Titus Lucretius Carus

Poche righe del Chronicon di san Girolamo associate all’anno 95-94 a.C. (secondo anno della CXLLI Olimpiade) sono il nostro solo punto di partenza per fissare i dati essenziali della vita del poeta e filosofo Tito Lucrezio Caro:

T. Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIII.

Queste stringate notizie, lungi dall’essere conclusive, sono il punto di partenza di questioni in gran parte irrisolte. Innanzitutto l’anno di nascita: a parte l’incertezza insita nelle date legate agli anni olimpici (poiché le Olimpiadi si tenevano in estate, si considera convenzionalmente che gli anni olimpici partissero dal primo di luglio di un certo anno per terminare l’ultimo di giugno dell’anno successivo), accade che il grammatico Elio Donato – il quale, come del resto san Girolamo, attinge a una perduta pagina del De viris illustribus di Suetonio – riporti una notizia diversa, e cioè che Lucrezio morisse il giorno in cui Virgilio prese la toga virile (cioè al compimento del diciassettesimo anno d’età) sotto gli stessi consoli dell’anno in cui Virgilio era nato (cioè Pompeo e Crasso). Ora, se teniamo ferma, come più probabilmente certa in sé, l’indicazione che Lucrezio morì nel quarantatreesimo anno d’età (cioè, a rigore, tra il compimento dei 42 e dei 43 anni), l’anno di morte secondo san Girolamo sarebbe il 53-52 a.C. o il 52-51 a.C. Di queste ipotesi Donato sembrerebbe confermare il 53, poiché Virgilio nacque con certezza nel 70 a.C. e il dato dei 17 anni porta al 53 a.C. Tuttavia, le indicazioni di Donato non permettono una conclusione univoca, poichè i due dati che egli riporta sono in contraddizione tra loro: infatti Pompeo e Crasso furono consoli (oltre che nel 70 a.C.) nel 55 e non nel 53 a.C. Poiché nelle parole di Donato l’indicazione esplicita dei consoli appare più verisimile della coincidenza di date tra Lucrezio e Virgilio – che sembra invece aver origine nella suggestione, così radicata nell’antichità (molto meno attenta di noi alla precisione cronologica), di creare ponti ideali, quasi di predestinazione, tra le maggiori personalità – si assume comunemente che la data più attendibile per la morte di Lucrezio sia il 55 a.C. Questo, assieme al fatto che Lucrezio morì a nel XLIII anno d’eta, porterebbe attorno al 98 a.C. come data di nascita.

Un altro elemento, pure variamente interpretato, è usato a sostegno di questa tesi. Si tratta del giudizio che Cicerone riservò al poema di Lucrezio – secondo san Girolamo, l’Arpinate ne seguì la revisione prima della pubblicazione -: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingenii, multae tamen artis. Il passo è tratto da una lettera al fratello Quinto (Epistulae ad Quintum fratrem II, 9, 3) datata alla fine di gennaio del 54 a.C. e sembra sottintendere che la pubblicazione del De rerum natura fosse già avvenuta o almeno che Cicerone l’avesse già letto: quindi la morte di Lucrezio risalirebbe a qualche tempo prima. Questa intrepretazione del passo, se corretta, escluderebbe quindi le date posteriori al 54 a.C., confermando l’unica anteriore, il 55 a.C.

Anche il luogo di nascita di Lucrezio ha generato infinite congetture, talvolta suggestive ma sempre indiziarie. Vasto consenso e credito ha raccolto l’ipotesi che fosse campano e in particolare di Pompei. Avvalorano questa ipotesi una serie di indizi: sia Lucrezio che Caro sono nomi ricorrenti nell’onomastica locale (esisteva una gens Lucretia a Pompei); a Pompei era venerata una Venere fisica, prettamente epicurea, e Venere è invocata all’inizio del De rerum natura; la Campania, e tra gli altri i centri di Ercolano e Posillipo, vide una particolare diffusione dell’epicureismo. Si tratta, però, come si vede, di indizi puramente circostanziali. L’ipotesi che fosse di Roma, fondata solo sull’uso del termine patria riferito al mondo romano, è ancora meno consistente. È forse inutile aggiungere a questo proposito che nulla si sa della condizione sociale nè della famiglia di Lucrezio: l’unico dato della sua vita rimane la notizia del filtro amoroso, che è stata pur’essa oggetto di critica. Misture di supposte virtù magiche non erano certamente rare nell’antichità, che aveva nella superstizione la sua vera religione – basti pensare alla vicenda di Apuleio, il quale nella sua difesa ricorda numerose figure di mago dell’antichità: lui stesso, al di là della pretestuosità dell’accusa mossa contro di lui, trafficava davvero con la magia. Senza contare che una fine analoga a quella di Lucrezio, pazzo in seguito ad un filtro d’amore, è attestata per Lucullo. Sembra però poco credibile che Lattanzio, scrittore cristiano che fa di Lucrezio un proprio bersaglio, non utilizzi un argomento polemico così succoso; analogamente, non altri nell’antichità, e tra essi uno studioso entusiasta di Lucrezio come Arnobio, ne fanno menzione. Va poi notato che in un autore cristiano come san Girolamo la notizia acquista un sapore di fine dannata per un poeta maledetto, quale Lucrezio fu sentito sempre, e non solo dai cristiani.

Quel che è certo, comunque, è che il poema stesso di Lucrezio si incarica di fornirci la rappresentazione di una personalità estremamente sensibile, molto contrastata, alla continua e disperata ricerca della stabilità: insomma tutto il contrario della serenità di spirito e dell’equilibrio – anche se lo specchio di un’anima non è necessariamente lo specchio della sua sanità mentale. Il poema dell’epicureismo, il De rerum natura, è dedicato a un Memmio che è stato identificato con il Gaio Memmio, pretore nel 58, che Catullo seguì in Bitinia nel 57-56 a.C. Memmio sarebbe quindi lo stesso poeta e oratore cui Cicerone scrive nel 51 a.C. (Epistulae ad familiares XIII, 1) chiedendo a nome dello scolarca epicureo Patrone di non costruire nel luogo dove una volta sorgeva la casa di Epicuro. Cicerone, che epicureo certo non era, fa qui il nome di Attico, seguace dell’epicureismo. Se la duplice identificazione è esatta, ne conseguirebbe che anche Memmio non fosse un fervido epicureo, il che peraltro si accorda alle sfiduciate parole di Lucrezio, che gli dedica il De rerum natura forse proprio perchè sa che il suo accorato richiamo alla dottrina epicurea rimarrà inascoltato.

Il poema, di sei libri in esametri, è probabilmente incompiuto: ce lo dicono sia san Girolamo, affermando che Cicerone ne fece una revisione dopo l’improvvisa morte di Lucrezio, sia l’analisi del testo. Anche in questo stato, però, non sembra lontano dalla forma definitiva. In particolare, la struttura presenta una simmetria che è sostanzialmente stabile. I sei libri sono divisi idealmente in tre coppie: il proemio dei libri dispari, I, III e V contiene un encomio di Epicuro, colui che ha insegnato al mondo la vera via della felicità; mentre alla fine dei libri pari c’è una conclusione pessimistica, rispettivamente la dissoluzione dell’universo alla fine del II libro, l’amore distruttore alla fine del IV e la peste d’Atene alla fine del VI; infine, il finale del terzo libro, al centro del poema, tratta l’argomento della morte, il tema centrale su cui Lucrezio vuole richiamare l’attenzione del lettore. La scelta degli argomenti che aprono e chiudono le tre coppie di libri intende probabilmente rappresentare le opposte passioni tra le quali oscilla la misera e incerta condizione umana, estremi inconciliabili e tragici, mentre solo l’epicureismo può conquistare all’uomo la serenità e la felicità. Il poema esalta la dottrina di Epicuro, l’uomo che ha insegnato agli altri uomini a liberarsi dalla superstizione degli dei e dal terrore della morte per trovare la serenità.

Per Epicuro, la felicità è conseguenza del conoscere la radice delle cose, della spiegazione razionale dei fatti, che non deve ricorrere al misterioso o al trascendente; l’anima è mortale, nè preesiste al corpo, quindi la morte è il nulla e ingiusta è la paura della morte; la divinità non è negata: gli dei esistono, ma sono estranei alle vicende degli uomini; nascosti negli intermundia, gli dei sono atarassicamente indifferenti alle vicende umane; il mondo non può quindi essere stato originato dagli dei, e tanto meno è stato creato per il bene degli uomini; perciò la religione, ogni religione, è meglio detta superstizione. Si vede bene da dove nasce l’accusa di irreligiosità che ha colpito l’epicureismo e Lucrezio in ogni epoca: la concezione epicurea era inconcepibile tanto ai custodi della tradizione romana, come Cicerone, i quali consideravano la grandezza di Roma un segna della predestinazione degli dei, tanto alla cristianità, poichè negava la provvidenza. Invece l’epicuresimo in Roma faceva proseliti soprattutto nella sua versione edonistica: sbarazzatisi dell’anima che è mortale, sabarazzatisi degli dei, che esistono ma che non vogliono turbare la loro eterna beatitudine per interessarsi di noi, confusa l’irreligiosità e la razionalità con la liberazione dai freni della morale – un atteggiamento che ha colpito gli atei e gli illuministi di tutte le epoche, non esclusa quella moderna – i nuovi epicurei intendevano l’epicureismo come sfrenata ricerca del piacere fine a se stesso, come soddisfacimento dei presunti bisogni del corpo il prima possibile e nel massimo grado, poichè il corpo c’è oggi ma domani sarà di nuovo il nulla. Di fronte a questo fraintendimento, per la verità non incomprensibile, della dottrina di Epicuro, Lucrezio sente il bisogno di ristabilire la verità, secondo lui, intorno a quella filosofia. Egli ritiene necessario spiegare la dottrina nella sua interezza e lo fa senza risparmiare nulla al lettore: affronta ogni aspetto della fisica epicurea, la teoria degli atomi, la cosmologia, l’antropologia, la fenomenologia della natura, e da ogni aspetto fa discendere il contenuto etico dell’epicuresimo.

Espone per prima la teoria degli atomi: la natura consta di materia e di vuoto; l’atomo è il principio indivisibile e indistruttibile della materia; gli atomi, nel loro moto libero, incessante, caotico nel vuoto, si incontrano secondo un particolare angolo o clinamen e casualmente danno luogo al mondo, agli uomini, agli animali, alle cose. Tutto perisce quando gli atomi che lo compongono si separano e tornano disponibili per dar luogo a nuovi aggregati (fine della prima diade). Anche l’anima è un aggregato di atomi, atomi particolarmente lisci e rotondi, che fanno sì che la mente sia così veloce. Come il corpo, l’anima è dunque mortale, anzi il corpo e l’anima viviono in stretta simbiosi: sentono insieme il piacere come il dolore, e insieme periranno nella separazione degli atomi. Anche i sensi sono stimolati dagli atomi: le sensazioni sono provocate da atomi che si distaccano a grande velocità dai corpi materiali, costituendo dei simulacra che conservano le caratteristiche dei corpi, e colpiscono i nostri sensi. I sensi non errano, gli uomini sbagliano nonostante l’esattezza dei dati sensibili. Anche il pensiero nasce nello stesso modo, attraverso simulacra costituiti da atomi più sottili che colpiscono l’anima. Infine, anche la passione d’amore nasce da un meccanismo analogo, e quando lo stimolo è troopo forte può portare alla pazzia (fine della seconda diade). Il mondo è nato casualmente, non per intervento degli dei nè tanto meno per il nostro bene: infatti è tutt’altro che perfetto (culpa naturae). Gli dèi esistono, ma vivono in eterna beatitudine assolutamente indifferenti al destino del mondo e degli uomini. Avendo avuto un principio, il mondo, come tutte le cose, avrà una fine. La forma attuale del mondo è uno dei possibili punti di equilibrio della combinazione degli atomi, un punto di arrivo nella loro ricombinazione; anche gli animali e l’uomo sono il prodotto di una evoluzione per selezione spontanea a partire da specie primigenie, nate dalla terra e informi. L’uomo, infatti, conduceva in origine una vita ferina, in balia della natura e senza leggi; solo col tempo scoprì via via il fuoco e la famiglia, l’amicizia, la giustizia e il linguaggio, la proprietà e la società. Ma con la proprietà venne la sopraffazione e ci si dovette dotare di magistrati e di leggi; e all’evoluzione della civiltà si accompagnò la perdita della primitiva serenità. Gli animi turbati si diedero alla superstizione, cioè alla religione, che è timore di incorrere nell’ira degli dèi; invece, la vera pietas consiste nel guardare il mondo pacata mente, con occhio sereno. I fenomeni atmosferici e fisici obbediscono in realtà solo alle leggi di natura, non sono influenzati o voluti dagli dèi. Anche le epidemie hanno origine naturale: sono causate da atomi nocivi che corrompono l’aria. E con la descrizione della celebre peste di Atene si chiude la terza diade e il poema.

Per trattare di filosofia, tra i primi in assoluto a Roma, Lucrezio plasmò, più ancora di Cicerone, la nuova lingua filosofica di Roma, come Ennio ne aveva creato la lingua epica – e non a caso Ennio è spesso manifestamente presente nel De rerum natura. Lucrezio sa che è necessario adeguare la lingua: si rifiuta di usare grecismi – perfino per indicare l’atomo usa varie perifrasi ma mai àtomos -; crea numerosi neologismi – assai frequenti sono in Lucrezio gli hàpax legòmena -; l’esigenza di sacralità lo spinge all’uso frequente degli arcaismi, quali il genitivo in –ai e i gerundivi in –undus; si concede spesso volgarismi – cioè espressioni, quali la forma avverbiale con l’aggettivo all’ablativo seguito da mente al posto della radice uscente in –iter, che si sono affermate nel latino volgare e poi spesso nelle lingue romanze e che conservano in realtà forme antichissime che il latino letterario e classico espulse dal proprio lessico ma che non furono mai abbandonate nell’uso.

Anche per questo, Lucrezio fu sentito grande poeta già dai contemporanei: Cornelio Nepote (Vita Attici XII, 4) lascia intendere che Catullo e Lucrezio costituivano un binomio classico; il fascino e l’eleganza della lingua lucreziana si risente in Virgilio e in Orazio. Di Lucrezio dice Ovidio (Amores I, XV, 23-24):

Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucreti
exitio terras cum dabit una dies

Quintiliano (Institutio oratoria X, 1, 87) ne loda l’eleganza e sottolinea la difficoltà: Macer et Lucretius legendi quidem, sed non ut phrasin, id est corpus eloquentiae, faciant; elegantes in sua quisque materia, sed alter humilis, alter difficilis. Anche gli scrittori cristiani, Tertulliano, Arnobio, Lattanzio, nonostante la polemica con la dottrina filosofica epicurea, ne sentirono e ne imitarono la grandezza. Isidoro di Siviglia lo ammira e lo cita largamente, tramandandone e raccomandandone il nome al Medio Evo. Il Rinascimento lo ama, l’Illuminismo vi cerca un proprio precursore, il Romanticismo si appassiona alla sua anima tormentata.