Marcus Minucius Felix

Le poche informazioni che possediamo su Marco Minucio Felice ruotano attorno alla testimonianza di Lattanzio (Divinae institutiones V, 1: […] Ex iis, qui mihi noti sunt, Minucius Felix non ignobilis inter causidicos loci fuit. […]) che fosse avvocato; notizia confermata da san Girolamo, che (in De viris illustribus LVIII) lo dice insignis causidicus:

[LVIII] Minucius Felix, Romae insignis causidicus, scripsit Dialogum Christiani et Ethnici disputantium, qui Octavius inscribitur. Sed et alius sub nomine eius fertur de Fato, vel contra mathematicos, qui cum sit et ipse diserti hominis, non mihi videtur cum superioris libri stylo convenire. Meminit huius Minucii et Lactantius in libris suis.

Sembra che, come gran parte degli scrittori cristiani del II e III secolo, fosse originario dell’Africa proconsolare e che, come molti altri provinciali, fosse venuto a Roma, ove esercitò la sua professione: la gita ad Ostia con cui inizia l’apologia a sfondo protrettrico del Cristianesimo che è l’unica sua opera conosciuta, l’Octavius, si pone nel tradizionale periodo di vacanza dell’anno giudiziario, alla fine dell’estate.

Non disponendo di date riguardo la sua vita, dobbiamo appigliarci ai vaghi elementi presenti nell’Octavius per arguire una datazione che risulta peraltro molto approssimativa. Un certo è che Minucio accenna al discorso di Frontone per confutarne le argomentazioni contro i cristiani, il che lo fa ritenere almeno contemporaneo o, più probabilmente, posteriore a Frontone stesso. Un argomento meno solido è il fatto che nell’Octavius l’autore non sente il bisogno di difendere i cristiani dall’accusa di essere la causa di pubbliche sventure. Sembra che i pagani cominciarono a rivolgere questa accusa ai cristiani, cioè che irritassero gli dèi e ne provocassero la vendetta sotto forma di epidemie, eventi atmosferici e sconfitte militari, solo a partire dall’epoca di Settimio Severo e che l’accusa conoscerà l’apice della sua diffusione e della sua virulenza nel periodo della terribile crisi a cavallo della metà del III secolo d.C.; ma in realtà è già nota a Tertulliano, cha la confuta nell’Apologeticum, opera del 197 d.C. Minucio scriverebbe quindi prima di questa data. Si può perciò porre il floruit di Minucio nella seconda metà del II secolo d.C.

L’Octavius è un dialogo a tre voci: Cecilio, un pagano legato alla tradizione, e il cristiano Ottavio, alla presenza dello stesso Minucio, che fa da moderatore e da arbitro. Il dialogo si apre con la distensiva descrizione del lido di Ostia e della passeggiata sulla battigia, quando le rimostranze di Ottavio a un gesto convenzionale di venerazione da parte di Cecilio rivolto a una statua di Serapide provocano l’inizio della controversia. Parla per primo Cecilio, il quale difende il paganesimo sulla base di classici argomenti filosofici e attacca duramente il Cristianesimo. Segue un intervento moderatore di Minucio e la replica di Ottavio, che sostiene l’esistenza di un Dio unico e della Provvidenza, attacca gli aspetti più ridicoli e deteriori del paganesimo e infine confuta le tesi di Cecilio evidenziando la purezza di vita dei cristiani anche attraverso l’eroicità del martirio. La sua argomentazione, che non rifiuta gli argomenti tratti dalla stessa tradizione classica e pagana, è stringente e pacata al tempo stesso, è vigorosa senza cadere negli eccessi di Cecilio. Quest’ultimo, senza nemmeno attendere la decisione di Minucio, si dichiara vinto dalla forza del discorso di Ottavio e più ancora dalla forza della verità: infatti, le parole di Ottavio ne hanno ottenuto addirittura la conversione. E se gli rimane qualche perplessità, non tale da ostacolare la verità, ne discuteranno l’indomani, con l’intera giornata innanzi a loro.

Proprio il tono discreto e garbato, non meno che incisivo e vigoroso, e il senso della misura assicurano eleganza all’opera di Minucio. La sua apologia, al contrario di quella del contemporaneo Tertulliano, non è accesa né aggressiva né impetuosa: egli si rivolge probabilmente a un uditorio pagano scettico e tradizionalista, magari diffidente verso quella nuova religione sulla quale sono così poco e così male informati, rappresentato non a caso da Cecilio. Ma certo non parla a un uditorio ignorante e violento, il popolino meschino e cattivo descritto da Tertulliano; più probabilmente a una platea di retori e letterati in un’epoca lontana da persecuzioni.