalla ac spiramenta temporum, sed continuo et velut uno ictu rem publicam exhausit.

[45] Non vidit Agricola obsessam curiam et clausum armis senatum et eadem strage tot consularium caedes, tot nobilissimarum feminarum exilia et fugas. Una adhuc victoria Carus Mettius censebatur, et intra Albanam arcem sententia Messalini strepebat, et Massa Baebius iam tum reus erat: mox nostrae duxere Helvidium in carcerem manus; nos Maurici Rusticique visus foedavit; nos innocenti sanguine Senecio perfudit. Nero tamen subtraxit oculos suos iussitque scelera, non spectavit: praecipua sub Domitiano miseriarum pars erat videre et aspici, cum suspiria nostra subscriberentur, cum denotandis tot hominum palloribus sufficeret saevus ille vultus et rubor, quo se contra pudorem muniebat. Tu vero felix, Agricola, non vitae tantum claritate, sed etiam opportunitate mortis. Ut perhibent qui interfuere novissimis sermonibus tuis, constans et libens fatum excepisti, tamquam pro virili portione innocentiam principi donares. Sed mihi filiaeque eius praeter acerbitatem parentis erepti auget maestitiam, quod adsidere valetudini, fovere deficientem, satiari vultu complexuque non contigit. Excepissemus certe mandata vocesque, quas penitus animo figeremus. Noster hic dolor, nostrum vulnus, nobis tam longae absentiae condicione ante quadriennium amissus est. Omnia sine dubio, optime parentum, adsidente amantissima uxore superfuere honori tuo: paucioribus tamen lacrimis comploratus es, et novissima in luce desideravere aliquid oculi tui.

La martellante critica nei confronti di Domiziano è allo stesso tempo un esempio dello sforzo costante di Tacito di mantenere equilibrato il proprio giudizio al di là delle simpatie e delle calunnie: l’imperatore è inetto e crudele e ha posto scientemente fine alla carriera di Agricola, uomo retto a capace, ma se la testimonianza non è certa gli è sempre concesso il beneficio del dubbio. Analogo intento di rappresentare i fatti da un punto di vista non partigiano si coglie anche nelle celebri parole che Tacito mette in bocca al comandante caledone Calgaco prima della battaglia del Mons Graupius e che sono diventate – probabilmente al di là delle intenzioni dell’autore, nonostante la sua costante ammirazione per l’indomito spirito libero dei popoli primitivi – uno dei motivi della moderna propaganda contro gli imperialismi di ogni tempo (Agricola 30-32):

[30] “Quotiens causas belli et necessitatem nostram intueor, magnus mihi animus est hodiernum diem consensumque vestrum initium libertatis toti Britanniae fore: nam et universi co[i]stis et servitutis expertes, et nullae ultra terrae ac ne mare quidem securum inminente nobis classe Romana. Ita proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem etiam ignavis tutissima sunt. Priores pugnae, quibus adversus Romanos varia fortuna certatum est, spem ac subsidium in nostris manibus habebant, quia nobilissimi totius Britanniae eoque in ipsis penetralibus siti nec ulla servientium litora aspicientes, oculos quoque a contactu dominationis inviolatos habebamus. Nos terrarum ac libertatis extremos recessus ipse ac sinus famae in hunc diem defendit: nunc terminus Britanniae patet, atque omne ignotum pro magnifico est; sed nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et infestiores Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.

[31] Liberos cuique ac propinquos suos natura carissimos esse voluit: hi per dilectus alibi servituri auferuntur; coniuges sororesque etiam si hostilem libidinem effugerunt, nomine amicorum atque hospitum polluuntur. Bona fortunaeque in tributum, ager atque annus in frumentum, corpora ipsa ac manus silvis ac paludibus emuniendis inter verbera et contumelias conteruntur. Nata servituti mancipia semel veneunt, atque ultro a dominis aluntur: Britannia servitutem suam cotidie emit, cotidie pascit. Ac sicut in familia recentissimus quisque servorum etiam conservis ludibrio est, sic in hoc orbis terrarum vetere famulatu novi nos et viles in excidium petimur; neque enim arva nobis aut metalla aut portus sunt, quibus exercendis reservemur. virtus porro ac ferocia subiectorum ingrata imperantibus; et longinquitas ac secretum ipsum quo tutius, eo suspectius. Ita sublata spe veniae tandem sumite animum, tam quibus salus quam quibus gloria carissima est. Brigantes femina duce exurere coloniam, expugnare castra, ac nisi felicitas in socordiam vertisset, exuere iugum potuere: nos integri et indomiti et in libertatem, non in paenitentiam [bel]laturi; primo statim congressu ostendamus, quos sibi Caledonia viros seposuerit.

[32] An eandem Romanis in bello virtutem quam in pace lasciviam adesse creditis? Nostris illi dissensionibus ac discordiis clari vitia hostium in gloriam exercitus sui vertunt; quem contractum ex diversissimis gentibus ut secundae res tenent, ita adversae dissolvent: nisi si Gallos et Germanos et (pudet dictu) Britannorum plerosque, licet dominationi alienae sanguinem commodent, diutius tamen hostis quam servos, fide et adfectu teneri putatis. Metus ac terror sunt infirma vincla caritatis; quae ubi removeris, qui timere desierint, odisse incipient. Omnia victoriae incitamenta pro nobis sunt: nullae Romanos coniuges accendunt, nulli parentes fugam exprobraturi sunt; aut nulla plerisque patria aut alia est. Paucos numero, trepidos ignorantia, caelum ipsum ac mare et silvas, ignota omnia circumspectantis, clausos quodam modo ac vinctos di nobis tradiderunt. Ne terreat vanus aspectus et auri fulgor atque argenti, quod neque tegit neque vulnerat. In ipsa hostium acie inveniemus nostras manus: adgnoscent Britanni suam causam, recordabuntur Galli priorem libertatem, tam deserent illos ceteri Germani quam nuper Usipi reliquerunt. Nec quicquam ultra formidinis: vacua castella, senum coloniae, inter male parentis et iniuste imperantis aegra municipia et discordantia. Hic dux, hic exercitus: ibi tributa et metalla et ceterae servientium poenae, quas in aeternum perferre aut statim ulcisci in hoc campo est. Proinde ituri in aciem et maiores vestros et posteros cogitate.”

Tra le fonti dell’Agricola, oltre la vasta letteratura degli exitus e contributi occasionali come forse l’influenza di Cesare sulla descrizione della Britannia, hanno un posto d’onore i ricordi e i racconti di prima mano di Agricola stesso, probabilmente anche raccolte di appunti, e in più punti Tacito può richiamare esplicitamente la tradizione orale da lui raccolta.

È generalmente accettato che la pubblicazione della Germania sia posteriore di pochi mesi all’Agricola, poichè in Germania 37 – che riportiamo perché vi si concentrano tutta l’ammirazione per le stirpi germaniche e tutta la preoccupazione per il destino dell’impero, i temi e quasi le fondamenta su cui si sviluppa la narrazione – si parla del secondo consolato di Traiano, che è appunto del 98, come se fosse contemporaneo:

[37] Eundem Germaniae sinum proximi Oceano Cimbri tenent, parva nunc civitas, sed gloria ingens. Veterisque famae lata vestigia manent, utraque ripa castra ac spatia, quorum ambitu nunc quoque metiaris molem manusque gentis et tam magni exitus fidem. Sescentesimum et quadragesimum annum urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma, Caecilio Metello et Papirio Carbone consulibus. Ex quo si ad alterum imperatoris Traiani consulatum computemus, ducenti ferme et decem anni colliguntur: tam diu Germania vincitur. Medio tam longi aevi spatio multa in vicem damna. Non Samnis, non Poeni, non Hispaniae Galliaeve, ne Parthi quidem saepius admonuere: quippe regno Arsacis acrior est Germanorum libertas. Quid enim aliud nobis quam caedem Crassi, amisso et ipse Pacoro, infra Ventidium deiectus Oriens obiecerit? At Germani Carbone et Cassio et Scauro Aurelio et Servilio Caepione Gnaeoque Mallio fusis vel captis quinque simul consularis exercitus populo Romano, Varum trisque cum eo legiones etiam Caesari abstulerunt; nec impune C. Marius in Italia, divus Iulius in Gallia, Drusus ac Nero et Germanicus in suis eos sedibus perculerunt. Mox ingentes Gai Caesaris minae in ludibrium versae. Inde otium, donec occasione discordiae nostrae et civilium armorum expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectavere; ac rursus inde pulsi proximis temporibus triumphati magis quam victi sunt.

L’opera è di carattere prettamente etnografico e geografico: nella prima parte si parla della regione, dei suoi prodotti, della origine dei Germani, della loro vita, degli aspetti sociali e religiosi; nella seconda parte si passano in rassegna i diversi popoli: Galli, Elvezi, Cimbri, Suebi e molti altri, cominciando dai più vicini per finire con quelli stanziati sul Baltico. Tutta l’opera è pervasa di un intento etico, la romantica esaltazione delle civiltà primitive non ancora corrotte dai vizi che pervadono la società decadente. Il riferimento non esplicito ma chiaro è alla società romana, cui i popoli germanici sono presentati come puri e incorrotti, anche se ingenui, in una sorta di nostalgico confronto delle loro rozze abitudini con il mos maiorum, o, in senso più ampio e forse meglio, dei boni mores. L’occasione per la pubblicazione fu forse offerta dall’attualità politica, poiché Traiano, che era stato da poco adottato e associato nel comando da Nerva, avrebbe rimandato il suo ingresso in Roma fino all’anno seguente per mettere ordine nel confine con la Germania. Tuttavia anche questo elemento, se pure gli fu presente, è subordinato come l’interesse scientifico-etnografico al supremo interesse scientifico-storico dell’autore: egli intende chiarire all’opinione pubblica romana (vedi supra) che in oltre due secoli le armi romane non avevano potuto aver ragione dei Germani; che costoro, benché rozzi, erano da riguardarsi come il più pericoloso nemico del popolo romano, assai più dei raffinati Parti; che infine questo avveniva perché quei popoli rozzi e bellicosi non erano ancora tanto guastati dal lusso e dalla corruzione da aver perso l’amore per la libertà, come era invece accaduto ai Romani. I presagi tratti da questa disamina riguardo il futuro di Roma sono foschi e – pur valutando in modo opportuno il già notato temperamento pessimista di Tacito, che, come tutti i pessimisti, egli avrebbe chiamato realista – non si può non osservare che la prospettiva storica moderna ha permesso di apprezzare l’importanza negativa che ebbe la scelta di non proseguire l’espansione verso l’Europa orientale dopo il tentativo di Augusto di portare il confine all’Elba, scelta che fu uno degli elementi che rese l’impero difficilmente difendibile.

Per la stesura dell’opera, Tacito si avvalse certamente delle notevoli fonti geografiche e storiche sia greche che latine: Cesare in primissimo luogo, poichè era stato un grande esponente di quell’interesse etnografico, più che storico, che gli antichi avevano nei confronti dei popoli primitivi; e poi Livio, Plinio il vecchio, Strabone, Pomponio Mela. Secondo alcuni Tacito avrebbe anche potuto sfruttare l’osservazione personale diretta in occasione di un incarico di propretore forse in Gallia nell’89 d.C. In ogni caso l’opera assume un peculiare pregio di originalità, poiché per la prima volta un romano si interessa del barbaro in sè, come oggetto della propria narrazione. In Germania la Germania è ancor oggi considerata l’atto di nascita della nazione germanica, la Bibbia del popolo tedesco.

Le opere: Historiae e Annales

Ritiratosi, a quel che possiamo capire, dalla vita pubblica e dall’attività in foro in favore degli studi e di quell’otium letterario che era il desiderio di ogni Romano, Tacito decise di affrontare un progetto di indagine storica organico e ambizioso: la narrazione della storia di Roma dalla morte di Augusto agli anni contemporanei. Il progetto, in realtà, dovette estendersi e affinarsi a mano a mano che l’autore lo vedeva realizzarsi: in un primo tempo, e come opera indipendente, furono pubblicate le Historiae – scritte probabilmente nel periodo dal 104 al 109 d.C. – che dovevano raccontare gli avvenimenti dal 69 d.C. alla morte di Domiziano (96 d.C.); in seguito – forse attorno al 117 d.C. – videro la luce gli Annales, destinati a coprire il periodo dalla morte di Augusto (14 d.C.) fino alla morte di Nerone e all’elezione di Galba (68 d.C.). Ma già nelle Historiae era affermato il proposito di giungere con la narrazione fino ai tempi ubertosi e sicuri di Nerva e di Traiano (vedi infra). La vicinanza degli avvenimenti gli metteva a disposizione materiale abbondante e di prima mano, addirittura ricordi personali; in questo, però, risiedevano anche le maggiori insidie di un lavoro che egli voleva non solo scrupoloso e preciso ma soprattutto esente da simpatie e antipatie (Historiae I, 1):

[1] Initium mihi operis Servius Galba iterum Titus Vinius consules erunt [n.d.r. 69 p.Chr.n.]. Nam post conditam urbem octingentos et viginti prioris aevi annos multi auctores rettulerunt, dum res populi Romani memorabantur pari eloquentia ac libertate: postquam bellatum apud Actium atque omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit, magna illa ingenia cessere; simul veritas pluribus modis infracta, primum inscitia rei publicae ut alienae, mox libidine adsentandi aut rursus odio adversus dominantis: ita neutris cura posteritatis inter infensos vel obnoxios. Sed ambitionem scriptoris facile averseris, obtrectatio et livor pronis auribus accipiuntur; quippe adulationi foedum crimen servitutis, malignitati falsa species libertatis inest. Mihi Galba Otho Vitellius nec beneficio nec iniuria cogniti. Dignitatem nostram a Vespasiano inchoatam, a Tito auctam, a Domitiano longius provectam non abnuerim: sed incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est. Quod si vita suppeditet, principatum divi Nervae et imperium Traiani, uberiorem securioremque materiam, senectuti seposui, rara temporum felicitate ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet.

Il periodo imperiale fu scelto non solo perché ancora non esplorato da alcuno – cosa che a rigore valeva solo per le Historiae, poiché ad esempio già Aufidio Basso innestandosi sulla fine degli Annales di Tito Livio pare fosse giunto almeno fino alla morte di Nerone -, ma soprattutto in omaggio al preminente interesse di investigare sine ira et studio il principato, le sue cause e soprattutto i suoi effetti sul mondo romano (Annales I, 1):

[1] Urbem Romam a principio reges habuere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit. Dictaturae ad tempus sumebantur; neque decemviralis potestas ultra biennium, neque tribunorum militum consulare ius diu valuit. Non Cinnae, non Sullae longa dominatio; et Pompei Crassique potentia cito in Caesarem, Lepidi atque Antonii arma in Augustum cessere, qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis sub imperium accepit. Sed veteris populi Romani prospera vel adversa claris scriptoribus memorata sunt; temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec gliscente adulatione deterrerentur. Tiberii Gaique et Claudii ac Neronis res florentibus ipsis ob metum falsae, postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt. Inde consilium mihi pauca de Augusto et extrema tradere, mox Tiberii principatum et cetera, sine ira et studio, quorum causas procul habeo.

Le due opere appaiono legate nel loro ordine cronologico inverso a un filo logico e psicologico evidente: l’affannosa ricerca del come e del perché fosse stato possibile cadere nelle mani di Domiziano, personaggio che così profondamente e dolorosamente aveva colpito Tacito in prima persona (vedi supra Agricola 45), e prima ancora di Nerone, resero l’indagine delle Historiae insufficiente e necessari gli Annales per approfondire il tema essenziale, l’origine, lo sviluppo, le caratteristiche, le conseguenze del principato. Al lettore antico le due opere apparirono presto una sola, tanto che san Girolamo afferma che Tacito narrò le vite dei Cesari da Augusto a Domiziano in trenta libri (Commentarii in Zachariam prophetam III, 14: Tacitus, qui post Augustum usque ad mortem Domitiani vitas Caesarum triginta voluminibus exaravit). Il lettore moderno non può invece apprezzarne l’unità, poiché entrambe ci sono giunte gravemente lacunose. Delle Historiae ci sono pervenuti solo i primi quattro libri e 26 capitoli del quinto. Degli Annales abbiamo i primi sei libri, con una grossa lacuna dopo il quinto capitolo del V libro fino al VI, incompleto, con la narrazione del regno di Tiberio; poi abbiamo i libri dall’XI (lacunoso) al XVI (incompleto), con la narrazione degli ultimi anni del regno di Claudio e quello di Nerone, del quale però manca la conclusione (Caligola manca del tutto). Se conosciamo la somma dei libri delle due opere, però non sappiamo da quanti libri fossero composte singolarmente: secondo una congettura, basata sul fatto che gli Annales nei codici parrebbero constare di sedici libri, si è ipotizzato che le Historiae fossero composte da quattordici libri. Un’altra congettura, riconoscendo che la parte finale mancante del XVI libro degli Annales non parrebbe sufficiente ad accomodare tutti gli importanti avvenimenti fino alla fine del 68, propone una divisione in esadi: due esadi per le Historiae, che sarebbero composte quindi da 12 libri, e tre esadi, per complessivi 18 libri, per gli Annales. Questa divisione non sarebbe incompatibile con quanto tramandato dai codici. Ma nemmeno è noto se Tacito abbia condotto a termine la sua opera; riscontrandosi anzi negli Annales talune inesattezze, è stato ipotizzato che egli sarebbe morto prima di avergli potuto dare l’ultima mano.

Il titolo delle Historiae è stato scelto probabilmente in rapporto con il significato originale della parola greca historìa, ricerca. Non a caso partivano dal primo gennaio del 69, una scelta, questa, non semplicemente in omaggio alla tradizione annalistica – cui comunque le Historiae sono, a onta del nome, più legate degli Annales – ma intimamente legata all’interesse centrale dell’opera: chiarire i fatti drammatici seguiti alla caduta e alla morte di Nerone, la prima grande crisi del principato, e come essi abbiano portato, attraverso il primo tentativo di Galba, fallito, e il secondo, riuscito, di Nerva, al nuovo metodo della successione per adozione che ha restituito un’età libera nella quale si può pensare ciò che si vuole e dire ciò che si pensa. È ancora vivo, in quest’affermazione, il ricordo del dispotismo di Domiziano, tuttavia vi è anche implicita un’ansia di ricerca più profonda. E così, Tacito non rispetta il suo proposito di occuparsi dei regni di Nerva e di Traiano; invece con la sua nuova opera, gli Annales, va all’indietro, scava nella dinastia Giulio-Claudia, arretra fino alla morte di Augusto e ancora non basta, perché in corso d’opera si accorge che non avrebbe dovuto lasciare fuori nemmeno il principato di Augusto, dove è la radice di tutto.

L’indagine storica di Tacito è rivolta al principato, a quella sostanza del potere monarchico che la res publica attribuisce al princeps. Per Tacito la restaurazione della repubblica è un sogno tramontato, se non proprio una nostalgia deteriore. È meglio godere della pace, dopo i tragici avvenimenti di decenni di sanguinose guerre civili, che hanno potuto solo dimostrare, purtroppo, l’inevitabilità della scelta del principato come forma di governo. Per Tacito l’autorità imperiale è e deve sempre essere concessa in delega dall’autorità del senato, benché egli ben sappia che nei fatti non è così: Tiberio rispetta ipocritamente la forma repubblicana, mentre la sostanza è che egli già regnava quando ancora il senato doveva esprimere un verdetto pur scontato. Il fatto è che, nonostante le innovazioni introdotte da Cesare, il potere di Augusto derivava da principi estranei alla legge e alla tradizione romana e Tacito mette impietosamente in luce come sia stato sempre trasmesso illegalmente, con colpi di stato, assassini, intrighi: una atmosfera di intrigo aleggia sempre intorno al princeps. Ed egli è pure amaramente consapevole che, anche se fosse possibile mantenerlo sul filo sottile degli equilibri costituzionali, il principato è pur sempre una privazione dell’antica libertà, minore quando il principe è illuminato ma intollerabilmente pesante quando il principe è dispotico come Nerone o Domiziano. Per questo, nonostante tenda ulteriormente a ridurre l’autorità del senato, egli guarda con favore all’esperimento di Galba, il tentativo di introdurre l’adozione come metodo di scelta del successore. L’esperimento era stato ripetuto con ancora maggior successo da Nerva, portando sul soglio imperiale l’optimus princeps Traiano verso il quale Tacito ha espressioni di sincera gratitudine.

Vi è stato chi, nella rinuncia al proposito espresso al principio delle Historiae di occuparsi di tempi più recenti, quelli felici di Nerva e di Traiano, ha visto non solo il desiderio dell’approfondimento, sia storico che di pensiero, del problema del principato, ma anche il segno di una delusione causata proprio da Traiano. Vero è che non parla in toni trionfalistici delle spregiudicate conquiste dell’ultimo imperatore espansionista; ma va tenuto in conto che Traiano era ancora in vita e che forse a Tacito mancò il tempo di scrivere di lui, se davvero la sua morte fosse appena di qualche anno posteriore a quella di Traiano. E non va trascurato una volta di più il pessimismo fatalista tacitiano di matrice stoica, che vede nell’espansionismo l’ulteriore accentramento del potere imperiale e l’accrescimento del peso degli eserciti. E vero è soprattutto che, dovendo scegliere, il campione di Tacito, il suo principe preferito rimane sempre Vespasiano, il restauratore della legalità, dell’onore e del prestigio dei Romani, autentico esemplare del mos maiorum. Coi suoi frugali costumi Vespasiano è un autentico rappresentante dei cittadini dei municipi e delle colonie, rimasti gli unici depositari dei boni mores, e anche per questo Tacito – il quale, come tutta la tradizione storica romana, è sostanzialmente moralista – è suo grande ammiratore. E, come Tacito, Vespasiano non ama la plebe dell’Urbe, corrotta e qualunquista. L’esercito e il popolo, che in Cesare hanno il posto d’onore, non hanno alcun rilievo in Tacito: l’esercito è fonte di instabilità – le Historiae si aprono il primo gennaio del 69 d.C. non solo in omaggio alla tradizione annalistica ma anche perchè è il giorno in cui arriva a Galba la notizia della rivolta di due legioni stanziate sul Reno – mentre la plebe è incontrollabile. Da buon senatore romano, Tacito ha esclusivamente in mente e porta costantemente all’attenzione del lettore la classe senatoria, la politica romana, l’Urbe centro del potere.

La lacunosità dei testi acuisce il problema delle fonti cui Tacito ha attinto, con la diligentia che gli era propria e che Plinio gli riconosce. Fra il materiale documentale ci sono gli atti pubblici, gli Acta senatus e gli Acta diurna populi Romani, rispettivamente i verbali delle sedute del senato e degli avvenimenti cittadini, compresi gli atti di governo. A sua disposizione erano anche raccolte di discorsi, memorie, appunti, variamente utilizzati ma, secondo la tradizionale visione della storiografia come genere letterario, mai citati direttamente. Esempio ne sono le memorie di Domizio Corbulone – il generale di Nerone secondo il quale le vittorie si conquistano con l’addestramento e le opere militari – quelle di Vespasiano e di altre personalità. In parte, data la vicinanza di alcuni degli avvenimenti narrati, Tacito si è probabilmente servito di testimonianze orali e finanche dei propri ricordi e appunti. Tra le fonti letterarie, Tacito nomina esplicitamente Plinio il vecchio, Vipstano Messalla – che abbiamo visto tra gli interlocutori del Dialogus de oratoribus – Cluvio Rufo e Fabio Rustico: tutti autori per noi perduti ma alla base sia delle Historiae che degli Annales. Per questi ultimi devono essere citati anche gli omonimi Annales di Aufidio Basso, che pure non sono giunti fino a noi. Di difficile soluzione rimane anche il problema della rielaborazione e più in generale del riutilizzo delle fonti, così profondamente legato al pensiero dell’autore, benché il caso di Tacito sia particolarmente fortunato: disponiamo infatti dell’originale di un discorso dell’imperatore Claudio – pronunciato in occasione di una visita alla sua città natale, Lione, e parafrasato in Annales XI, 24 – di cui ci è stato tramandato il testo epigrafico nelle cosiddette Tavole di Lione.