Paulus Diaconus Warnfridus

Paolo di Warnefrido detto Paolo Diacono nacque a Cividale del Friuli tra il 725 e il 730 d.C., secondo l’opinione più accreditata, ma non manca chi ne sposta la nascita ai primi anni dopo il 720 o addirittura al 714, come chi pensa sia da collocare intorno al 730. Fu storico, poeta e scrittore religioso, il più grande letterato italiano dell’VIII secolo e in effetti il primo scrittore di rilievo dal Papa Gregorio Magno del secolo precedente. Il nome Diacono gli deriva dal fatto che fu monaco, quasi certamente benedettino, anche se passò gran parte della sua vita nelle corti longobarde con una puntata in quelle franche, ricercato dai potenti per la sua fama di uomo di cultura.

Era di famiglia longobarda, in particolare della “fara” di Leupchis, come attesta lui stesso, che apparteneva a quella nobiltà adelingia, come l’editto di Rotari definisce la nobiltà longobarda più antica, che nel 568 era scesa in Italia dalla Pannonia al seguito dello stesso Alboino, il primo re longobardo d’Italia, conquistando inizialmente la Venezia Giulia, il Friuli e parte del Veneto. Quando Alboino, per organizzare quei suoi primi possedimenti in Italia, creò suo nipote Gisulfo duca del Friuli, con a capo la cittadella militare strategicamente imposrtante di Forum Iulii, oggi Cividale del Friuli, quest’ultimo pretese, come racconta Paolo stesso, di scegliersi le “fare” dei Longobardi che dovevano rimanere in Friuli con lui, e tra queste appunto parte anche la “fara” di Leupchis.

Paolo Diacono è ricordato principalmente come l’autore della Historia Langobardorum, un’opera monumentale soprattutto per i tempi che racconta la storia del suo popolo dalle origini leggendarie ad Alboino via via fino a Litprando. Alboino era diventato il decimo re dei Longobardi nel 567 d.C. Assalito dai Gepidi del re Cunimondo, aveva subito stretto un patto di alleanza con gli Avari, di stirpe unna, e mentre gli Avari invadevano le terre dei Gepidi, Alboino li affrontava nelle terre longobarde in Pannonia; secondo Paolo Diacono (Historia Langobardorum I, 27):

Langobardi victores effecti sunt, tanta in Gepidos ira saevientes, ut eos ad internitionem usque delerent atque ex copiosa multitudinem vix nuntius superesset.

Tra le proprie prede di guerra, Alboino sceglie come moglie la figlia di Cunimondo, Rosmunda; fece inoltre fare per sè della testa di Cunimondo una coppa per bere. Nel 568 Alboino concepì il disegno di invadere l’Italia, secondo Paolo su invito di Narsete, patrizio e generale bizantino inviato da Giustiniano come governatore d’Italia e per completarne la conquista. Narsete era caduto in disgrazia presso il successore di Giustiniano, Giustino II, e la moglie Sofia, in seguito alle lamentele dei Romani contro la sua amministrazione. Secondo Paolo Diacono (Historia Langobardorum II, 5):

Igitur deleta, ut dictum est, vel superata Narsis omnis Gothorum gente, his quoque de quibus diximus pari modo devictis, dum multum auri sive argenti seu ceterarum specierum divitias adquisisset, magnam a Romanis, pro quibus multa contra eorum hostes laboraverat, invidiam pertulit. Qui contra eum Iustiniano augusto et eius coniugi Sophiae in heac verba suggesserunt, dicentes quia: ”Expedierat Romanis, Gothis potius servire quam Grecis, ubi Narsis eunuchus imperat et nos servitio premit; et haec noster piissimus princeps ignorat. Aut libera nos de manu eius, aut certe et civitatem Romanam et nosmet ipsos gentibus tradimus”. Cumque hoc Narsis audisset, haec breviter retulit verba: “Si male feci cum Romanis, male inveniam”. Tunc augustus in tantum adversus Narsetem commotus est, ut statim in Italiam Longinum praefectum mitteret, qui Narsetis locum obtineret. Narsis vero, his cognitis, valde pertimuit; et in tantum maxime ab eadem Sophia augusta territus est, ut regredi ultra Constantinopolim non auderet. Cui illa inter cetera, quia eunuchus erat, haec fertur mandasse, ut eum puellis in genicio lanarum faceret pensa dividere. Ad quae verba Narsis dicitur haec responsa dedisse: talem se eidem telam orditurum, qualem ipsa, dum viveret, deponere non possit. Itaque odio metuque exagitatus in Neapolim Campaniae civitatem secedens, legatos mox ad Langobardorum gentem dirigit, mandans, ut paupertina Pannoniae rura desererent et ad Italiam cunctis refertam divitiis possidendam veniret. Simulque multimoda pomorum genera aliarumque rerum species, quarum Italia ferax est, mittit, quatenus eorum ad veniendum animos possit inlicere.

I Longobardi, abbandonata la Pannonia agli Avari con il patto di riaverla nel caso la campagna d’Italia si concludesse con un insuccesso, calano in Italia lungo la Via Postumia cum uxoribus et natis omnique suppellectili. Conquistata la Venezia Giulia e il Friuli, l’anno dopo i Longobardi dilagarono in Lombardia occupando Milano e assediando Pavia, che prenderanno però solo post tres annos et aliquod menses di accanita resistenza. Alboino si stabilisce poi a Verona, dove muore nel 572 per la congiura ordita dalla moglie Rosmunda. Secondo la narrazione di Paolo Diacono, ripresa tra gli altri dal Manzoni, Rosmunda non aveva perdonato ad Alboino di averla costretta a bere nel teschio del padre Cunimondo (Historia Langobardorum II, 28):

Qui rex [Alboin] postquam in Italia tres annos et sex menses regnavit, insidiis suae coniugis interemptus est. Causa autem interfectionis eius fuit. Cum in convivio ultra quam oportuerat aput Veronam laetus resederet, cum poculo quod de capite Cunimundi regis sui soceris fecerat reginae ad bibendum vinum dari praecipit atque eam ut cum patre suo laetanter biberet invitavit. Hoc ne cui videatur inpossibile, veritatem in Christo loquor: ego hoc poculum vidi in quodam die festo Ratchis principem ut illut convivis suis ostentaret manu tenentem. Igitur Rosemunda ubi rem animadvertit, altum concipiens in corde dolorem, quem conpescere non valens, mox in mariti necem patris funus vindicatura exarsit…

In seguito, con il re Autari la conquista longobarda si estenderà all’Italia meridionale, sempre mantenendo la caratteristica organizzazione in comunità sostanzialmente indipendenti, i ducati, che continuavano la tradizione nomadica della divisione in tribù che riconoscevano solo l’autorità del loro capo, contemporaneamente civile e militare, il duca appunto, dal termine latino più vicino per significato, dux. I Longobardi, che avevano seguito le orme dei Goti di Teodorico dal Norico fino all’Italia, ma venivano solo allora e per la prima volta a contatto con i Romani (pur essendo ricordati da Tacito come stanziati alle foci dell’Elba nel I secolo d.C.), portarono però un tipo di dominazione ben diverso da quello dei Goti, che erano a contatto con la civiltà romana da secoli e la cui dominazione aveva goduto con Teodorico anche dell’appoggio bizantino.

Erano infatti un popolo ancora completamente barbaro, nomade e come tale incapace di agricoltura, di attività marinare e di commercio, esperto nella caccia e però violento perchè riconosceva solo la forza delle armi. Le popolazioni conquistate erano considerate schiave, senza diritti civili, dei quali peraltro i Longobardi avevano un’idea molto vaga. Si mantenevano isolati dai vinti (avevano nelle città, quando non vivevano in campagna, quartieri a loro riservati e molto ben difesi), e per l’arroganza del vincitore e per la superbia del vinto, che si riteneva a ragione più civile. Superbia che i conquistatori longobardi ritenevano intollerabile ancora ai tempi del Diacono. Le loro guerre di conquista non erano ispirate da un piano, erano piuttosto invasioni caotiche e disordinate, come dimostra il fatto che non si curarono di conquistare tutta l’Italia e nemmeno di completare e consolidare la conquista dei territori che erano caduti nelle loro mani (Alboino ad esempio non si curò di prendere le città più munite e le regioni costiere, delle quali non sapeva che fare, non concependo nemmeno il commercio e il trasporto per mare). Tuttavia i Longobardi erano truci e ferocissimi in battaglia, come il particolare del teschio di Cunimondo si incarica di rappresentarci. In ogni modo, è con la conquista longobarda che inizia la divisione politica dell’Italia durata fino al Risorgimento, ben sei secoli dopo l’unificazione voluta dalla riforma amministrativa di Augusto.

Leupchis, rimasto a Cividale, seguì la sorte degli altri suoi compatrioti, passando dalla vita nomadica a quella stanziale e costruendo quella casa di famiglia di cui parla Paolo, e dove con ogni probabilità Paolo stesso nacque. Dopo la prima istruzione a Cividale, probabilmente nella schola ducale, Paolo studia a Pavia alla scuola del grammatico Flaviano, ove oltre al latino imparò anche un po’ di greco, cosa che in quei tempi bastò a rendere la sua cultura raffinata e lui famoso. A Pavia dimorò a lungo, probabilmente ricoprendo uffici importanti nella curia del patriarca Callisto (che aveva trasferito, non senza contrasti, il patriarcato da Aquileia a Cividale, a testimonio dell’importanza crescente della città natale di Paolo, in questo caso a spese di una città molto importante già negli ultimi secoli dell’impero romano), e anche alla corte di tre re: Rachi (744 – 749 d.C.), che prima di essere eletto re era duca del Friuli, Astolfo (749 – 756 d.C.), fratello di Rachi, e Desiderio (756 – 774 d.C.), duca di Toscana.

All’epoca di Desiderio Paolo era già notaio e cancelliere del re, ma forse non fu infelice di vedersi mutato l’incarico in quello di precettore della figlia del re, Adelperga. La principessa, infatti, dovette rispondere positivamente agli stimoli intellettuali del suo istitutore, acquisendo una profonda sensibilità culturale, che fece dichiarare con orgoglio al Diacono, a lei rivolto, che elegantiae tuae studiis semper fautor extiti. Per Adelperga compose nel 763 d.C. la sua prima opera, un carme sulle sette età del mondo in tetrametri trocaici ritmici, A principio saeculorum; le iniziali delle prime parole delle dodici strofe formano l’acrostico Adelperga pia. Sempre dedicato ad Adelperga, che probabilmente la commissionò, è l’Historia Romana, una rielaborazione in sedici libri del Breviarium ab urbe condita di Eutropio con aggiunte una parte iniziale, dal mito del regno di Giano nel Lazio fino alla fondazione di Roma, e una parte finale, dal regno di Valentiniano I (364 d.C.) a quello di Giustiniano (552 d.C.), oltre all’inserimento di numerose parti e notizie derivate da Orosio, Girolamo, Giordane, Aurelio Vittore. Il tentativo di restaurazione di un impero romano d’occidente attuato da Giustiniano durò poco e rimase anche l’ultimo: dopo di esso, la storia d’Italia imboccava la strada del regno longobardo, e questo giustifica sia la scelta di Paolo di fermare la storia romana a Giustiniano, sia quella di iniziare dallo stesso periodo la storia longobarda.

Quando Adelperga andò sposa ad Arechi, duca di Benevento, Paolo la seguì, rimanendo alla corte di Benevento fino alla capitolazione del regno longobardo. In questo, oltre all’amicizia che doveva legarlo alla principessa, si è visto da più parti la disapprovazione del Diacono per la politica di Desiderio, come già per quella di Astolfo, che in effetti finirono per perdere il regno longobardo. Astolfo e Desiderio, infatti, attuarono una politica aggressiva, irruente il primo, più cauta il secondo, nei confronti dello stato della chiesa, la cui nascita per ironia della sorte si fa tradizionalmente risalire proprio alla donazione di un re longobardo, Liutprando, che aveva occupato il territorio di Sutri donandolo poi al Papa nel 727 d.C. Alle aggressioni longobarde il Papa aveva risposto cercando l’aiuto dell’altra grande potenza europea, quella franca, inaugurando così un rapporto diplomatico che sarebbe durato fino alla breccia di porta Pia. Nel 772 d.C. Desiderio invade nuovamente le terre della chiesa e, sollecitato dal Papa, Carlo Magno, che pure aveva sposato la figlia di Desiderio, Ermengarda, dopo aver tentato invano una soluzione diplomatica, cala in Italia e sconfigge l’esercito longobardo guidato da Adelchi, figlio di Desiderio. Adelchi si rifugia a Costantinopoli presso l’imperatore Costantino V, mentre Desiderio si chiude in Pavia e i duchi logobardi passano dalla parte del sicuro vincitore. Nel 774 d.C. Pavia capitola, Desiderio si chiude in convento, Carlo Magno assume il titolo di rex Francorum et Langobardorum, il regno longobardo non esiste più, e Paolo, probabilmente anche perchè amareggiato dagli avvenimenti, si chiude nel monastero benedettino di Montecassino, nel territorio del ducato di Benevento. Non è chiaro se si sia fatto monaco nell’occasione o se già lo fosse e abbia cercato un chiostro più tranquillo. Forse cercava anche rifugio, date le sue inclinazioni nazionaliste e visto che il duca di Benevento Arechi riuscì, e riuscirà anche in seguito, a rimanere indipendente dai Franchi (il ducato capitolerà di fronte ai Normanni nell’XI secolo).

Il pensiero nazionale di Paolo è attestate in ambito familiare anche dal fratello Arechi, il quale fece parte della congiura capeggiata dal duca del Friuli, Rotgaudo, e da Adelchi, e appoggiata anche dai duchi di Spoleto e Benevento. Contemporaneamente inpegnato nella guerra contro i Sassoni, Carlo Magno riuscì però ad aver ragione anche della rivolta e con essa definitivamente anche del regno longobardo, almeno nell’Italia settentrionale. Nella battaglia decisiva, combattuta sulle rive del Brenta nel 776 d.C., Rotgaudo e Adelchi furono uccisi, mentre il fratello di Paolo, Arechi, fu fatto prigioniero e deportato in Francia, i beni di famiglia confiscati, la moglie costretta a mendicare per i quattro figli piccoli.

Nel 781 Carlo Magno veniva a Roma in visita al Papa Adriano, e Paolo colse l’occasione per indirizzargli una supplica in forma di elegia, Ad regem, con la quale chiedeva la liberazione del fratello e la restituzione dei beni di famiglia. Carlo, nonostante avesse assunto il titolo di re dei Longobardi, non aveva intenzione di imporsi con durezza sul nuovo dominio e, oltre a lasciare ai duchi la libertà cui erano avvezzi, aveva già manifestato contro i ribelli una clemenza da ritenersi pacificatoria. Rispose perciò (ma forse lo fece per lui il grande Alcuino, assai interessato alla personalità del Diacono) acconsentendo benignamente al perdono e “offrendo” a Paolo un posto nella famosa schola palatina, flebile faro di cultura, accanto ai nomi più illustri del tempo, per di più con l’incarico specifico di istitutore di greco della figlia maggiore di Carlo, Rotruda, che doveva andare sposa al figlio dell’imperatore di Bisanzio.

Paolo, atterrito dal peso di quell’onore, ma forse soprattutto irritato dal disagio di lavorare per il conquistatore, resiste, risponde che quel poco di greco appreso da puerulus non è sufficiente per quell’incarico così impegnativo. Ma deve cedere. In Francia Paolo rimase fino al 786, quando ottenne di poter tornare a Montecassino. Viaggiò molto, risiedette nelle corti di Quierzy-sur-Oise, Poitiers, Thionville, Metz, visitando diversi monasteri e proseguendo la sua intensa attività letteraria. Nell’abbazia di san Martino compose per il vescovo di Metz, Angilramno, i Gesta episcoporum Mettensium, nel quale narrava le azioni dei vescovi di Metz dal primo fino al predecessore di Angilramno. Secondo l’opinione più accreditata, in Francia compose anche la Epitome del De verborum significatu di Pompeo Festo. Forse dietro richiesta di Carlo raccolse in un unico testo, l’Homiliarium, 244 omelie scelte tra quellle più reputate dai tempi di san Leone Magno a quelli del venerabile Beda; il lavoro, concepito ad uso liturgico e diviso in due parti, una per l’estate e una per l’inverno, ebbe fortuna incredibilmente durevole poichè era ancora in uso, ancorchè modificato e aggiornato, ai tempi del Concilio Vaticano II. Aggiunse alla produzione poetica maturata alla corte longobarda numerosi altri Carmina, scambiando i suoi versi con quelli di Alcuino. Infine, per Adalardo di Corbie emendò un codice contenente una raccolta di 54 lettere di Gregorio Magno.

La figura di questo grande Papa dovette appassionarlo, dato che appena tornato a Montecassino, nel 787, scriverà la Vita beati Gregorii papae, in cui tratteggiava il personaggio come l’esemplare del perfetto cristiano. Nello stesso anno compose anche gli epitaffi per l’ex regina Ansa, moglie di Desiderio e madre di Adelperga, e per il duca Arechi.

Ma soprattutto, gli ultimi anni della sua vita furono contrassegnati dalla stesura della sua opera maggiore, la Historia Langobardorum, forse scritta per istituire il figlio del duca Arechi, Grimoaldo, o forse ancora per esortazione di Adelperga. L’opera, divisa in sei libri, narra le vicende dei Longobardi dalle origini fino all’apice della potenza longobarda, quel regno di Liutprando che si conclude con la sua morte nel 744 d.C. Concepita come continuazione della Historia Romana, che terminava con Giustiniano, il primo libro riassume l’origine mitica del popolo longobardo e le poche, scarne notizie fino allo stanziamento in Pannonia e al regno di Alboino, mentre dal secondo la narrazione si innesta nel periodo immediatamente successivo a Giustiniano, che segna la conquista longobarda dell’Italia. La divisione geografica e politica dell’Italia vi viene descritta in modo preciso quasi a ricongiungere il nuovo dominio con quello romano di un tempo. Il terzo libro narra del regno di Autari, il quarto dei regni da Agilulfo a Grimoaldo, il quinto da Grimoaldo a Cuniperto, il sesto da Cuniperto a Liutprando. Secondo alcuni, l’opera sarebe stata interrotta solo dalla morte di Paolo, tuttavia la scelta di fermarsi a Liutprando sarebbe in accordo col carattere nazionalista dello storico. Con la Historia Langobardorum Paolo Diacono si affianca agli altri scrittori di storie nazionali, Giordane storico dei Goti, Gregorio di Tours storico dei Franchi, e Beda storico degli Angli. Tutti questi racconti sono da noi annoverati tra le testimonianze più importanti, dal punto di vista storico, nel panorama dei non abbondanti resti giunti fino a noi; tuttavia la storia del Diacono, buona ultima cronologicamente, è certamente la prima in ordine di importanza, e per la qualità delle fonti storiche cui attinse (prima fra tutte la perduta Historia Langobardorum di Secondo, vescovo di Trento contemporaneo del Papa Gregorio Magno, a cavallo del 600 d.C.; e poi l’anonima Origo gentis Langobardorum, del 671 d.C.), e per l’accuratezza della critica e del discernimento storico che l’autore impiega, e per il valore letterario. Scritta in un latino intriso di barbarismi, per esemplificare i quali può bastare leggere i brani sopra riportati, la Historia Langobardorum è però scritta con uno stile avvincente che ci riporta tutte le qualità letterarie per cui il Diacono era famoso ai suoi tempi e giustifica la sua durevole fortuna.

Paolo Diacono morì negli ultimi anni dell’ottavo secolo, probabilmente nel 799 d.C. Il suo epitaffio fu scritto da Ilderico, un monaco di Montecassino che sarà lì abate nell’834. La sua fama continuerà per tutto il medioevo, sia come storico, e ne sono testimonianza le decine di manoscritti della sua Historia Langobardorum e il fatto che la sua Historia Romana rimase per secoli libro di testo scolastico, sia come autore religioso, e ne abbiamo già notati esempi. È peraltro ricordato anche per una curiosità che testimonia ulteriormente la sua fortuna: nell’XI secolo, Guido d’Arezzo, isolando la prima strofa di un suo inno a san Giovanni Battista in strofi saffiche e prendendo la prima sillaba di ogni emistichio (e le prime due lettere dell’ultimo):

UT queant laxis REsonare fibris / MIra gestorum FAmuli tuorum / SOLve polluti LAbii reatum / Sonde Iohannes

ricavò il nome delle note musicali.