Lucius Caecilius Firmianus Lactantius

Maggiore apologeta cristiano dopo Tertulliano, definito ‘il Cicerone cristiano’ da Pico della Mirandola e dagli Umanisti per l’eleganza e l’armoniosità del suo stile, Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio nacque in Africa intorno alla metà del III secolo d.C. o poco dopo: era infatti vecchissimo attorno al 316 d.C. secondo le scarne notizie che san Girolamo ci ha lasciato nel suo De viris illustribus (LXXX):

[LXXX] Firmianus, qui et Lactantius, Arnobii discipulus, sub Diocletiano principe accitus cum Flavio Grammatico, cuius de Medicinalibus versu compositi exstant libri, Nicomediae rhetoricam docuit, et penuria discipulorum, ob Graecam videlicet civitatem, ad scribendum se contulit. Habemus eius Symposium, quod adulescentulus scripsit; Odoiporikòn de Africa usque Nicomediam, hexametris scriptum versibus, et alium librum, qui inscribitur Grammaticus, et pulcherrimum de ira Dei, et Institutionum divinarum adversum gentes libros septem, et Epitomèn eiusdem operis in libro uno acephalo, et ad Asclepiadem libros duos, de persecutione librum unum, ad Probum Epistolarum libros quatuor, ad Severum Epistolarum libros duos; ad Demetrianum, auditorem suum, Epistolarum libros duos; ad eundem de opificio Dei, vel formatione hominis, librum unum. Hic extrema senectute magister Caesaris Crispi, filii Constantini, in Gallia fuit, qui postea a patre interfectus est.

e in una nota del Chronicon (ad annum 316 p.Chr.n.):

Crispus et Constantinus filii Constantini et Licinius adulescens Licinii Augusti filius Constantini ex sorore nepos Caesares appellantur. Quorum Crispum Lactantius latinis litteris erudit vir omnium suo tempore eloquentissimus sed adeo in hac vita pauper ut plerumque etiam necessariis indiguerit.

Fu allievo di Arnobio – il celebre retore di Sicca Veneria in Numidia che si era convertito al Cristianesimo non più giovane – e come il maestro accostò ad una profonda conoscenza della cultura classica uno spirito confuso dal punto di vista dottrinale ma proteso verso la figura di Cristo salvatore e giusto giudice. Sulle orme di Arnobio, Lattanzio divenne retore insigne: per la sua fama, verso il 290 d.C. fu chiamato da Diocleziano a Nicomedia di Bitinia – la città che l’imperatore riformatore aveva eletto capitale dell’oriente e sua residenza – per insegnare retorica latina là dove si insegnava solo il greco e il latino era parlato come lingua ufficiale e non particolarmente coltivato. Forse per questo sembra che colà egli non raccogliesse grande fortuna con la sua attività di insegnante e si desse alla composizione di opere varie. Purtroppo, nulla ci rimane della sua produzione di questo periodo, antecedente alla conversione, della quale san Girolamo cita il Symposion, opera giovanile su temi di discussione conviviali, l’Odoiporicòn, racconto in esametri del viaggio da Cartagine a Nicomedia, il Grammaticus, trattato erudito.

Non sappiamo con esattezza quando Lattanzio si convertì al Cristianesimo: forse in occasione delle prime persecuzioni ordinate da Diocleziano sul finire del III secolo. Nel 303 d.C. allo scoppio della più violenta persecuzione ordinata dall’imperatore illirico la conversione era comunque già avvenuta, poichè come cristiano dovette rinunciare alla cattedra di Nicomedia. Ridotto in gravi ristrettezze, verso il 306 d.C. per nascondersi dovette anche abbandonare la Bitinia. Vi fece ritorno cinque anni più tardi, forse in seguito all’editto di tolleranza di Galerio del 311 d.C. – che anticipava di un paio d’anni il più famoso analogo editto di Milano promulgato da Costantino. Al periodo della persecuzione risale la prima opera posteriore alla conversione, il trattato De opificio Dei, nel quale Lattanzio illustra l’operato provvidenziale del Creatore attraverso la struttura e le funzioni del corpo umano. Il tema della Divina Provvidenza l’aveva scelto in polemica con l’epicureismo che sosteneva l’indifferenza degli dèi verso gli uomini, dottrina che improntava anche la visione del maestro Arnobio; e nell’opera si rintracciano anche altri elementi di distacco da Arnobio – il quale aveva fatto del suo spirito antirazionalista e della sfiducia nella condizione umana la base della sua ricerca di fede – nell’apertura alla ragione e all’umana grandezza.

L’opera principale di Lattanzio sono le Divinae institutiones, in sette libri; egli stesso la sentì come tale, tanto che ne curò anche una Epitome, un compendio nel quale però aggiunse anche qualche precisazione. Scritte nel 313 d.C. sono una introduzione alla dottrina cristiana e insieme una fervida testimonianza di fede in Cristo. Il titolo stesso si richiama alle opere di istruzione classica destinate al vasto pubblico, ma avverte che l’intento precettistico riguarda qui l’insegnamento divino. Non a caso sono dedicate a Costantino, il principe dell’apertura alla vera fede: con la tolleranza il periodo dell’apologetica nella letteratura cristiana è virtualmente finito e inizia quello della cristianizzazione della società; e mentre gli apologeti – e lo stesso Lattanzio – richiamavano i governanti per ricordargli la triste fine che Dio riservava ai persecutori, ora ai principi spetta la dedica di corsi istitutori. Nell’opera, dopo aver confutato con i primi due libri il paganesimo e l’idolatria, la superstizione e le sue contraddizioni, i libri restanti trattano della ricerca della vera sapienza e degli errori della falsa sapienza, fino ad arrivare a Dio, a Cristo, alla Chiesa, al culto divino e all’immortalità dell’anima. Tre sono le virtù centrali nel cristiano delle Institutiones: la iustitia, cioè l’essere nel giusto, la religio, che conduce alla vera sapienza, e la virtus, cioè la forza morale, l’esercizio eroico delle virtù che permette di resistere al male e fare il bene. Scarsi sono i riferimenti alla Sacra Scrittura, poichè Lattanzio intende dimostrare la superiorità del Cristianesimo usando le armi dei pagani, cioè la filosofia. In questo si distacca ancor più recisamente da Arnobio: non solo la filosofia e la sapienza classica non sono ripudiate, ma anzi sono gli strumenti con i quali ci si può avvicinare alla vera fede. Nella sua visione, l’istruzione classica è necessaria per poter sostenere nel contraddittorio e spiegare con chiarezza di argomenti e ampiezza d’eloquenza la rivelazione divina e la dottrina. Non a caso Lattanzio non manca di lamentarsi che gli scrittori cristiani siano stati fino allora generalmente troppo incolti e non in grado di misurarsi con il pubblico pagano istruito.

Anche Lattanzio, come Arnobio, non manca di errori dottrinali, dei quali il più eclatante è forse il millenarismo contenuto nel settimo libro delle Institutiones, cioè la difesa della tesi secondo la quale il Cristo, dopo il suo ritorno sulla terra, instaurerà un regno per gli uomini che avranno creduto in lui e che durerà mille anni: una sorta di età dell’oro simile a quella che i pagani ponevano invece all’origine del mondo, al termine della quale i malvagi saranno condannati in eterno, mentre i buoni godranno della felicità senza fine del regno celeste. E talvolta manifesta anche una certa confusione dogmatica: in qualche luogo sembra ad esempio tendere ad identificare lo Spirito Santo ora con una ora con l’altra delle altre due Persone della Trinità e non come Persona a se stante. Probabilmente per questo san Girolamo (Epistulae LVIII, 10) scrisse che: Lactantius quasi quidam fluvius eloquentiae Tullianae, utinam tam nostra affirmare potuisset, quam facile aliena destruxit.

Subito dopo le Institutiones, probabilmente sempre nel 313, Lattanzio scrisse il De ira Dei di nuovo contro l’epicureismo, questa volta utilizzando il concetto di giustizia: Dio, in quanto somma giustizia, non solo non si disinteressa del mondo, ma interviene nel mondo manifestando, se necessario, anche la sua terribile ira. Sullo stesso argomento si inserisce il De mortibus persecutorum, databile al 315, in cui è raccontata la giusta fine degli imperatori persecutori dei Cristiani. Essi – è la tesi di Lattanzio – perseguitavano i giusti perchè erano malvagi ed erano malvagi a tutto tondo, non solo in quanto persecutori, perché la loro empietà si era o si sarebbe manifestata anche altrimenti; perciò l’ira divina, espressione della somma giustizia, fece sì che essi morissero di morte tremenda. Altre opere citate da san Girolamo sono perdute; tra esse specialmente importante sembra sarebbe stato l’epistolario, collezione, secondo l’uso già ciceroniano, divisa per destinatario. Gregorio di Tours attribuisce a Lattanzio anche il breve poemetto De ave Phoenice, 85 distici elegiaci sulla fenice, l’uccello che risorge dalle proprie ceneri. Forse si tratta di un componimento giovanile, benchè l’attribuzione sia contestata.

Nel 316 d.C. o poco dopo, mutati i tempi e avviatosi il Cristianesimo alla conquista dell’Impero, Lattanzio andava ad Augusta Treverorum, oggi Treviri in Germania, chiamatovi da Costantino per assumere l’incarico di precettore del figlio maggiore Crispo. Questa è l’ultima notizia che abbiamo della sua vita. Forse a Treviri morì, ma non conosciamo la data della sua morte, benché, dicendolo san Girolamo in estrema vecchiezza al momento dell’incarico, non dovette essere posteriore di molti anni.