Ammianus Marcellinus

L’ultimo grande storico latino, e uno dei più grandi, Ammiano Marcellino, nacque intorno al 330 d.C. ad Antiochia. Egli stesso dice di sé (Res gestae XVI, 10, 21):

[10, 21] Unde misso in locum Marcelli Severo, bellorum usu et maturitate firmato, Ursicinum ad se venire [Constantius] praecepit. Et ille litteris gratanter acceptis Sirmium venit comitantibus solis ***[lacuna]*** libratisque diu super pace consiliis, quam fundari posse cum Persis Musonianus rettulerat, in orientem cum magisterii remittitur potestate. Provectis e consortio nostro ad regendos milites natu maioribus adolescentes eum sequi iubemur, quidquid pro re publica mandaverit, impleturi.

Poiché questo passo si riferisce all’anno 357 d.C. e dato che presso i Romani si usciva dalla pueritia a 17 anni per entrare nell’adulescentia, cioè nella giovinezza, che durava fino ai quaranta anni, se ne ricava con buona approssimazione che Ammiano dovette nascere attorno al 330 d.C. o poco dopo.

Antiochia, capitale della provincia di Siria, era allora una città di duecentomila abitanti (secondo Giovanni Crisostomo), dunque una delle maggiori dell’impero assieme a Roma, Costantinopoli, Cartagine e Alessandria. Ed era città favolosa, a sentire gli elogi che ne fecero, oltre lo stesso Giovanni Crisostomo, Libanio e molti altri: fu detta la grande, la pulchra di tutto l’oriente, ricca di patrizie dimore e di splendidi edifici pubblici nei quali gli alti funzionari dell’impero profondevano ricchezze immense. Non a caso era spesso residenza imperiale, soprattutto in occasione delle guerre con i Persiani (vale a dire quasi senza soluzione di continuità, almeno a partire dal IV secolo d.C.), poiché Antiochia era il centro organizzativo e il punto di partenza delle spedizioni militari verso oriente. Ed era centro di cultura, ellenica e pagana ma anche cristiana, se è vero che, come afferma Giovanni Crisostomo, metà degli abitanti era cristiana.

In Antiochia, come nel resto d’oriente, si parlava comunemente il greco, almeno presso gli strati più elevati della popolazione, e dunque era il greco la lingua madre di Ammiano, non il latino che pure egli scelse per la sua opera storica. Egli stesso lo ricorda con qualche orgoglio nella chiosa delle Res gestae (XXI, 16, 9):

[16, 9] Haec ut miles quondam et Graecus a principatu Caesaris Nervae exorsus ad usque Valentis interitum pro virium explicavi mensura, opus veritatem professum numquam, ut arbitror, sciens silentio ausus corrumpere vel mendacio. Scribant reliqua potiores aetate doctrinisque florentes. Quos id, si libuerit, aggressuros, procudere linguas ad maiores moneo stilos.

Il latino lo studiò forse a scuola, poiché si ritiene comunemente che la sua famiglia fu in grado di garantirgli una istruzione adeguata, ma certamente lo praticò, se proprio non lo apprese, per motivi professionali. Fu infatti militare di professione, e nelle carriere pubbliche il latino era indispensabile anche nell’impero d’oriente (e lo resterà anche dopo la caduta dell’impero d’occidente, fino ai primi decenni del VII secolo, finché l’imperatore Eraclio lo abolì in favore del greco).

Si è accennato ad una origine di Ammiano nel ceto borghese, se non ricco. Ed in effetti, pur in mancanza di riscontri precisi, numerosi indizi fanno tradizionalmente ritenere che Ammiano fosse di famiglia curiale, cioè di un ceto piuttosto elevato, cui erano affidate funzioni di tale importanza sociale da farne quasi il perno della società provinciale tardo-antica. I curiali erano infatti responsabili della maggioranza degli aspetti amministrativi delle province, dalla realizzazione e manutenzione delle opere pubbliche (edifici, strade, ponti, porti) all’organizzazione dei giochi circensi; dagli approvvigionamenti di generi alimentari all’organizzazione delle forze di polizia e alla difesa, soprattutto nelle zone di frontiera, del territorio dell’impero dalle occasionali scorrerie dei barbari (fermo restando che, in caso di sconfinamento e invasione di grossi contingenti barbari, era poi compito delle forze di intervento dell’esercito palatino ripristinare la situazione). Ma nel generale bisogno di denaro della macchina statale del tardo impero, soprattutto per far fronte alle spese militari sempre più ingenti, ai curiali era delegato anche il compito di riscuotere le imposte. E tutte queste funzioni erano sotto la loro piena responsabilità, in altre parole erano tenuti a trovare i fondi per le opere pubbliche o a far pagare le tasse con l’obbligo (o la pena) di rispondere di tasca propria in caso di insufficienza o mancanza. Non sorprende che la condizione di curiale divenne sempre più indesiderata (e che fu necessario via via chiuderne le scappatoie prima e renderla ereditaria poi) mano a mano che lo stato romano si sgretolava.

Un modo per essere esentato dalla carica di curiale fu per molto tempo (la possibilità fu progressivamente limitata e infine eliminata) quello di entrare nell’esercito. Il grado competente ai curiali era quello di protector, una sorta di ufficiale di stato maggiore, quindi addetto ai vertici militari, il che comportava, allora come oggi, il non essere vincolato dagli obblighi della vita militare quotidiana (e addirittura non al servizio continuativo) per essere invece impiegato in incarichi di fiducia e missioni speciali. Ammiano, forse per sfuggire a una potenziale vita da curiale, si arruolò molto probabilmente come protector e iniziò la sua carriera militare con il generale Ursicino al tempo dell’imperatore Costanzo II. Con Ursicino fu dal 353 al 359-360 d.C., dapprima in oriente, poi in Gallia per combattere l’usurpatore Silvano, infine di nuovo in oriente per le ultime campagne di Costanzo contro la Persia. Dopo la caduta in disgrazia di Urscino, di Ammiano si perdono le tracce per qualche anno, fino al 363 d.C., quando sappiamo che partecipò alla grande ma sfortunata campagna persiana (era stata concepita come una sorta di soluzione finale del problema persiano) sotto il comando dell’imperatore Giuliano, detto l’Apostata per aver tentato la restaurazione del paganesimo quale religione ufficiale dell’impero. Per esso Ammiano manifestò grande simpatia e conservò immutata ammirazione considerandolo optimus princeps, e lodandone nelle Res gestae le virtù, il comportamento in battaglia, l’equità nell’amministrazione della giustizia – sentita così importante da Ammiano, che giustamente avvertiva nella corruzione e nella prevaricazione del tardo impero le cause della decadenza dello stato e i germi del crollo – il programma politico e di governo.

Dopo la morte di Giuliano in quello stesso anno 363 d.C., in seguito a una ferita riportata in battaglia, e il conseguente fallimento della campagna in Persia, Ammiano si ritirò, sembra nel 364 d.C., a vita privata; fu dapprima nella sua Antiochia, di cui probabilmente fece la base di numerosi viaggi nelle città d’oriente, per poi porre la sua dimora tra le braccia della gran madre Roma, ove si dedicò alla composizione della sua opera storica, le Res gestae. A Roma Ammiano approdò probabilmente nel 378 d.C., forse al seguito del membro della famiglia imperiale Flavio Ipazio (era fratello di Eusebia, la moglie dell’imperatore Costanzo), il quale era stato nominato praefectus Urbis quando era proprio in Antiochia, di dove raggiunse Roma in quel fatidico anno. Era infatti l’anno della sconfitta di Adrianopoli, che tanta impressione, al di là dell’importanza forse eccessiva che la critica storiografica ha attribuito all’evento, fece di certo ai contemporanei. E forse non è casuale che questo greco che in Roma e nei suoi valori credeva, in virtù anche del passato militare, più degli stessi Romani, abbia scelto quel momento così triste e incerto per rigenerarsi alle fonti della Città Eterna e per lasciarvi la sua testimonianza di romanità, le Res gestae.

Le Res gestae, in trentuno libri, abbracciavano l’arco temporale – è lo stesso Ammiano che ce lo dice nelle citate ultime righe dell’opera – che va dal 96 d.C., anno della morte di Domiziano e dell’inizio del principato di Nerva, fino al 378 d.C., anno della battaglia di Adrianopoli, nella quale ad opera dei Goti trovò la morte l’imperatore Valente. L’opera prosegue quindi la storia imperiale dal punto dove gli scritti tacitiani, gli Annales (che coprono la dinastia giulio-claudia) e le Historiae (che trattano degli eventi che seguirono la morte di Nerone e il periodo della dinastia flavia), si erano interrotti fino all’epoca contemporanea ad Ammiano. La coincidenza non è casuale e nemmeno limitata al significato della pura continuazione cronologica. Di Tacito Ammiano è il continuatore anche sotto il profilo metodologico: egli stesso volle esserlo e sentì di esserlo. Come il suo predecessore, egli sente che per scrivere la storia bisogna andare ai fatti, scrutare le fonti, interrogare, come è possibile per i fatti contemporanei, i testimoni, che l’indagine storica esige accuratezza; e là dove la materia si fa più alta, come quando si narra di Giuliano, la brevità è da bandire (Res gestae XV, 1, 1):

[1, 1] Utcumque potui veritatem scrutari, ea, quae videre licuit per aetatem vel perplexe interrogando versatos in medio scire, narravimus ordine casuum exposito diversorum: residua, quae secuturus aperiet textus, pro virium captu limatius absolvemus nihil obtrectatores longi, ut putant, operis formidantes. Tunc enim laudanda est brevitas, cum moras rumpens intempestivas nihil subtrahit cognitioni gestorum.

L’incorrotta aderenza alla verità senza amore né odio, che Tacito professò, è esaltata in Ammiano al punto che egli riesce a mantenere una straordinaria equanimità di giudizio nonostante la vicinanza dei fatti, in un periodo inoltre non certo privo di contrasti anche laceranti, laddove persino in Tacito, riguardo gli eventi appena trascorsi al momento di scrivere, si riscontra una certa animosità, come ad esempio nei confronti di Domiziano. La veridicità e l’imparzialità di Ammiano sono perciò ritenute tra le più indiscusse presso gli storici antichi. Un esempio è il suo rapporto con la dominante religione cristiana. Ammiano è pagano, forse anche per questo ammiratore di Giuliano, e, nel quadro di una vagheggiata tolleranza religiosa, rifugge dagli aspetti per lui incomprensibili del Cristianesimo: le lotte dottrinali, su cui i cristiani si gettano come cani rabbiosi, nelle Res gestae non hanno quasi posto; il culto tutto cristiano per le reliquie ex ossibus dei martiri è bollato con ripugnanza tutta pagana. Però non esita a giudicare negativamente il divieto imposto da Giuliano a maestri e professori cristiani di insegnare i classici, operato nel tentativo di ripristinare il paganesimo e di colpire i privilegi accumulati dai seguaci del Cristianesimo, ma forse soprattutto di impedire ad esso di impadronirsi dei tesori della tradizione pagana. Del fenomeno cristiano, peraltro, Ammiano non comprende la portata. E se del Cristianesimo apprezza la purezza, la semplicità religiosa testimoniata dalla fedeltà dei martiri, cui guarda con quell’ammirazione che hanno i militari per queste manifestazioni di eroismo, però non comprende l’importanza di indagare sotto la superficie dei fatti il mutato rapporto tra Chiesa e stato, uno degli elementi chiave del basso impero e nucleo dell’imminente Medio Evo.

Dell’opera di Ammiano a noi sono giunti gli ultimi diciotto libri (dal XIV al XXXI), quelli che trattano gli avvenimenti compresi tra il 353 e il 378 d.C., gli eventi, cioè, dei quali l’autore fu testimone diretto partecipandovi, per i primi dieci anni, dall’interno dell’esercito. L’opera fu composta in diverse parti successive, per la pubblica lettura in Roma. Residui, probabilmente, delle cesure originarie nella composizione sono i due brevi cappelli introduttivi al principio dei capitoli XV (sopra riportato) e XXVI. La presenza di una possibile interruzione al capitolo XV fa sorgere l’interrogativo del perché di quella che doveva essere la prima parte dell’opera sia stato salvato il solo capitolo XIV, essendo aggregato alle ultime due parti. Una possibile spiegazione è che il capitolo XIV era anche il primo nel quale fa la sua comparsa Ammiano stesso (che, lo ricordiamo, era entrato nell’esercito proprio nel 353 d.C.) quale personaggio della storia (cfr. XIV, 9, 1). Si può ipotizzare che l’opera fosse stata, forse per comodità, spezzata nei codici manoscritti in due parti, non secondo le cesure apposte dall’autore ma secondo il criterio della presenza o meno dell’autore nella narrazione; è anche possibile che fosse stata pubblicata già in origine in due parti, finite poi in codici differenti. Questa ipotesi sarebbe confermata dall’unica testimonianza diretta superstite dell’opera di Ammiano, la citazione contenuta nelle Historiae di Prisciano (GLK II, 487 = XIV, 1, 4), la quale, oltre all’importanza intrinseca, prova anche che già nel VI secolo d.C. l’opera era spezzata in due parti, essendo i primi tredici libri in codici diversi da quelli dei successivi diciotto.

Esiste in verità un’altra possibile testimonianza su Ammiano (variamente contestata, benché indubbiamente assai calzante e suggestiva), che possederemmo in una lettera di Libanio (datata nel 392 d.C., anno della morte del figlio Calliopio) a un Marcellino suo concittadino e dunque antiocheno. Vi si parla genericamente, con attestati di stima e di incoraggiamento, della presenza in Roma di un Marcellino e delle pubbliche letture, coronate dagli applausi del pubblico, che egli diede di una storia in molte parti. La lettera proverebbe, tra l’altro, che nel 392 Libanio non aveva notizia delle ultime parti dell’opera di Ammiano. Questo aspetto pone la questione delle date di composizione (e di pubblica lettura) dell’opera, per affrontare la quale si dispone di qualche elemento. Posto che Ammiano sarebbe stato a Roma a partire dal 378 d.C., poiché in Res gestae XIV, 6, 19 si parla di un episodio del 384 d.C. (la cacciata degli stranieri da Roma per la carenza di grano causata dal mancato arrivo degli usuali approvvigionamenti via nave) e in XXVI, 5, 14 si cita il consolato di Neoterio del 390 d.C., che è anche l’ultima datazione certa, a parte l’accenno contenuto nella lettera di Libanio, le Res gestae sarebbero state composte e pubblicate tra il 380 e il 395 circa.

In definitiva, si deve ammettere che nulla sappiamo di Ammiano, tranne ciò che egli stesso ha lasciato scritto di sé. Per questo anche l’anno della morte è incerto e può essere solo stimato, in base alla ricostruzione delle date principali della sua vita cui si è fatto cenno, intorno al 400 d.C.