Marcus Cornelius Fronto

Africano di Cirta, in Numidia, Marco Cornelio Frontone, il massimo oratore dell’età degli Antonini, nacque poco dopo il 100 d.C. Tra i suoi maestri ricorda Atenodoto e Dionisio, dal che si assume che abbia probabilmente ricevuto la sua formazione ad Alessandria.

Fu famoso maestro di eloquenza e ispiratore di un cenacolo di letterati amici, più che discepoli, tra i quali figuravano il filosofo Favorino, l’eudito Gellio e il grammatico Sulpicio Apollinare. Fu anche istitutore dei figli adottivi di Antonino Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero, che gli sarebbero succeduti nel governo del mondo. Ad essi rimase sempre legato da vincoli di stima ed affetto, anche se Marco Aurelio, che egli aveva cercato di avviare all’eloquenza, gli preferì la filosofia, nonostante l’appassionato calore con il quale esercitava la sua pressione a noi testimoniato dal nutrito epistolario.

Di Frontone non possedevamo nulla finchè, nel 1815, il cardinale Angelo Mai non scoprì in un palinsesto milanese un epistolario; questa scoperta è stata integrata qualche anno dopo da quella di un altro palinsesto vaticano che sembra provenire dallo stesso codice originale del precedente. L’epistolario comprende diversi carteggi di corrispondenza ordinati per destinatario (a Marco Aurelio, a Lucio Vero, ad Antonino Pio, agli amici, nonchè da costoro a lui) e alcune opere in forma di lettera; alcuni testi sono scritti in greco.

Frontone fu il caposcuola di un esasperato ritorno all’atticismo e all’arcaismo. Egli non apprezza il discorso elaborato infiorato di parole ad effetto – i suoi allievi ne lodano la simplicitas e la loquendi polite disciplina. Ammira invece il parlare semplice nel quale la sapiente mano dell’oratore sa inserire parole antiche, ricercate nel vivo lessico quotidiano di Plauto, di Nevio e di Ennio, di Accio e di Catone censore, degli arcaizzanti Lucrezio e Sallustio – insperata atqu inopinata verba – e riesumate per aggiungere quel tocco di colore antico, per colorem sincerum vetustatis appingere. Questo culto della semplicità e della genuinità sfocia però nel culto della parola e contribuisce all’aria di artificio un po’ tediosa della sua prosa; in definitiva scade proprio nei difetti che intende evitare. Egli scarta il meglio del periodo classico – Cicerone, cui riserva buoni giudizi di maniera, Virgilio, Orazio – e si scaglia contro il meglio del nuovo – liquida l’eloquenza di Seneca per mezzo di una perla della sua affannosa ricerca dell’insolito giudicandola subvertenda […] radicitus, immo vero, Plautino ut utar verbo, exradicitus – senza aver nulla da sostituirvi.

I suoi discepoli, però, non senza gratitudine, lo ricordano sempre come un maestro di cultura – Gellio scrive: ad Frontonem Cornelium visendi gratia pergebam sermonibusque eius purissimis bonarumque doctrinarum plenis fruebar, e ricorda che dalle conversazioni con lui si usciva sempre cultiores doctioresque – e della sincera amicizia di Frontone verso gli amici, come li chiama, è ancora una volta testimone l’accento di affettuosa sollecitudine presente nelle sue lettere.

Un giudizio complessivo su Frontone risente inevitabilmente del fatto che nulla ci rimane della sua produzione oratoria. Abbiamo notizia di alcune circostanze in cui egli intervenne in senato, ad esempio una volta per difendere i Cartaginesi e in altra occasione contro i Cristiani (ce ne rimane un accenno nell’Octavius di Minucio Felice), o in tribunale, nel processo contro Erode Attico, ma nessuna altra eco.

Parallelamente, Frontone ebbe un completo cursus honorum: fu questore, edile della plebe, pretore, fino a diventare console nel 143 d.C., e per questa carica sappiamo che pronunciò in senato una gratiarum actio ad Antonino Pio. Fu anche creato senatore da Adriano, in lode del quale tenne un altro discorso in senato. Rifiutò un proconsolato in Asia per quei problemi di salute che non l’avrebbero lasciato fino alla morte.

Non conosciamo l’anno della sua morte. Tra le lettere giunte fino a noi, ve ne è una in cui Lucio Vero gli chiede di narrare le sue gesta contro i Parti, il più grave pericolo per l’impero nel secondo secolo fino alle gravi battaglie contro i Germani che dovrà affrontare Marco Aurelio qualche tempo dopo. Poichè la guerra in oggetto è del 166 d.C. e per i frequenti accenni alle sue tristi condizioni di salute nelle lettere di quel periodo, si assume generalmente che sia morto poco dopo, intorno al 170 d.C., anche se non manca chi, come il Mommsen, ne sposta la data un decennio più avanti.